La morte del cavaliere oscuro, in memoria di Mark Lanegan e del nostro ottimismo

L’apprendere, in tarda serata, che a cinquantasette anni se n’è andato Mark Lanegan non fa che passare una mano di viola scuro su questo biennio già di suo così oscuro

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Non arrivano mai belle notizie. Da tempo.

Ci eravamo lasciati con Trump che stava per invadere l’Iran, mentre andava a fuoco l’Australia, guerra e catastrofi ambientali, questo il menu del giorno, scivolo che sembrava destinato a portarci dritti dritti all’inferno. Ci ritroviamo, due anni dopo, con la guerra non più solo ventilata, ma reale, fisica, fatta di trincee e carri armati, altro che hacker e intelligence, la Russia che mostra i muscoli, li mostra Putin, ma va bene lo stesso, mirando all’Ucraina e alle sue risorse, anche in chiave anti-Nato, Kamala Harris, la desaparecida, colei che sembrava destinata a sostituire in un lampo lampeggiante Biden, salvo poi essere rimasta in seconda, forse terza fila, che parla di prima guerra in settant’anni nel cuore dell’Europa ignorando che l’Ucraina non è nel cuore dell’Europa e che per circa dieci anni il vero cuore dell’Europa, i Balcani, sono stati territorio di una guerra devastante, cruenta come solo le guerre fratricide sembrano poter essere, le bollette che salgono e tengono in apprensione tutti, alla faccia della solidarietà e della vicinanza tra popoli.

Non un grande affare, in termini di panoramica, se si pensa che quel che c’è stato in mezzo a questi due scenari apocalittici è stata la vera e propria Apocalisse, quella con i cavalieri, le Madonne che schiacciano i serpenti e tutto quel corredo di immaginario lì, il Covid che per due lunghi anni tiene in ostaggio il mondo, dettando nuove usanze, modificando forse per sempre il nostro modo di vivere.

Ci eravamo lasciati sull’orlo dell’abisso, quindi, e sul medesimo orlo ci ritroviamo oggi, più stanchi e deragliati, fuor di dubbio, apatici, stanchi, spero comunque non disperati.

La chiamano decadenza, la storia ci ha abituato a periodi del genere a fare da contrappunto a quelli nei quali il progresso, l’evoluzione, chiamiamolo come vogliamo, spinge l’umanità a fare il passo successivo. Oscurantismo, imbarbarimento, terrore, medioevo, vai a capire come gli storici decideranno di chiamare questa fase che ci stiamo, Dio voglia, lasciando alle spalle, sempre che le guerre e le catastrofi ambientali non abbiano in effetti la meglio sulla nostra storia, spazzandoci via una volta per tutte. Comunque, sempre la storia ci viene in soccorso, a ogni crollo è seguito un rialzarsi e un procedere in avanti, e mai come i periodo oscuri hanno ispirato l’arte, spingendola a dare il meglio di sé, lì fissa a scrutare dentro le ferite, le macerie, le ombre pronte a esaltare la luce, a darle profondità.

Questo mi aspetto ora, perché in fondo sono un incredibile romantico, il rock ‘n’ roll che accompagna i giorni della ricostruzione, della ripartenza, del boom, la cioccolata e la carne in scatola, le minigonne, baci in piazza a beneficio di camera, insomma, ci siamo capiti.

Invece è tutto piatto, bidimensionale, rassicurante non in quanto portatore di nuove certezze, ma in quanto appoggiato su qualcosa che in quanto vecchio ci viene fatto percepire come inossidabile, un canone trito che non prova neanche a rivitalizzarsi, ma pretende di essere accettato proprio in quanto canone. Niente che sappia raccontarci l’oggi, e dirla tutta neanche lo ieri, piuttosto una foto riciclata di un passato passato, che contando su una familiarità del nostro sguardo col paesaggio possa passare per buona come istantanea fatta al momento. Il pop, che per sua natura dovrebbe ambire a farsi voce di popolo, ammantata per di più di una leggerezza che la cultura sembra non volersi o non potersi permettere, è diventato una specie di giaculatoria, sempre uguale a se stesso, ripetitivo senza essere sciamanico, senza potersi giocare la carta della robotica meccanicità dell’elettronica, semplicemente un cliché che ha la stessa rilevanza di un form precompilato, lo firmi senza neanche leggerlo, tanto è sempre la stessa identica cosa.

Una sorta di paradosso, quindi, con il peggio che ci si poteva aspettare dalla Storia, quella con la esse maiuscola, pensa la sfiga di essere arrivati nel pieno di un periodo di decadenza, e il peggio anche da chi a quella decadenza avrebbe dovuto reagire, almeno in termini artistici e culturali, pensa la mestizia di reagire al nero col grigio.

Non arrivano mai belle notizie, però, mi ripeto, e l’apprendere, in tarda serata, che a cinquantasette anni se n’è andato Mark Lanegan non fa che passare una mano di viola scuro su questo biennio già di suo così oscuro.

Sono nato nel 1969, come Mark faccio parte della Generazione X, pur se scambiato a più riprese per boomer, ma a differenza di Mark Lanegan ho a lungo passato giornate ascoltando la sua musica, lasciando che il suo dolore, distillato generosamente nelle sue canzoni, sia quelle soliste, messianiche, quasi, sempre e comunque funebri, lugubri senza però essere mai grottesche, assolutamente sincere nel loro dimostrarsi doloranti, sia quelle con gli Screaming Trees, band dell’epopea grunge che quasi mai viene ricordata, per ragioni che onestamente sfuggono alla mia comprensione, ma che nei fatti andrebbe celebrata, andava celebrata, ormai è tardi, e tutto suonerebbe tristemente peloso, al pari dei Mother Love Bone, padri spirituali, Mark e i fratelli Conner e l’altro Mark, Pickerell, del genere che vedrà poi nei Nirvana, i Soundgarden, i Pearl Jam e gli Alice in Chain gli epigoni più celebrati. Un delinquente, così ce lo hanno raccontato le cronache rock della metà degli anni ottanta, quando cioè si è affacciato alle scene, con la mitica SST, la label di Greg Ginn, chitarrista dei Black Flag di Henry Rollins. The Winding Sheet, primo album solista di Lanegan uscito nel 1989, quando ancora militava nella band, per la altrettanto mitica Sub Pop di Seattle, vedeva al suo fianco anche un giovane Kurt Cobain, in compagnia del suo sodale Kris Novoselic, in pratica due terzi dei Nirvana, a riprova di come Lanegan fosse in effetti punto di riferimento di quella scena che avrebbe avuto in buona parte più successo commerciale di lui, l’unico picco di Nearly Lost You, contenuta nella soundtrack di Singles di Cameron Crowe, come a riconoscergli almeno sulla carta quel che gli era dovuto. Un artista complesso, Lanegan, dalle molte collaborazioni importanti, oltre a quella con gli Screaming Trees c’è un fugace passaggio nei Queens of the Stone Age, lui già al fianco di Josh Homme anche nelle Desert Sessions, poi con J Mascis dei Dinosaur Jr, al suo fianco nel secondo album solista, datato 1993, Whiskey of Holy Ghost, considerato a ragione un capisaldo del cantautorato rock americano, sorta di monumento alla sua via personale di riproporre la tradizione cantautorale degli USA, tra folk e blues, con un personalissimo tocco di rock d’autore, con i Mad Season di Layne Stanley e Michael McCready, il sodalizio con Isobel Campbell, voce femminile della band scozzese dei Belle and Sebastian, a loro si devono tre album, Ballad of the Broken Seas, del 2004, Sundat at Devil’s Dirt, del 2008, e Hawk, del 2010, come quello con Gregg Dulli degli Afghan Whigs, i Gutter Twins che impatteranno anche in un ispirato Manuel Agnelli, prima che X Factor ce lo portasse via per sempre, i due lavori con l’artista britannico Duke Garwood, forse opere minori in una discografia veramente gigantesca. Un artista complesso, dicevo, una sorta di reverendo ombroso, perfetto per incarnare anni come questi, non fosse che vederlo andar via proprio quando un barlume di speranza sembra farsi spazio sembra quasi il brutto tiro di un destino dispettoso. Mark Lanegan aveva preso il Covid, in maniera pesante, e ce lo aveva raccontato nella sua autobiografia, un libro dal titolo epico, Devil in a Coma. Ieri è morto, non nascondiamoci dietro rassicuranti giri di parole, non se n’è andato, è morto, nella sua villa a Killarney, in Irlanda, lasciando vedova sua moglie Shelley, e orfani tutti noi che con la sua musica siamo cresciuti, nella sua cupa visione del mondo ci siamo riconosciuti, e che avremmo ancora voluto la sua presenza affatto rasserenante lì, da qualche parte nel buio.

L’ultimo lavoro che ci lascia, biografia a parte, è l’album Dark Mark vs Skeleton Joe, dato alle stampe in compagnia con l’ex leader dei The Icarus Line, Joe Cardamore. Un album saturo di suggestioni, ossessivo, inquietante, sciamanico, costruito a distanza, tra l’Irlanda e la California, la pandemia a entrare e uscire costantemente dai testi, dalla poetica, influenzando non solo i testi ma anche le composizioni, martellanti, inquiete, la voce roca di Mark che si è fatta, se possibile, ancora più  profonda. Esattamente quel che è mancato da noi, in Italia, dove si è cantato prevalentemente di cocktail e città esotiche, fingendo che tutto questo sarebbe passato senza lasciare traccia in noi e finendo, giocoforza, per non lasciarne.

Un altro pezzo degli anni Novanta che ci lascia qui soli, dopo Andrew Wood, dopo Kurt Cobain, dopo Layne Stanley, dopo Chris Cornell, dopo Grant Hart. Quella che sembrava una caduta nell’abisso, la decadenza appunto, sempre non accennare a terminare, come in una punizione da mitologia greca, si cade e si cade e si cade, senza mai poter sperare non dico in una risalita, ma almeno in un impatto a terra. Oggi abbiamo anche un altro artista in meno a rendere in musica questo spaesamento, le ombre che prendono profondità delle rare luci. Muore il cavaliere oscuro, altro che Christian Bale, altro che Frank Miller, e con lui tira gli ultimi sospiri anche il nostro ottimismo.

Non arrivano belle notizie, da troppo tempo.