100 anni di Ugo Tognazzi, l’incorreggibile

Nel 2022 lo aspettano una serie di retrospettive, ma che neppure lontanamente potranno tracciare la misura della sua immensa levatura

Frame by Amici miei (1975)


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A commuovere nel ruolo di un petomane, poteva riuscirci solo lui. Mai trovato un altro come Tognazzi che ridendo ti attaccasse l’angoscia. Cento anni dalla sua nascita e una serie di retrospettive che lo aspettano nel 2022, ma che neppure lontanamente potranno tracciare la misura della sua immensa levatura. Dargli del comico era come insultarlo, lui in ogni suo film, in ogni sketch o macchietta trasmetteva una irrimediabile paura della vita, dei suoi mostri, dei suoi tempi morti, delle sue contraddizioni. “Ridere, ridere sempre”, ma come fuga da una realtà atroce, spaventosa anche perchè non chiarita, lasciata lì ad aleggiare con tutto il suo carico di fantasmi. Mai visto un altro così, che in una stagione di attori prodigiosi, Sordi, Gassman, Manfredi, Volontè, Cervi e cento altri, riuscisse ad emergere con quell’inimitabile miscuglio di volgarità e poesia, la perfetta maschera biforme, che ride mentre le spunta una lacrima. Chi poteva commuovere nel ruolo di un petomane? Ma ha pure insegnato, in tempi non sospetti, cosa fosse la satira davvero senza confini, senza ritegno, satira capace di distruggere se stessa per amore di se stessa: oggi usano quelli che la brandiscono per fondare partiti.
Con Raimondo Vianello, ai tempi di “Un, due, tre”, metà anni ’50, albori della televisione, osano dove nessuno era arrivato portando al mezzo popolare tutta la cattiveria dell’avanspettacolo. Le loro macchiette affondano nel grottesco popolare, sono stralunate e crudeli, ma non ridere è impossibile. Vanno avanti, incuranti dei moniti, fino alla catastrofe: pochi giorni prima il Presidente della Repubblica Gronchi è cascato accidentalmente dalla sedia nel palco reale del Teatro alla Scala: loro, figurati se se lo fanno scappare: replicano pari pari la scena, con Ugo che frana per terra e Raimondo che lo fulmina: “Ma chi ti credi di essere?”. “Tutti possono cadere”, risponde l’altro. È abbastanza per la Rai, che forse non aspetta altro: fuori a tempo indeterminato, il programma cancellato. Dopo qualche tempo, decidono di riabilitarli. Li chiamano ai piani alti, “Avete qualche cosa di nuovo?”. Loro, prontissimi: avremmo una cosettina sul papa (Giovanni, bergamasco). Tognazzi parte con l’imitazione: “Mi sun de Bèrghem, porcu…”. Fuori senza neanche sedersi. Un cupio dissolvi che poi era la sua stessa vita, mordere tutto, non lasciare via niente e domani si può anche morire, però amando ogni istante. Poi le strade si divaricheranno, Raimondo si tiene la tivù, Ugo si concede sempre più ai generi “nobili”.
Di una carriera ricchissima, partita dalla rivista più ingrata, passata per la tv e il teatro serio, infine spiaggiata sui cascami di una commedia all’italiana sempre più spietata ma fine a se stessa, Tognazzi resta prigioniero del suo personaggio più indimenticabile, il conte spiantato Lello Mascetti di “Amici miei”. Quello della supercazzora brematurata (supercazzora, con la “r”, nella sceneggiatura era scritto così). Chi se non lui poteva catturare lo zeitgeist, lo spirito del tempo, con un protagonista inverosimile per crudeltà e fragilità? Il Mascetti nei tre episodi di “Amici miei”, affiancato dai degni compari, ne combina peggio di un infame, non ha rispetto né per Cristo né per il diavolo, ma è capace di scene strazianti, che crepano il cuore: i sensi di colpa, subito rintuzzati, per le “villeggianti”, moglie e figlia demente; gli improvvisi scatti di pianto; il fremito d’orgoglio quando, disperato com’è, decide di adottare il nipotino che verrà, e “si chiamaerà Raffaello, come me”. Soprattutto la smorfia, orrenda, definitiva, di lui offeso da “quella majala della emi”, la emiparesi, che tenta di competere in una gara di carrozzine e non ce la fa, tutti lo staccano e lui ringhia e piange come un bambino violentato.
Forse non lo sapeva che stava diventando una maschera eterna, un personaggio imprescindibile. Ma solo lui, con la sua faccia, con la sua umanità spietata, poteva riuscirci. Quei modi di dire, quelle uscite paradossali, la stessa supercazzora o supercazzora, in bocca a un altro escono come pallottole a salve, come stelle di carta. La fine è prematura, anzi prematurata, nel mesto declino chi non trova più spazio. Ingrato è il destino dell’istrione, anche se di enorme qualità. Uno che Tognazzi non lo avremo più perché è stato un irredimibile, un irregolare suo malgrado. La scena di “Io la conoscevo bene” in cui balla sul tavolo fino allo sfinimento è una delle più agghiaccianti nella storia del cinema. C’è un sovrappiù di sincerità, il grottesco che tracima nella realtà e uno si chiede, preoccupato, se quella recita non sia, in fondo, un po’ troppo sincera. Lo stesso col conte disperato e incorreggibile. Nel Mascetti irresponsabile e tormentato straripa l’abissale spleen di un inverno, di una mezza età, di un pomeriggio di infinita rottura di coglioni. Disgraziato, ma quando la figlia resta incinta, non esita un istante: “Il bambino lo adotto io, e si chiamerà Raffaello, come me”. Tognazzi considerava la vita come una donna infinita, temuta e adorata, ma “ridendo, ridendo sempre” ci ha regalato gli immensi e orrendi specchi della vita, nei quali così spesso rifiutiamo di rifletterci