Belfast, Kenneth Branagh firma un film agrodolce da Oscar

Il conflitto tra protestanti e cattolici nell'Irlanda del Nord visto con gli occhi di un bambino, al centro di un vivace microcosmo familiare. Un film tra commedia e tragedia, che diverte e commuove. Sette le nomination. Dal 24 febbraio in sala

Belfast

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Nato a Belfast nel 1960, Kenneth Branagh pesca nei suoi ricordi d’infanzia per scrivere e dirigere il suo lavoro più scopertamente autobiografico. Perché il vero protagonista del suo nuovo film, che prende il titolo della città in cui ha avuto i natali, è un bambino che si trova catapultato nel bel mezzo dei cosiddetti Troubles, lo strisciante conflitto tra protestanti e cattolici nell’Irlanda del Nord.

Buddy (l’esordiente Jude Hill) ha solo nove anni quando, il 15 agosto del 1969, gli scontri invadono il quartiere di Belfast in cui vive con la sua famiglia, dividendo in due la strada in cui, fino al giorno prima, protestanti e cattolici riuscivano a convivere. Quel microcosmo brulicante di solidarietà, umanissimi rapporti di vicinato, ragazzini vocianti che giocano, reso nei toni di un bianco e nero pastoso e scintillante, improvvisamente si ribalta in un inferno, con filo spinato e barricate a sfigurare l’ordinata infilata di dignitosissime casette di mattoni in cui abita una classe proletaria operosa e orgogliosa.

Belfast passa tutto per il filtro degli occhi luminosi del piccolo Buddy, attraverso i quali lo spettatore, assorbendo qualcosa del suo sguardo ingenuo, dolce, a tratti spaventato, osserva la sua famiglia. La madre (Caitríona Balfe) vive la fatica di crescere in relativa indigenza e in gran parte da sola i due figli, non perché il marito (Jamie Dornan) sia un cattivo diavolo – sebbene qualche peccatuccio l’abbia commesso, visto che sono costretti da anni a pagare tasse arretrate, forse per problemi legati alle scommesse –, ma perché nella regione a più alto tasso di disoccupazione di tutto il Regno Unito per lavorare, lui, di professione carpentiere, è costretto a lunghe assenze da casa, dove torna solo ogni due settimane. Meno male che ci sono anche gli impagabili, affettuosi nonni (Ciarán Hinds e Judy Dench) a riempire i momentanei vuoti affettivi, anche se nella vivace comunità di Belfast l’unica cosa che non manca sono persone con cui condividere pezzi di vita.

In aggiunta c’è il mondo ad occhi aperti del cinema, con bizzarri film cavernicoli come Un Milione Di Anni Fa (d’accordo, quello l’ha scelto il padre, vista la presenza di una giovanissima Raquel Welch strizzata in abiti succinti), le macchine volanti di Citty Citty, Bang Bang, i western con uomini veri come Mezzogiorno di Fuoco e L’Uomo Che Uccise Liberty Valance, su cui Buddy proietta anche qualcosa delle sue apprensioni di bambino posto di fronte a una drammatica Storia con la S maiuscola il cui senso, fatalmente, gli sfugge.

Branagh compie una difficile operazione di equilibrismo. Perché sulla carta, Belfast possiede gli ingredienti perfetti per un film elegiaco e nostalgico sui bei vecchi tempi, cui la ricercata confezione in bianco e nero regala un’atmosfera ancora più croccante e struggente. Eppure nel bel mezzo di questo universo quasi fiabesco, irrompe come un’allucinazione la barbarie, con scontri, bombe molotov, auto incendiate, saccheggi.

Le accorte inquadrature di Belfast, divise in due come quel mondo spezzato tra protestanti e cattolici

Allora il padre e la madre, sempre con quel frugoletto vigile e sensibilissimo che coglie ogni più piccola sfumatura nei loro discorsi – spesso l’immagine è divisa in due, mostrando da un lato i genitori che discutono, dall’altro Buddy che li ascolta – devono porsi delle urgenti domande sul futuro. Favoleggiano di trasferimenti in Canada o in Australia, impossibili per una famiglia che a stento riesce a pagare le bollette. Fino a quando un’opportunità più realistica di cambiamento non si materializza per davvero. A quel punto il tema diventa un altro: è possibile abbandonare un luogo che è inequivocabilmente casa?

Branagh ci fa capire benissimo che, nonostante tutte le difficolta, quella Belfast è un luogo magico, circonfuso d’una atmosfera calorosa e irripetibile – non dimentichiamo che la lente attraverso cui lo guardiamo è sempre quella di Buddy, che tende chissà anche un po’ a ingigantirne la bellezza. Il film tocca punte di commozione autentica, capace di mescolare durezza quotidiana, malinconia e paradosso comico. La nonna parla a Buddy di una vecchia pellicola di Frank Capra, Orizzonte Perduto, aggiungendo un dettaglio che il bambino non può capire ma noi spettatori sì, ossia che “non c’erano vie per andare a Shangri-La (il paese da favola del film, ndr) nel nostro quartiere di Belfast”. Ancora, durante un saccheggio, Branagh inserisce una gag – Buddy ruba una scatola di detersivo e per giustificarsi con la madre dice “ma è biologico!” – che poi finisce per ribaltarsi in un momento ulteriormente drammatico.

È questa mistura agrodolce – cadenzata dalle canzoni del musicista irlandese per definizione, Van Morrison – la cifra spericolata di Belfast, che corre sempre il rischio di sembrare troppo conciliante e zuccheroso, come se ritoccasse una realtà invece dura aspra violenta. Eppure, sarà perché lo sguardo di Buddy è quello di Branagh e tutti e due diventano il nostro, il film funziona, stringe il cuore, diverte, commuove, sebbene nello spericolato cambio di toni qualche dettaglio risulti incongruo. A partire proprio dalla fotografia, che per una storia che di base sa di neorealismo alla “i bambini ci guardano” è troppo curata, quasi manierista, anche per le inquadrature costantemente ricercate, l’uso accorto della profondità di campo, i ralenti, la mescolanza tra primissimi piani e levigati campi lunghi dai contrasti sbalzati.

Pur non negando questo retrogusto sospetto – Anthony Lane sul New Yorker ha parlato di un effetto alla Nuovo Cinema Paradiso – a Belfast però, sarà per quella sensazione di adesione totale al racconto da parte di Branagh, lo spettatore finisce per credere. Ci hanno creduto un po’ tutti, anche l’Academy, che alla pellicola ha assegnato ben 7 nomination, tra cui tre per Branagh (film regia e sceneggiatura) e quelle agli splendidi non protagonisti (Hinds e Dench) di un cast che è la spezia essenziale su cui si regge la storia. È un film, oltretutto, che va visto in sala, per apprezzarne l’accorto lavorio formale. E possibilmente anche in lingua originale, per assaporare il suono del particolarissimo accento nordirlandese – così difficile che gli spettatori americani avrebbero voluto i sottotitoli –, cui sono dedicate alcune delle battute più divertenti di Belfast.

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