La fama de In Nome Del Popolo Italiano (1971) di Dino Risi, scritto da Age e Scarpelli, è cresciuta nel tempo per la sua capacità di prefigurare momenti fondamentali della storia italiana. Impossibile, infatti, non leggere nel confronto tra l’imprenditore corrotto Lorenzo Santenocito (Vittorio Gassman) e il giudice inflessibile Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi), disposto a tutto pur di mandarlo in galera per l’omicidio di una ragazza, un riflesso dell’epoca esplosiva e polarizzata di Tangentopoli.
Alle cui opposte fazioni il film offre argomentazioni entrambe con buone ragioni. Perché se da un lato Santenocito è un costruttore capace di qualunque bassezza pur di far soldi e salvarsi la pelle, uno che fa internare il padre, olia gli affari con ragazze che si prostituiscono, paga testimoni falsi; dall’altro lato non è meno allarmante Bonifazi, che antepone il teorema accusatorio alla ricerca della verità e se ne frega delle prove. D’altronde, come ci ricorda Guido Vitiello, questa cosa l’aveva già notata anni fa Massimo Bordin, scrivendo che il film di Risi aveva colto con vent’anni di anticipo “come Tangentopoli abbia prodotto in politica il fenomeno Berlusconi, che somiglia a quel Gassman, e in magistratura la cultura di pubblici ministeri che somigliano a quel Tognazzi”. E Santenocito, messo alle strette, dice a Bonifazi che “lei mi fa paura, perché fin dal primo momento ho letto nel suo sguardo una parola agghiacciante, e cioè ideologia. Lei è prevenuto contro di me, lei non è un buon giudice”.
Profetico, In Nome Del Popolo Italiano lo è persino su dettagli apparentemente insignificanti. L’immagine di Santenocito prelevato di peso a un festone da generone romano e trascinato a testimoniare in veste da centurione romano, fa subito pensare a famigerati toga-party di pochi anni fa della destra capitolina, conditi di personaggi come “er Batman” Franco Fiorito. E i festeggiamenti tumultuosi per la vittoria dell’Italia con l’Inghilterra del film – quella euforia del popolo che s’abboffa di panem et circenses dimenticando irresponsabilmente malefatte e crisi del paese – richiamano il recentissimo, incontrollabile corteo nella capitale per il trionfo azzurro agli Europei di calcio, proprio contro l’Inghilterra, durante il quale la gente, fiancheggiata da istituzioni imbelli e compiacenti, s’è sbarazzata come non fossero mai esistite di tutte le prescrizioni sanitarie degli ultimi diciotto mesi.
Col che troverebbe conferma quella teoria di alcuni secondo la quale la storia d’Italia degli ultimi decenni non sarebbe altro che una versione degradata del copione della grande commedia all’italiana, di cui proprio In Nome Del Popolo Italiano costituisce un punto di passaggio storicamente nodale. Masolino D’Amico, autore di uno dei primi tentativi di sistematizzazione del genere per eccellenza del nostro cinema, ha detto che il film di Risi, Age e Scarpelli rappresenta all’alba degli anni Settanta il primo esempio di “commedia sconsolata”, “dove il genere, continuando a cavalcare la tigre su cui era salito, arriva alle conseguenze logiche delle sue premesse e racconta, in sintonia con i tempi, storie ormai irrimediabilmente tristi”. Un cambio di registro confermato dallo stesso Dino Risi: “Con In Nome Del Popolo Italiano si entra in una zona buia, si passa dal sole all’ombra. Negli altri film c’era sempre qualcosa di positivo, che poi è un po’ scomparso, mentre ha preso il sopravvento quello che c’era di negativo, di amaro”.
- Ugo Tognazzi, Vittorio Gasmann, Agostina Belli (Actors)
- Dino Risi (Director)
Non è difficile notare, lo hanno fatto in tanti, le similitudini tra i personaggi principali di questo film e quelli di pellicole precedenti. Santenocito sembra un Bruno Cortona de Il Sorpasso che ce l’ha fatta. E lui e Bonifazi potrebbero ben comparire in una ideale galleria di nuovi mostri che aggiorni quella del film del 1963, che ha sempre tra i suoi autori Risi, Age e Scarpelli. Ma se in quel film, e anche ne Il Sorpasso, campeggiavano soprattutto cialtroni socialmente irrilevanti, con perciò un tratteggio buffonesco che bilanciava le meschinità con una comicità malinconica e affettuosa innescata da soggetti tutto sommato marginali (secondo il modello inaugurato da I Soliti Ignoti), adesso predomina la negatività assoluta del vincente irricuperabile Santenocito, che non può far ridere. Come non fa ridere la cupa ossessione legalitaria del magistrato Bonifazi.
Non è un caso che gli accenni comici de In Nome Del Popolo Italiano appartengano soprattutto a qualche figurina di contorno. In uno scenario però che, dai genitori che sfruttano la figlia entraîneuse fino al “valido public relations man”, come lo chiama Santenocito, insomma un magnaccia ripulito, è abbastanza agghiacciante e ben poco divertente. “Con In Nome Del Popolo Italiano le mie storie hanno cominciato a diventare più nere” spiega Risi, che collega il cambiamento di tono a fenomeni di ordine più generale: “Gli anni Sessanta erano finiti, l’Italia era un po’ più nera anche lei. Invece della commedia del benessere ho fatto la commedia del malessere”.
In un periodo storico già scosso dal primo grande e sanguinoso boato del 1969 della strage di piazza Fontana, che non sarà foriero di nulla di buono, la mostrificazione degli italiani, negli anni che saranno ribattezzati di piombo, è ormai avvenuta. Perciò il decennio, a partire dal film di Risi, sarà caratterizzato da opere sempre più amare, dall’altro allucinante caso di cronaca di Detenuto In Attesa Di Giudizio (1971) di Nanni Loy al venditore d’armi sordiano di Finche C’È Guerra C’È Speranza (1974), dalla ferocissima famiglia-tribù di Brutti Sporchi E Cattivi (1976) di Ettore Scola al padre torturatore di Un Borghese Piccolo Piccolo (1977) di Monicelli, sino a quella plumbea allegoria di un paese giunto al capolinea che è, nel 1979, L’Ingorgo di Luigi Comencini.
Gli elementi comici diventano sempre più residuali, e di commedia continuerà a parlarsi quasi per abitudine, soprattutto per la presenza, tra registi attori e sceneggiatori, degli stessi nomi di sempre. Ma la temperatura è molto diversa, e le spie del cambiamento sono immediatamente visibili già da In Nome Del Popolo Italiano, con la casa del diritto, il palazzaccio del tribunale di Roma, che frana su sé stesso e un paesaggio irreparabilmente inquinato dagli ingegner Santenocito di turno.
Anche le parole non sono più le stesse. Santenocito ama esprimersi in un linguaggio “aderenziale e desemplicizzato” completamente artificiale, che mescola burocratese e gergo tecnologizzante. Nel cinema di Age e Scarpelli la lingua, lo ha rilevato lo storico del cinema Gian Piero Brunetta, è spesso “la chiave magica d’accesso alla comprensione del mondo”, per cui “il viaggio nei labirinti e nei mari dei dialetti e delle lingue è anche un viaggio nella storia dell’Italia che cambia e dell’Italia che non vuole cambiare”.
Quella di In Nome del Popolo Italiano è un’antilingua – secondo la definizione di Italo Calvino caratterizzata dal “terrore semantico, la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato” – e insieme una neolingua orwelliana, impiegata come strumento di controllo e condizionamento sociale, che però diversamente dal romanzo1984 invece di basarsi sull’impoverimento censorio del lessico, punta a una sua esplosione babelica, che ottiene lo stesso effetto, impedendo alla gente normale di orientarsi in un labirinto di espressioni che non significano volutamente nulla di preciso.
Una cortina fumogena, un’arma di distrazione e confusione di massa, usata come copertura da chi detiene le leve del potere politico, economico e culturale, per esercitare indisturbato la sua supremazia. È una distorsione semantica di cui finisce per essere vittima lo stesso Santenocito quando viene incastrato da Bonifazi – “Sono schizologorroioco a livello fenomenologico”, farnetica. E l’unica forma di resistenza che si può opporre a questa deriva è nelle parole antiche, alte e insieme di buon senso recitate da un commesso del tribunale, che cita sonetti come Lo Specchio Der Governo di Giuseppe Gioachino Belli: “Cuanno se vede che lo Stato sbuzzica / e cch’er ladro se succhia tutto er grasso / e ’r Governo lo guarda e nnu lo stuzzica”. Che senza fasulli giri di parole descrivono l’Italia di allora e forse di sempre.