Un Eroe, il ritorno in grande stile del cinema morale di Asghar Farhadi

Dal 3 gennaio in sala l’ultimo film del maestro iraniano due volte premio Oscar. Un carcerato trova e restituisce un tesoro. Diventa il beniamino del giorno. E poi un volgare impostore. Tritacarne sociali e mediatici, in un apologo che lascia il segno

Un Eroe

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La prima cosa che colpisce e lascia ammirati guardando Un Eroe, l’ultima prova del regista iraniano due volte premio Oscar Asghar Farhadi, è semplicemente la luce, la grana fotografica dell’immagine, mai smaltata o aggraziata, ma oggettiva, ostinatamente alla ricerca della restituzione di un quadro che appaia quanto più possibile realistico. Ed è impossibile non provare un moto di nostalgia, perché questo cinema, tanto stilisticamente che contenutisticamente, fa ripensare a uno degli autentici maestri contemporanei, il conterraneo Abbas Kiarostami. Rispetto a lui Farhadi mantiene uno sguardo più “borghese”, nel senso dello spaccato sociale che normalmente indaga nei suoi film, ma sono percepibili le parentele nell’attitudine e nello sguardo.

Chi è l’eroe del titolo di questo film che segna dopo le pellicole di ambientazione europea il ritorno a casa di Farhadi, vincitore anche meritatamente del Gran Premio della Giuria all’ultimo festival di Cannes? È Rahim (Amir Jadidi), un uomo che sta scontando una pena per reati finanziari, perché non è stato in grado di pagare un ingente debito. Nonostante tutto sta cercando di rifarsi una vita dopo la fine del matrimonio con la prima moglie, ha ottenuto la custodia del figlio e ha una nuovo compagna con la quale, quando uscirà dal carcere, vorrebbe sposarsi. È lei, o almeno così ci viene detto, a ritrovare una borsa piena di monete d’oro. La tentazione per Rahim è di utilizzare quel tesoro per cominciare ad estinguere il debito e così uscire di prigione. Ma all’atto di vendere le monete l’uomo, in licenza premio dal carcere, è preso da una crisi di coscienza e capisce di dover restituire il danaro non suo.

Il suo gesto lo trasforma in un eroe, cavalcato dall’istituzione penitenziaria perché aiuta a metterla in buona luce – la prigione ravvede! –, facendo dimenticare lo scandalo del recente suicidio di un detenuto. E anche l’associazione che raccoglie fondi per i bisognosi vede nel caso di Rahim un’opportunità per ottenere maggiore visibilità. In breve diventa Un Eroe, intervistato dalla televisione, premiato con un “certificato di merito” che mostra orgogliosamente come fosse l’attestato della sua redenzione e del suo ritorno, da uomo libero, all’interno della comunità.

Basta poco pero per ricondurre un eroe alla realtà. Il suo creditore non è disposto a perdonarlo e a cancellare il debito, e numerose ombre si addensano sulla sua storia poco chiara. La donna che ha reclamato il denaro e che ora è irreperibile ne era veramente la legittima proprietaria o era solo una truffatrice? Rahim dichiara di essere stato lui stesso a trovare la borsa per risparmiare alla nuova compagna un possibile scandalo familiare, ma la cosa a un certo punto viene a galla, e lui avventatamente, un po’ per paura, un po’ per bisogno, aggiunge mezze verità a mezze menzogne, rendendo ancora più ingarbugliata la situazione, fomentando le reazioni scomposte di media e social, e anche dei dirigenti della prigione e dell’associazione benefica che, dopo averlo usato come fiore all’occhiello per farsi belli, adesso gli si rivoltano contro.

Un Eroe è un congegno di scrittura di precisione matematica, senza una scena o una parola di troppo, che non lascia fiato allo spettatore. Però allo stesso tempo non ha mai il sapore della sceneggiatura scritta a tavolino ma appare, grazie anche alla messinscena naturalistica, come una semplice registrazione di accadimenti reali, ripresi nella semplicità del loro quotidiano fluire – come è nelle intenzioni di Farhadi, un film di finzione che sembri un documentario. Ne emerge, anche grazie alla scelta di ambientare la vicenda non in una metropoli ma in una città di medie dimensioni come Shiraz, uno spaccato sociale compiuto e variegato. In cui, questa è una qualità specifica e strutturale del cinema del regista e sceneggiatore iraniano, ogni personaggio ha le proprie legittime motivazioni.

Il creditore di Rahim non è un aguzzino, ma semplicemente un uomo la cui esperienza l’ha spinto a non fidarsi più di lui, perché troppe ne ha combinate. E il tentativo di cavalcare la notorietà improvvisa di Rahim da parte dell’associazione, non è solo un espediente per farsi pubblicità, ma anche un modo per rilanciare le proprie attività, proprio nel momento in cui stanno cercando soldi per salvare un uomo dalla pena capitale.

Asghar Farhadi, soprattutto nei suoi film iraniani, si dimostra uno dei grandi autori morali del nostro tempo, per il quale il cinema funziona sempre come un dispositivo esemplare che consente di costruire degli apologhi che hanno l’ambizione, senza giudicarlo affrettatamente, di comporre un ritratto dell’uomo e della società contemporanea, con le sue sfaccettature, interrogativi, dubbi e anche miserie. È certamente miserabile il modo in cui Rahim per primo sfrutta la balbuzie del figlio a uso dei media e del pubblico per rendere ancora più toccante la sua storia di criminale redento. Eppure è anche comprensibile, come comprensibili sono le reazioni degli altri protagonisti. Farhadi punta sempre alla massima verosimiglianza e trasparenza dello stile, ed è attraverso di essa cha fa passare le sue notazioni e prese di posizione, che lasciano sempre però allo spettatore la libertà di porsi domande autonomamente – è la ragione per cui il ritrovamento della borsa non viene mai mostrato.

Allo stesso tempo il regista inserisce piccole ma incisive metafore che alludono alla sostanza della storia. La balbuzie stessa del bimbo, segno di una difficoltà, forse dell’impossibilità addirittura di trovare davvero le parole per raccontare una storia e definire la verità. Oppure, proprio all’inizio di Un Eroe, la lenta salita e poi ridiscesa lungo un interminabile scalone di Rahim, che prefigurano la sua vicenda di ascesa e caduta. Fino alla conclusione, che non raccontiamo, una scena apparentemente dimessa e invece di straordinaria perizia formale, che richiama addirittura il fordiano Sentieri Selvaggi e racconta malinconicamente quanto sia difficile vivere in una società confusa e cinica, che non ha più la predisposizione per credere a un’autentica bella storia.

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