After Love, il film inglese dell’anno è un esempio fin troppo tipico di cinema d’autore da festival

Una vedova inglese dopo il lutto scopre la doppia vita del marito pakistano. Ottima la protagonista Joanna Scanlan. Ma il mix di rarefazione stilistica e impennate melodrammatiche dell’esordio di Aleem Khan suona furbo. Da oggi al cinema

After Love

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After Love: lancio alla Settimana della Critica di Cannes nel 2020 (poi Toronto e London Film festival), dominatore ai British Independent Film Awards del 2021 con 6 premi (tra cui film, regia, attrice, sceneggiatura), pochi giorni fa sono arrivate anche 4 candidature ai Bafta 2022, con addirittura l’esordiente autore anglo-pakistano Aleem Khan posto nella categoria miglior regia accanto a Paul Thomas Anderson e Jane Campion. Quali sono le ragioni del plauso unanime intorno a questo piccolo film britannico, cui Teodora Film dedica da oggi un’uscita piuttosto significativa con circa sessanta copie distribuite?

Mary (Joanna Scanlan, vero centro motore fisico ed emotivo del film) è una donna inglese di mezza età improvvisamente rimasta vedova. Un infarto fulminante le ha portato via il suo Ahmed (Nasser Memarzia), l’uomo cui aveva dedicato tutta la sua vita, decidendo, in un’epoca in cui sicuramente una scelta di questo tipo era ancora più difficile e controversa, di abbracciare la fede musulmana del marito pakistano. Ha imparato a parlare l’arabo, afferma, con un’ironia che non l’abbandona, per capire cosa dicessero di lei i parenti di Ahmed. Adesso è sola, accompagnata soltanto dal suono della voce del marito in qualche vecchio messaggio registrato sul cellulare, in cui lui le ricorda amorevolmente di non restare troppo a lungo, come fa di solito, sulla scogliera ad aspettare il passaggio della nave su cui è imbarcato per una delle sue solite lunghe assenze da casa – è il destino di chi lavora per mare.

Mary quasi subito compie una scoperta sorprendente e scioccante: la doppia vita di Ahmed, che nel portafogli serbava immagini e documenti di una donna, francese, Genevieve (Nathalie Richard), che vive sull’altra costa della Manica. Mary decide di incontrarla. Lei, che sta per traslocare e non sa nulla della morte di Ahmed, la scambia per la domestica mandata dall’agenzia. Mary decide di interpretare quel ruolo, ed entra nella vita della donna, che ha pure un figlio adolescente, Solomon (Talid Ariss), avuto naturalmente con Ahmed. Lo sconvolgimento delle vite dei tre personaggi è solo questione di tempo.

After Love è un film indubbiamente emozionante, con una sceneggiatura di semplice intensità, che comprime nello spazio di una durata saggiamente tenuta dentro l’ora e mezza un grumo di emozioni brucianti. Lo stile è quieto, rallentato e minuzioso come si addice a un’opera esplicitamente da cinema indipendente. E anzi, sottraendoci un po’ al plauso generalizzato che l’ha accolto, dobbiamo dire che il film di Aleem Khan è fin troppo tipico nella sua volontà di corrispondere perfettamente a quei canoni, insieme raffinati, studiati e ripetitivi di certo cinema d’autore da festival. Che prediligono una ostentata lentezza, un montaggio disteso e senza concitazione, una tendenza alla contemplazione, dialoghi scarni ed essenziali che però poi affondano chirurgicamente nel dolore dei personaggi, mostrato senza eufemismi.

After Love aggiunge di suo un accorto uso dei mezzi espressivi, a partire dal prologo, in cui vediamo in un piano sequenza in campo lungo e a camera fissa il dialogo apparentemente qualunque tra Mary e Ahmed, alla fine del quale il marito non risponde più alla moglie. Mary indossa la veste bianca del lutto che sigilla la sua distanza emotiva dalla grande famiglia pakistana che le è intorno. E la sua fisicità sovrappeso, che la protagonista osserva scrupolosamente allo specchio, diventa la cifra del racconto. Il corpo, come ha sottolineato lucidamente l’interprete, si fa autobiografia, con la donna che ritrova sulla carne incisi i segni della propria storia personale e delle amarezze d’una vita.

E però After Love sembra condurre questo gioco di “segreti e bugie”, come recita la frase di lancio del film che rimanda al capolavoro di Mike Leigh, in una maniera smaliziata e programmatica che desta sospetti. I dettagli esemplari e i luoghi comuni si sprecano: l’ostentata levigatezza formale, le bianche scogliere di Dover, il capitano di lungo corso, i messaggi in segreteria che la protagonista riascolta troppe volte – doppiati da nastri magnetici e videocassette con la voce e il volto di Ahmed a segnare i sovrabbondanti picchi melodrammatici –, i controluce il vento e i gabbiani, due donne e due lingue, la maternità negata, lutti, cicatrici del passato, l’omosessualità del ragazzo, la volontà di ricomporre il conflitto nella serenità di una famiglia ovviamente allargata. Tutto esageratamente preciso ed edificante. Al punto da suonare furbo.

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