Sanremo 2022, prima serata: le pagelle di Michele Monina

I migliori: La Rappresentante di Lista, Noemi e Michele Bravi. I peggiori: Rkomi, Achille Lauro e Ana Mena


INTERAZIONI: 429

AMADEUS 4

Amadeus continua a tenere l’Italia nel dubbio: ci fa o ci è? Dietro quella sua finta modestia, se sei modesto non ti chiami Amadeus e non fai un programma che coincide per filo e per segno con la tua idea di musica, qualcosa che si avvicina parecchio alla mia idea di inferno, e quel continuo giocare con gag e battute che non farebbero ridere neanche fossimo tutti sotto allucinogeni, tutti tranne lui, che infatti ride di se stesso, lasciandoci a disagio, si nasconde un uomo che è fermamente convinto che il Festivalbar sia la massima espressione artistica presente in Italia, e non sto parlando solo di musica, e quindi ha deciso di ammorbarci per il terzo anno di fila con uno spettacolo lunghissimo, estenuante, dentro il quale la musica spesso discutibile in gara è poco più che un accessorio. Come se già non bastasse tutto quello che ci è successo dal 2020, ci voleva pure un Amadeus Ter, Dio mio.

FIORELLO 3

La storia dei due che sono partiti assieme e si erano promessi che se uno dei due fosse arrivato fin lì l’altro sarebbe stato al suo fianco ce l’hanno raccontata nel 2020. Quella dell’amico che sostiene l’altro nel momento in cui c’è da affrontare una prova difficile, l’assenza di pubblico, gli spettatori sotto pressione a casa, nel 2021. Stavolta ci hanno raccontato la favoletta dell’amico che non vuole più sentirne neanche parlare, ma all’ultimo non resiste e arriva in riviera per stare ancora una volta al fianco del fratello di sangue. Onestamente il duo, lì a inscenare gag da recita dell’oratorio, le parrucche, i balletti, le battute non esattamente di prima mano, non è che, amicizia a parte, funzioni alla grande, specie se si ragiona in termini del pubblico che col cast si è voluti andare a cercare, un pubblico per cui Amadeus e Fiorello sono due uomini anzianotti che ridono da soli delle loro trovate scemette. L’idea di cinque serate così, per altro lunghe a dismisura ha la stessa gradevolezza che l’apprendere che domattina ci attende una colonoscopia, con l’aggravante di non aver contezza che dopo un tre non ci sia anche un quattro. Un po’ come quei bolsi calciatori che danno vita alle partite tra vecchie glorie, inguardabile. Domani, quando e se salirà sul palco, dubito voglia un confronto diretto con Checco Zalone, mi metterò un laccio emostatico sui coglioni, salviamo il salvabile. 

ORNELLA MUTI 5

Quando eravamo giovanissimi, parlo di me e di mia moglie Marina, molti nel suo quartiere dicevano somigliasse parecchio a Ornella Muti. In effetti qualcosa, più che qualcosa c’era, l’ovale, gli occhi chiari, i lineamenti. A me Ornella Muti non era mai piaciuta particolarmente, e una volta ho osato dirglielo, incappando in una delle mie prime esperienze formative su cosa si possa e non si possa dire all’interno di una relazione amorosa, lezione che serbo ancora in cuore oggi, trentaquattro anni che stiamo insieme. A vederla sul palco dell’Ariston, a fianco di Amadeus, Ornella Muti, non mia moglie, mi viene da pensare che se non fosse stato per la bellezza Ornella Muti non l’avremmo mai conosciuta, meno espressiva delle assi del palco e onestamente anche piuttosto impacciata, ma mi sono guardato bene dal dirlo a mia moglie, che di fianco a me sul divano l’ha seguita pensando esattamente le medesime cose, senza dirle però a voce alta, sia mai che io potessi fraintendere pensando a un qualche calo di autostima.

MANESKIN 5

Se parli male dei Maneskin sei un rosicone che vuole attirare attenzioni, se ne parli bene un sordo che si omologa al pensiero unico imperante. Non esiste una terza via, se non quella della supercazzola che dice e non dice, la vaghezza spacciata per allegoria, volendo anche per poesia. Bravi da un punto di vista scenico, si sono mangiati il palco facendo propri dei cliché anche abusati, dall’ammiccare sexy di Damiano allo scotch nero a forma di x a coprire i capezzoli di Victoria. Pessimi dal punto di vista musicale, tanto rumore (e basi) per nulla. La prossima volta tolgo l’audio, e mi faccio più furbo, o ne approfitto per andare a pisciare, che Sanremo dura una vita. Comunque, per la cronaca, anche io ho pianto come Damiano, ma per motivi diversi. 

COLAPESCE E DIMARTINO 2

Avevamo tutti sperato, senza magari troppo coinvolgimento e impegno, che il successo di Musica leggerissima, l’anno scorso, non li trasformasse in macchiette, ma che fosse un volano per le loro rispettive carriere, rispettabilissime. Invece no, è stato proprio un crollo verticale, e vederli inspiegabilmente ospiti, non si sa per che meriti, vestiti da marinaretti e introdotti da Rovazzi e la Berti lì sull’improbabile Costa Toscana, è qualcosa a metà strada tra il disagio esistenziale e il semplice orrore.

MEDUZA E HOZIER N.C.

L’Italia, checché ne dicano, non ha mai cominciato a esportare il rock. Ha sempre esportato dance, invece, e negli ultimi anni gli alfieri della dance italiana sono i Meduza, gente con la loro techno ha messo insieme sette miliardi di stream. A me la loro musica raccapriccia, ma non faccio testo, io ero tra quelli che quando tutti volevano andare in discoteca proponeva di andare a sentire i Fuzztones in qualche oscuro locale dell’entroterra, ma se superospiti dovevano esserci i Meduza erano il nome da chiamare. Poi, en passant, il momento con l’Ariston che balla, in barba ai DPCM che tengono ancora chiuse le discoteche, è uno schiaffo a chi da due anni non lavora, oltre che la dimostrazione che Amadeus è un tamarro di prima grandezza. 

ACHILLE LAURO & HARLEM GOSPEL CHOIR – DOMENICA 3

“Sono anni che faccio di tutto per distruggere la mia carriera,” ha detto. Avremmo voluto credergli sulla fiducia. Invece no, per il quarto anno di Fila Lauro De Marinis torna sull’Ariston, stavolta facendo un passo indietro rispetto al ruolo di Superospite, e tornando in gara. Lo fa con un coro gospel, e una canzone che se possibile prende quanto di male fatto con Rolls Royce e lo porta un passo più in là, e giocando tutto sull’apparire a torso nudo e scalzo, Iggy Pop mancava alla sua collezione di figurine, e su uno pseudo battesimo che arriva sul finale, senza un motivo sufficientemente intelligente per farlo, a parte far parlare di sé e non della musica discutibile portata in scena, aria fritta con l’odio di tre giorni. Nella sua costante emulazione di Marina Abramovic viene da chiedersi quando finalmente chiederà al pubblico di fargli quello che vuole, senza opporre resistenza, perché io una mezza idea di cosa fare, per dirla con Marcellus Wallace con una pinza e un saldatore, ce l’avrei pure…

YUMAN – ORA E QUI 5

Non ho seguito le finali di Sanremo Giovani, a dicembre, quindi non avevo idea fino a oggi di chi fosse Yuman, se non per il fatto di aver appreso che è uscito vincitore da quel contesto, insieme a due colleghi. L’ho sentito cantare un brano dalle chiare tinte black sul palco dell’Ariston, con una buona preparazione tecnica, e continuo a non sapere chi sia Yuman, perché nulla che resti ha fatto seguito alla sua esibizione. Routinario e irrilevante.

NOEMI – TI AMO NON LO SO DIRE 7

Noemi canta Mahmood. E lo canta non solo nel senso che canta una canzone che Mahmood ha scritto, in compagnia di Alessandro La Cava, astro nascente degli autori da hit italiane e di Dario Faini, vai a capire se come Dario Faini, come Dardust o come DRD, ma anche nel senso che per i tre minuti di canzone prova a applicare la sua vocalità blues e blu al modo di appoggiare la voce sulle strofe tipica dell’autore di Soldi. Un miliardo di parole che si aprono a un bridge spinto e a un ritornello in cui la voce della nostra ha modo di offrire il meglio di sé, il famoso graffio a fare bella mostra di sé. Canzone difficilissima da cantare, non oso pensare a prendere i fiati in mezzo a un testo così lungo.  Brava Noemi, seppure sotto stress. Canzone anche difficilissima da ascoltare, memorizzarla non è affatto facile. Bravi noi, sotto stress. E tocca solo capire se l’ombra di Mahmood non sia un po’ troppo ingombrante.

GIANNI MORANDI – APRI TUTTE LE PORTE N.C.

Che gli si può mai dire a uno come Gianni Morandi, che a settantotto anni si mette in gioco, andando a riprendere il mood di Andavo a cento all’ora (o anche de L’allegria, poco cambia), coi fiati di una Sono tremendo, e portandolo dentro le nostre televisioni con la carica di un ragazzino? Niente. Se non che questo Festival ha un bisogno forsennato di un personaggio come lui, certo non con la sua migliore canzone, ma decisamente in splendida forma e pronto a tenere svegli tutti gli ultraquarantenni che si staranno chiedendo chi diavolo sia Aka 7Seven o Sangiovanni. Vitale. Ma siccome la canzone è davvero bruttina, per non dire orrida, e lui ha anche cantato piuttosto male, preferisco considerarlo alla carriera “ingiudicabile”.

LA RAPPRESENTANTE DI LISTA – CIAO CIAO 8,5

Visto mai che per una volta, non sarebbe il primo caso, i bookmaker si siano sbagliati? Perché Ciao ciao è una canzone trascinante, e l’esibizione di Veronica e Dario, sul palco dell’Ariston, ne è perfetto compendio. E anche perché un brano con un suono internazionale senza star lì a scimmiottare la musica che gira intorno, con per di più un testo, il solo con quello di Dargen D’Amico, a raccontarci l’oggi è già di suo un colpo da K.O. Io li ho scelti come capitani della mia squadra di Fantasanremo, ve lo dico con vanto.

MICHELE BRAVI – INVERNO DEI FIORI 7-

Una bella canzone, che ben si sposa alla voce eterea e intrisa di malinconia di Bravi. Un artista che ha fatto del mostrarsi fragile il proprio punto di forza, fatto di per sé eccezionale e che quando azzecca la canzone giusta, senza giocarsi il trucchetto dell’autobiografismo spiattellato a beneficio di camera, sa davvero assestare la zampata vincente, anche se con la voce sottotono. Bentornato. Ora però vado a farmi due gin tonic per tirarmi su.

MASSIMO RANIERI – LETTERA DI LÀ DAL MARE 5

Massimo Ranieri è uno dei nostri interpreti più talentuosi. Grazie al cazzo, direte voi, mica l’hai scoperto tu. Mai pensato di essere un Amundsen della critica, ma credo che non si può che partire da questa constatazione amichevole per sottolineare il coraggio e l’onestà intellettuale di presentarsi sul palco dell’Ariston, nell’anno in cui ci sono in gara campioni di incassi nati nel 2003, parlo di Sangiovanni e Blanco, con un brano che è una sorta di abecedario della musica d’un tempo, una musica che si sposerebbe alla perfezione con la sua voce, se non fosse che stavolta canta davvero male, sforzando in ogni ritornello, aiutato giusto dal suo essere anche un teatrante, talento ulteriore che viene fuori a ogni passo, ma che forse è fuori tempo massimo ai tempi dello streaming. Noi, ovviamente, vecchi luddisti che si ostinano a preferire l’analogico al digitale non possiamo che alzarci in piedi e applaudire. 

MAHMOOD E BLANCO – BRIVIDI 5

Vincono loro. O vince Elisa. Lo dicono i bookmaker. Loro sono due, e mettono insieme una bella fetta di pubblico giovane, anche se a ben vedere sembrano facilmente sovrapponibili, come mood e anche come stile. La canzone non è male, anche se le loro voci hanno lo stesso appeal, ai miei orecchi, dell’allarme della macelleria di fronte che scatta anche solo al rombo di una moto, forse un po’ meno, due voci per altro che si muovono sullo stesso crinale, quello dal quale vorrei buttarmi anche solo a sentirne uno, figuriamoci tutti e due insieme, mia moglie mi ha fermato mentre cercavo di tagliarmi le orecchie con una tronchese al grido di “voglio essere come Niki Lauda”. Va detto che con di fianco Mahmood che canta qualsiasi canzone alla stessa maniera Blanco sembra Mike Patton. Mahmood è un cannibale, in questo caso, e prova a mangiarselo, col mantello e tutto. Scherzavo, eh. Mettiamola così, forse sono io a essere troppo vecchio per capirli, anche se il fatto che i giovani abbiano una soglia di attenzione ormai di pochi secondi mi induce a pensare che qualche problemino con la tenuta della lunga durata ce l’abbiano di loro, a prescindere da me. Più che brividi conati. Ho chiamato Getir e ho chiesto di portarmi entro dieci minuti dell’eroina. Oh, sono arrivati in tempo. Trenta euro ben spesi.

ANA MENA – DUECENTOMILA ORE 2  

Nel cast degli ultimi Festival abbiamo avuto gente come Elettra Lamborghini o Random, direi che ci può anche stare una cantante estiva come Ana Mena. Una, per intendersi, cui dovremmo tutti volere un po’ di male, visto che mentre finalmente arrivano le tanto attese ferie d’agosto e uno pensa di potersi rilassare in spiaggia, steso su un lettino, ecco che arriva il gruppo di Acqua Gym del vicino villaggio turistico a rompere i coglioni al suono di un orribile reggaeton, orribile reggaeton che sia di Fred De Palma o di Rocco Hunt, non se ne esce, ha lei per voce femminile, ma invece ci fa quasi tenerezza, bella e spaesata a cantare male l’estate, estate che molla il reggaeton per spostarsi sul neomelodico, citando a cazzo Amandoti dei CCCP, mentre fuori c’è la morte. Aridate Maria Nazionale, che almeno c’aveva due zizze tante.

PS

Viste le cazzate che ha detto il suo direttore d’orchestra sulla Michielin e Beethoven immagino che a breve diramerà un comunicato in cui la paragona alla Callas.

RKOMI – INSUPERABILE 2

Lui è l’artista che ha venduto più dischi nel 2021. Cioè quello che ha fatto più stream. Cioè, artista, mhmmm. Cioè quello che in un mondo normale oggi starebbe a godersi i milioni fatti a bordo del suo Yacht, magari lì dalle parti del Costa Toscana dove imperversano Orietta Berti e Rovazzi, e invece sta qui in gara, coi suoi guanti e i vestiti di pelle nera, le chitarre distorte e tutto il resto atto a dimostrare che è sì stato un rapper ma oggi è il nuovo Vasco Rossi. Fortunatamente non abbocchiamo a tutti questi indizi, e questa resta una canzone irrilevante che farà molti stream ma non lascerà traccia negli anni a venire, zeitgeist all’ennesima potenza. Resta da capire non solo perché canti questa mezza cover di Personal Jesus dei Depeche Mode senza essere ricorrere prima a un bravo logopedista, ma anche perché cazzo si è presentato vestito come Batman, con tanto di mascherina, seppure il mantello lo avesse Blanco. Mistero.

DARGEN D’AMICO – DOVE SI BALLA 6.5

Sono anni che la quota alternativa viene occupata da qualcuno che, alla fine, arriva da sconosciuto sull’Ariston e ne scende con una hit che ci farà ballare tutti quanti per mesi. È successo a Lo Stato Sociale, ai Pinguini Tattici Nucleari, a Colapesce e Dimartino e succederà anche a Dargen D’Amico, uno dei più interessanti rapper che il nostro paese abbia mai prodotto, e chiamarlo rapper vuol dire togliergli una buona parte dell’arsenale che nasconde in cambusa, che stavolta decide di raccontarci l’oggi con ironia e leggerezza, lasciando che si surfi sopra le profondità degli abissi, quelli nei quali torneremo a sprofondare da lunedì prossimo. Il risultato finale è un po’ l’amico caciarone che alla festa di fine anno si è fatto un Fernet Branca di troppo e canta uno po’ alla cazzo, ma almeno per tre minuti tutto l’orrore che abbiamo visto prima scompare.

GIUSY FERRERI – MIELE 6.5

La canzone ha una buona atmosfera latina, senza finire dalle parti dei tormentoni estivi, adatta alla voce particolare di Giusy, ma sembra un po’ il corrispettivo delle famose sei ore di sesso tantrico di Sting e con sua moglie Trudy, tanto pubblicizzate ormai una vita fa, bello e tutto, ma non arriva mai l’esplosione finale, l’orgasmo. Magari arriverà con gli ascolti successivi, anche se dubito mi vedrà tra chi ne beneficerà, così, a occhio, per ora è una palla alzata cui non segue la schiacciata a rete. Comunque, siccome lei sta evidentemente sul cazzo a Amadeus, che dopo aver corso per far ascoltare tutte le canzoni in tempi decenti si è fermato e l’ha fatta aspettare per un’ora, direi che un sei e mezzo se lo merita proprio, almeno sulla fiducia.

PS

Il maestro Melozzi suppongo la paragonerebbe a Donizetti, pensando magari che la Lucia Di Lammermoor fosse il suo nome completo all’anagrade, ma passiamo oltre, infierire sarebbe considerato bullismo, immagino.

Continua a leggere su Optimagazine.com