Pinocchio, una rilettura visionaria e raggelata del romanzo di Collodi

Matteo Garrone realizza una versione piena di invenzioni di gusto pittorico. Solo che la fiaba per bambini diventa un racconto tutto di testa, cupo e scostante. Ottimo Benigni come Geppetto

Pinocchio

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La prima cosa che lascia abbagliati del Pinocchio di Matteo Garrone è il suggestivo talento visivo del suo autore, la qualità pittorica delle immagini, che richiamano, un riferimento dichiarato dello stesso regista, i quadri dei macchiaioli. E, insieme, il gusto di un cinema che cerca di rimanere artigianale, materico, ricorrendo limitatamente agli effetti digitali cui preferisce il trucco prostetico, così da non smarrire la traccia della fisicità umana che è dietro l’artificio. Un’attitudine che nel caso del burattino, col suo volto palpabilmente legnoso, il dettaglio del cigolio quando si muove e la spessa corteccia sotto cui si vede battere un cuore, raggiunge uno stupendo effetto di verosimiglianza, che riporta la fiaba sul piano di un realismo fantastico affascinante, lontano da un gusto apertamente fantasy.

E realistico vuole essere il mondo raccontato da Garrone, fedelmente legato all’ambientazione del Pinocchio, il quale, come scrive Collodi, “sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece tristo anche lui: perché la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti: anche i ragazzi”. E allora, nonostante il film sia piano di incontri ed esseri stupefacenti, dalla Fata al Grillo Parlante alla figurativamente stupenda Lumaca – che rimanda immediatamente a un altro film di Garrone, Il Racconto Dei Racconti, di cui Pinocchio sembra una postilla, sempre nel segno di un fiabesco corposo e dark –, quel bambino bicefalo fatto di legno e carne si muove in un ambiente polveroso, slabbrato, indigente, una riconoscibile provincia contadina toscana di cui la povertà è il tratto più rimarchevole. A partire da quel padre, Geppetto (Roberto Benigni), che quando il figlio deve raccontare che mestiere fa non dice il falegname, ma “il povero”. Infatti nella prima inquadratura del film lo vediamo lavorare di scalpello non su di un pezzo di legno, ma su una crosta di formaggio dalla quale cerca di ricavare qualche briciola da mangiare.

L’altro elemento che riporta il fantastico su di un piano intimo e concreto è scritto sul volto e nei modi del Geppetto di Roberto Benigni, restituito al meglio delle sue qualità recitative (mancava al cinema da quasi dieci anni). Ed è il suo un padre tenero e affettuoso, mosso da un sentimento d’amore trasparente, che quando s’accorge del miracoloso prender vita di quella creatura si mette a correre per tutto il borgo in piena notte gridando un commovente “M’è nato un figlio”. Garrone sagoma sulle peculiarità interpretative e fisionomiche di Benigni la figura del falegname, ingentilendo un personaggio di cui nel libro di Collodi si dice che “è un vero tiranno, coi ragazzi! Se gli lasciano quel povero burattino fra le mani, è capacissimo di farlo a pezzi!”. E infatti nel testo, contrariamente al film, quando il burattino si brucia inavvertitamente i piedi, Geppetto per dargli una lezione, lo fa piangere per una mezza giornata intera prima di rifarglieli.

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C’è anche in questo Pinocchio l’aspetto cupo di un mondo che, proprio perché caratterizzato da una penuria disperante, è abitato da individui che non hanno alcuna generosità. Il Gatto e la Volpe di Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini (quest’ultimo anche cosceneggiatore insieme al regista) impiccano senza tanti complimenti Pinocchio per sottrargli le monete d’oro (uno dei momenti più dark della favola). E il Direttore del circo (Massimiliano Gallo), una volta che s’è azzoppato il ciuchino in cui Pinocchio è stato trasformato nel Paese dei Balocchi, non ci pensa due volte a cercare di affogarlo per ricavarci una bella pelle di tamburo.

La dolcezza è merce rara perché la cattiveria va a braccetto con la miseria. E ancora di più risalta invece lo spirito caritatevole di Geppetto, che fa ogni cosa per ritrovare il suo bambino, il quale, come gli dice la Fatina che gli perdona qualunque marachella, ha un “cuore buono”. E anche il rosso caldo del suo vestitino richiama metaforicamente la forza della sua diversità, circondata invece dalle tonalità paurosamente smorte e grigiastre di un universo incrudelito, nel quale non sembra esserci spazio per la tenerezza.

Il Pinocchio di Garrone però, sebbene abbagliante, intelligente, sempre in dialogo con il libro di Collodi di cui aspira a essere una versione filologicamente rispettosa – pure con qualche omissione rispetto al testo originale – è anche un’operazione raggelata, cerebrale, del tutto coerente con la poetica del suo regista, ma sostanzialmente priva di un autentico senso del fiabesco e del meraviglioso. Pinocchio è un film esteticamente visionario, ma duro, scostante, antisentimentale, in cui quasi ogni episodio è nel segno della mestizia e dell’incubo – la demoralizzante scuola, con uno sconfortante modello pedagogico in cui maestri sadici impartiscono lezioni a base di bacchettate e inginocchiamenti sui ceci; da cui la comprensibile fuga verso il Paese dei Balocchi, che quasi subito si rivela teatro di accadimenti ancora più cupi e strazianti.

Si fatica perciò a immaginare un pubblico di bambini per questa versione adulta della favola, nella quale i singoli episodi si susseguono come giustapposti, senza che s’accenda mai la fiammella della vertigine romanzesca, il senso ipercinetico delle peripezie, il gusto infantile e monellesco dell’avventura. Pinocchio procede come una scansione di tavole di innegabile fattura pittorica, figurativamente smaglianti, ma ripiegate in sé stesse, col rischio di sembrar più che morali, moralistiche.

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