Prendi una donna, tra cellulari e dichiarazioni d’amore, Marco Ferradini e Syria

Questo è il secondo San Valentino pandemico, senza poi tutta questa vita sociale, e il piatto forte sarà sempre quello, accenderemo la radio e partirà come sempre “Prendi una donna”


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Sui social gira uno di quei post che vengono copiati e incollati, tipo catena di sant’Antonio, solo che è un post innocuo, anzi, volendo anche divertente. Quello che il post chiede, o meglio, che il titolare del profilo che condivide il post chiede ai propri “amici” è di indicare chi, tra i loro cari, è uso non rispondere mai al telefono, almeno non al primo colpo. Si chiede, infatti, se dal rispondere a una chiamata dipendesse la tua vita a chi non chiameresti mai, o, viceversa, se dal non rispondere dipendesse, etc etc.

Bene, credo che senza ombra di dubbio, capitasse davvero una situazione simile a quella proposta dal post in questione, nessuno dei miei familiari o amici chiamerebbe me. Non perché io sia solito disinteressarmi di chi mi chiama, intendiamoci, ma semplicemente perché, per ragioni che mi sfuggono, io fatico proprio a accorgermi che mi stanno chiamando, e novanta volte su cento finisco per richiamare, magari a distanza di pochi secondi, chi mi ha chiamato.

Un po’ è che spesso tolgo la suoneria per evitare che qualche buontempone magari chiami nel bel mezzo della notte, lavoro in un settore nel quale numeri di telefono e mail girano compulsivamente, escudo di conoscere anche la metà di quelli che ne sono in possesso, di qui la scelta di non rispondere mai a numeri che non ho registrati in rubrica, o meglio, di non richiamarli, un po’ perché, e questo è un fatto, spesso sbaglio suoneria, e finisco per scegliere canzoni che magari mi piacciono davvero tanto, ma non sono esattamente le più adatte a farmi accorgere che mi stanno chiamando. Riguardo alle chiamate dei buontemponi, l’ho già raccontato, oltre un anno fa qualcuno, so esattamente chi, fai attenzione, amico, ha messo il mio numero in un sito per scambisti, lasciando il mio nome, non il mio cognome, e cambiando, almeno quello, il nome di mia moglie, facendo sì che per giorni io ricevessi telefonate di impacciati scambisti, sempre e solo uomini, ovviamente, che chiedevano indicazioni su dove e come incontrarsi. Ho scoperto la cosa perché, all’ennesima telefonata, sempre con voce monocorde, quasi da carabiniere che redige un verbale, ho minacciato il mio interlocutore di denunciarlo, fare la voce grossa mi ha portato a conoscere il sito, e a riconoscere la modalità che sapevo il mio “amico” che aveva fatto lo scherzo era solito fare già anni fa, solo che invece che usare i siti per scambisti usava le porte dei bagni degli autogrill. Uno scherzo che può sembrare innocente, ma che innocente non è. In quel caso mi è bastato scrivere pubblicamente che, se la cosa non si fosse fermata, avrei pubblicato certi screenshot di conversazioni private, screenshot che ne avrebbero incrinato un pochino l’immagine di guru pacifista, e zac, la sequela di chiamate si è fermata. Anche questo, ovviamente, ha aiutato a convincermi a non rispondere né richiamare ai numeri che non conosco. Avrò perso suppongo buone occasioni di lavoro, ma se uno vuole trovarmi ha sicuramente altri mezzi che non sia chiamarmi, siamo nel 2022.

Tornando al perché, però, io non risponda neanche alle chiamate dei miei familiari stretti, quasi mai, e al mio scegliere costantemente le suonerie sbagliate, da lì ero partito, credo, c’è che da quando gli smartphone hanno messo tra le possibilità quella di usare una canzone come suoneria, volendo anche personalizzandole, cioè scegliendo una canzone diversa da associare a ogni numero, io, che con la musica lavoro e che ho comunque una passione decisamente forte per la forma canzone, mi sono trovato a dover fare scelte che, confesso, sono sopra le mie possibilità. Mi spiego, come è possibile scegliere una e una sola canzone in grado di rappresentare mia moglie, per questo credo si è deciso di lasciare l’opzione personalizza le suonerie? O a uno dei miei figli, parlo dei due più grandi, i piccoli non hanno ancora il cellulare, viva Dio? È troppo difficile, per cui, dopo aver fissato ore e ore lo smartphone, dopo aver fatto prove con questa e quella canzone, finisco sempre per scegliere brani che neanche un cane dall’udito finissimo, quelli che quando sta per arrivare un terremoto cominciano a abbaiare, come a voler avvertire anche gli umani ottusi, riuscirebbe a sentire. Faccio qualche esempio, così quel che sto dicendo risulterò, immagino, più chiaro. Two Weeks di FKA twigs. Provateci voi a sentire, magari mentre lo tenete in tasca, o mentre è appoggiato da qualche parte in un’altra stanza, a sentire il vostro smartphone che suona per una telefonata, mentre la cantante e performer britannica sussurra le strofe sincopate di questo capolavoro. Teardrop dei Massive Attack. Roads dei Portishead. O que me importa di Marisa Monte. Insomma, un delirio.

Ci sono stati comunque momenti in cui la suoneria era per tutte le chiamate, parenti inclusi, e siccome ancora si viveva in mezzo alla gente, non come ora che si sta spesso se non sempre in casa e comunque, proprio per questo stare sempre o spesso in casa le chiamate sono molte meno di un tempo, un po’ come in Aspettando il sole di Neffa, nessuno chiama e non so chi chiamare, la scelta della canzone era anche un modo per far sapere a chi ci stava intorno, magari anche casualmente, che il cellulare che stava suonando era di uno che la sapeva lunga, c’è chi si adopera per farsi riconoscere con il vestito, chi con un tatuaggio, a me l’idea della suoneria del cellulare sembrava quantomeno meno invasiva e anche più economica. Così c’era il periodo in cui volevo a mio modo far conoscere una canzone che ritenevo fondamentale, Questo corpo de La Rappresentante di Lista, da qualche parte c’è un video, era durante il Sanremo 2019, in cui mentre le intervisto in diretta chiedo a uno dei miei assistenti presenti di chiamarmi, per far sentire loro, lì in promozione, come li stavo spingendo, quello in cui, dopo aver letto Retromania di Simon Reynolds ho deciso di tornare al passato mettendo Word Up dei Cameo, quella sì che potevo sentirla facilmente, quello in cui, potrei definirlo il periodo tamarro, avevo l’intro di Fire Woman dei The Cult, difficile da recepire, troppo poco d’impatto dentro un telefonino, ma sicuramente pronta a lasciarsi andare in una bella cavalcata elettrica, se chi mi stava chiamando non era tra quanti al quinto squillo riagganciano, per non disturbare (io faccio così, e invierei sommessamente a seguire questa modalità, se al quinto squillo uno, uno magari un po’ più solerte a rispondere di me, non risponde, forse è il caso di lasciarlo stare, avrà altro da fare). Di canzoni, ovviamente, nel mio smartphone se ne sono susseguite parecchie, alcune anche tra le poche che ho scritto io, e ci mancherebbe pure altro. Al momento, per le chiamate di chi non vive con me, quelle sono personalizzate, ho Alone Without You di King, fidatevi, anche un sordo sentirebbe quel Na-na-na-na-nà ripetuto nell’intro, prima dello stacco imperioso della band.

Una suoneria che avrei tanto voluto usare, più volte è stata lì lì per finire nelle impostazioni del mio smartphone, ma che per ragioni che immagino qualcuno non appassionato di musica come me faticherà a capire, me faccio proprio una questione teorica, è un jingle che Marco Ferradini ha anni fa composto per me. È un jingle arioso, molto west coast, per voce e chitarra acustica, anzi, per voci, le tracce vocali sono almeno cinque, e chitarra acustica. Si parte da un vocalizzo, con melodia e riposta, che dopo qualche secondo esplode in un Michele Monina alla Crosby, Stills & Nash, armonizzato alla perfezione. Un brano simpatico, ben fatto, funzionale al farsi sentire, parte mosso e si apre a un coro, ma che però trovo inadatto a essere una suoneria. Dovrebbe, semmai, essere la suoneria che gli altri associano al mio numero, nel caso io li chiamassi, a specificare che la chiamata che sta arrivando è appunto la mia, ma io so di essere Michele Monina, non vedo perché dovrei sentirmelo ripetere, seppur dalla voce iconica di Marco Ferradini, ogni volta che qualcuno mi telefona. Ne faccio una questione di coerenza, appunto, teorica, ma per me questi dettagli apparentemente irrilevanti fanno la differenza, qualcuno potrebbe azzardare, a suo rischio e pericolo, prova provata che io abbia un sacco di tempo da sprecare. Del resto è già un lasso di tempo sufficientemente lungo che state impiegando per sentire me che vi parlo delle mie suonerie del telefono, non credo siate nella posizione tale da potervi permettere di darmi del fancazzista. Peccato, sono una brutta persona, perché ai miei figli, specie ai due che lo smartphone non ce l’hanno, la suoneria in questione piace parecchio, forse per la stranezza di sentire una canzone che mi nomina, ignorano, i due, che ce ne sono alcune, a memoria me ne vengono in mente tre, che lo fanno e che sono lì, nel mercato, un dissing, in un caso, due dissing rivolti contro altri nel quale io vengo usato come un manganello, negli altri.

Marco Ferradini, così, tanto per non lasciare la faccenda in sospeso, nel campo del non detto, l’ho conosciuto credo dodici, tredici anni fa, tramite il professore di pianoforte di mia figlia, che con Ferradini suonava, Josè Orlando Luciano, per un po’ di tempo persona che ho molto frequentato, e con cui ho anche fatto qualche progetto interessante. L’idea di conoscere uno che aveva scritto e cantato una canzone come Teorema, per decenni la canzone italiana più trasmessa dalle radio italiane e comunque uno degli evergreen assoluti del nostro pop, mi incuriosiva, perché ho letteralmente divorato Schiavo senza catene, l’EP che conteneva appunto Teorema, oltre che la canzone eponima e Week-end, tutte perle scritte con quel genio mai abbastanza celebrato di Herbert Pagani, come ho divorato Lupo solitario DJ, di due anni più vecchia, uscì nel 1983, una canzone che citava il mio idolo d’infanzia Jackson Browne, idolitudine indotta da mio fratello maggiore Marco, Running on empty lo conoscevo a memoria sin dalle elementari, prima cioè di studiare inglese, e tuttora è uno dei miei cinque album preferiti di tutti i tempi, e Misteri della vita, del 1985. Ho anche apprezzato parecchio canzoni uscite dopo gli anni 80, è chiaro, penso a Aironi, tratto dall’album È bello avere un amico, verso tratto proprio da quella canzone, e qualche altra canzone sparsa qua e là, fino a oggi. Certo, il progetto La mia generazione, che voleva commemorare proprio Herbert Pagani, autore dei suoi testi più iconici, album che lo vedeva collaborare con tanti artisti di rilievo, da Eugenio Finardi a Andrea Mirò, da Ron a Mauro Ermanno Giovanardi, da Alberto Fortis a Fabio Concato, passando per Shel Shapiro, Gloria Nuti, Moni Ovadia, Fabio Treves, Flavio Oreglio e Simon Luca, è assolutamente da recuperare. Anche su quello ho un piccolo aneddoto personale, perché essendo appunto amico del suo pianista, che avrebbe arrangiato tutte le canzoni, ho contribuito a mettere Ferradini in connessione con Syria, che in quel lavoro ha cantato con lui la notissima Albergo a ore, il disco riproponeva canzoni del repertorio di Pagani, penso a L’erba selvaggia o Lombardia, non solo le canzoni che Pagani ha scritto con Ferradini. Sono stato presente nello studio di Cologno Monzese dove Syria ha inciso la sua parte, e confesso che se l’ho sempre stimata tantissimo, una delle voci più intense del nostro repertorio, da troppo tempo tenuta a margine dal mercato, del tutto inspiegabilmente, poter assistere mentre canta in solitaria in studio ha contribuito a acuire la mia stima, perché in studio, prima che ci metta le mani un bravo ingegnere del suono, quello che si sente è esattamente quello che si canta, senza filtri, e Syria ha cantato davvero in modo magico.

Ecco, Marco Ferradini e Syria, due nomi che la discografia dovrebbe coccolare, l’uno capace di sfornare un evergreen, pensateci, quanti degli artisti di oggi potranno mai dire di averne sfornato uno, le canzoni che scompaiono all’orizzonte dopo poche settimane, l’altra non solo di incidere squisite canzoni pop, andando di volta in volta a fare incursioni in altri campi, dall’indie, assai prima che l’indie divenisse di moda, alla dance, col progetto Airys, ma anche a di confrontarsi con pezzi importanti della nostra cultura popolare, penso al lavoro che ha fatto su Gabriella Ferri, qualcosa davvero di prezioso, parlare di suonerie di cellulare mi ha portato a loro, e magari, avessi preso altre strade, ora starei parlando di altri nomi lasciati per strada da un sistema evidentemente fallato, troppo attento all’effimero, senza neanche concentrarsi più sulla forma a discapito della sostanza, fatto di per sé discutibile, ma concentrandosi esclusivamente sui followers, pensa che decadenza. E dire che, almeno Syria di potenziale per sfondare a partire dai followers ce l’avrebbe, solo su Instagram è oltre i centotrentacinquemila, anche se, nel suo caso, pure se avesse deciso di rimanere fuori dai social un discografico sano di mente avrebbe dovuto prenderla nel suo roster, capace come è di muoversi trasversalmente tra i generi, sempre con un piglio personale, e con una altrettanto efficace capacità di bucare lo schermo, l’immaginario che ha costruito, sin da quando ragazzina calcava il paco dell’Ariston, vinse Sanremo Giovani nel 1996, con Non ci sto, via via crescendo sotto i nostri occhi, nostri di chi le ha sempre riconosciuto quel talento, passando dall’essere una popstar smart ai tempi di L’angelo e Station wagon, al mostrarsi alanismorrisettianamente, la Alanis di Thank U, in Come una goccia d’acqua, turbando noi che ancora ce la ricordavamo ragazzina a vincere Sanremo, ignari che in seguito altri turbamenti Cecilia, questo il suo vero nome, ci avrebbe regalato, quando ormai donna avrebbe deciso di giocare sulla sensualità sempre con la medesima leggerezza con cui ha sempre giocato con la voce, intrisa di una romanità profonda. Mica è un caso, appunto, che il suo ultimo impegno sia quello di portare in giro le canzoni di Gabriella Ferri, una che aveva ben presente di come si potesse essere popolare, volendo anche popolana, e al tempo stesso colta, alta, leggera e profonda.

Proprio questi tempi anomali che stiamo vivendo, quelli che sembra nessuno si voglia sentir raccontare, forse a causa dell’occupazione militare di tutti i programmi televisivi da parte di chi sembra non possa parlare d’altro, come se affrontare una anomali poeticamente fosse la medesima cosa che affrontarla da cronisti, proprio questi tempi anomali dovrebbe aver indotto tutti, discografici compresi, a rivedere le proprie priorità, durante le tempeste ciò che risulti troppo effimero è destinato a fare una brutta fine, senza neanche lasciare traccia. Guardare a chi ha fatto la storia, anche quella del pop, con lo sguardo di chi pensa che l’esserci stato debba necessariamente equivalere al non esserci più, ignaro che le mode sono mode, vengono e vanno, mentre i classici sono tali perché c’erano, ci sono e ci saranno, è quantomeno sciocco, se non addirittura deleterio. Specie in un’epoca come questa, nella quale nessuno sembra voler gettare fondamenta durature, convinti che le tendine di Dechatlon siano una buona soluzione per andarci a vivere dentro, aspettate che sciolgo i lunghi capelli e vi venga a parlare della casa costruita nella roccia.

Ripeto, senza nulla voler togliere a Ana Mena e ai suoi reggaeton, o senza guardare con scherno alle cover mascherate da inediti di Tommaso Paradiso, credo che continuare a tenere a mente il valore degli originali potrebbe avere più che un senso. Provateci voi, oggi, a scrivere una canzone che già dalle prime tre parole, neanche troppo ricercate, forse oggi addirittura impronunciabili, il MeToo, il politicamente corretto, quella roba lì, una canzone che già dalle prime tre parole apra immediatamente un file, fateci provare a Sangiovanni o a Rkomi, dai.

Intanto si avvicina San Valentino, il secondo San Valentino pandemico, senza poi tutta questa vita sociale, e il piatto forte sarà sempre quello, accenderemo la radio e partirà come sempre “Prendi una donna”, scritto e cantato dallo stesso che mi ha mandato una suoneria del cellulare che ha per ritornello il mio nome e cognome.