Roberto Vecchioni mi ha dedicato Ninni, ma ha anche detto che sono più grasso di Gesù

L’altra sera ho condiviso un palco con il professore. Diciamo che non è stata una divisione alla pari, non sarebbe dovuta e potuta essere così


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Penso alla parola professore. È così che chiamano, da sempre, Roberto Vecchioni. A ragione. È stato professore, per mestiere e per passione. Lo è ancora, all’Università, la volontà di non rinunciare mai a un rapporto con i giovani, un rapporto che, stando a quanto ha detto sul palco del Teatro San Rocco di Seregno, è di quella serata che andrò a parlare, è stato più un ricevere che un dare, il compito dell’educatore, ha sottolineato, è quello di tirare fuori quello che gli studenti hanno dentro, e-ducere, non certo di inculcare qualcosa. Penso alla parola professore, e a come nel tempo questa parola sia cambiata, nella concezione della gente comune, mi metto tra loro. Un ruolo che un tempo era di tutto rispetto, proprio per quel compito formativo così fondamentale, ma che, è successo anche ai giornalisti, per dire, col passare degli anni si è impoverito di valori, svilito, è quasi divenuto simbolo di un fallimento, identificativo di una genia di persone più interessate a portare a casa uno stipendio facile, immeritato, che hanno scelto una scorciatoia, la poltrona calda sotto il culo. 

E dire che il professore è anche il modo con cui veniva chiamato anche uno dei miei eroi giovanili, magari non proprio adolescenziali ma giovanili, Franco Scoglio, allenatore mitologico del Genoa e anche della mia Ancona, un riconoscimento, nel suo caso, figlio di un diploma all’ISEF, ma anche un modo per sottolineare il suo essere uno stratega, un tecnico che ricorreva al ragionamento, agli schemi, alla logica, oltre che un oratore dotato di una sua cifra riconoscibilissima, unica, efficace. E dire anche che, nonostante la vulgata nel mentre sia cambiata, il professore è anche uno dei personaggi tv più amati del momento, a capo della banda de La casa di carta, anche lui a organizzare colpi incredibili, progettare l’improgettabile, disegnare nel cielo strategie mai pensate prima di lui.

L’altra sera ho condiviso un palco con il professore. Diciamo che non è stata una divisione alla pari, non sarebbe dovuta e potuta essere così, ma come nel caso del suo rapporto con gli studenti, assolutamente un ricevere più che un dare. È accaduto nella prima serata di una neonata manifestazione, Il Circolo delle 12 Lune, prodotta da Musicamorfosi di Saul Beretta per il Comune di Seregno, città della musica che sorge in Brianza, alle porte della metropoli estesa di Milano, la Milano proprio di Vecchioni. Con noi, sul palco, il maestro Massimo Germini, da oltre vent’anni chitarrista fidato del professor Vecchioni. L’idea era quella di chiacchierare intorno al nuovo libro di Vecchioni, Canzoni, che vede il contributo anche del semiologo Jachia e dello stesso Germini, ma come è mai possibile anche solo sfiorare l’idea di avere sul palco uno dei massimi cantautori italiani, padre della canzone d’autore, quella con gli aggettivi, per intendersi, e pensare di non lasciare ampio spazio alle canzoni, un repertorio che si è sviluppato per oltre cinquant’anni di carriera e che annovera un numero incredibili di quelle che canzoni che tutti conosciamo e amiamo, ognuno immagino abbia la sua preferita?

Il mio compito quindi, ideatore dell’evento insieme a Saul Beretta e al sindaco, Alberto Rossi, e all’assessora alla cultura di Seregno, Federica Perelli, quella di fare da corelatore, ma in qualche modo anche da sparring partner di Vecchioni, lasciandogli agio di raccontare col suo modo da affabulatore genesi e sottotesti delle canzoni che poi sarebbe andato a cantare. Un compito facile, cinquant’anni di canzoni in mano a un autore tanto profondo sono un mare dentro il quale facilissimo pescare e pescare bene, ma anche un compito complicato, proprio perché quando i pesci sono troppi il rischio è di non sapere davvero cosa pescare. A questo ho pensato durante la cena, mentre si chiacchierava di regioni, lui figlio di genitori napoletani cresciuto a Milano, io marchigiano in esilio su al nord, o si chiacchierava di calcio, commentando il sorteggio della sua Inter in Champions League, il Liverpool, e si provava a ipotizzare come mai riuscirà anche quest’anno a salvarsi il mio Genoa, temendo un po’ di faticare a stare al livello di un così fine intellettuale, finendo, un grande classico, per parlare di come sia incomprensibile come le cantautrici siano tenute a margine dal mondo della musica. Quello che però è successo su quel palco, non starebbe a me a dirlo, ma c’ero, non vedo perché dovrei esimermi dal farlo, è stato qualcosa di davvero magico. Vecchioni è un artista di grande spessore, non dico nulla di nuovo, che ha deciso di scrivere canzoni perché, per dirla con Dante, citazione sua, la canzone è la più alta forma di letteratura, e perché, sempre ipse dixit, cantare lo fa stare bene, andando però a scrivere canzoni cercando di scansare l’ovvio, affrontando dei macrotemi, il cuore della sua poetica, quali il doppio, l’amore, non solo quello per la propria compagna, Dio, il significato transitorio della morte, quello della musica intesa come compagna e come mestiere. Sì, sto facendo una carrellata degli argomenti che, nel corso di quasi due ore e mezzo di spettacolo, Vecchioni ha affrontato, io nel ruolo di agente provocatore, alternando grandi vampate di emozioni, il picco nel passaggio che lo ha visto eseguire Le rose blu, dedicata a suo figlio, e Ninni, dedicata invece a me, poi spiego meglio, a momenti anche divertenti, quando si è messo a raccontare aneddoti su Alda Merini o su suo padre, grande giocatore e viveur, il teatro è venuto giù dalle risate, sempre e comunque intenso, emozionante nel senso più ampio del termine, colto e al tempo stesso divulgativo. Un concerto, in pratica, intervallato da vere e proprie letio magistralis, seppur informali e mai accademiche nel senso greve del termine, che sono passate veloci al punto che quando poi è arrivato il momento dei grandi classici, quello che in un concerto concerto sarebbero stati i bis, Sogna ragazzo sogna, La bellezza, Chiamami ancora amore, Luci a San Siro e Samarcanda, ho guardato con sorpresa l’ora, scoprendo che stavamo scollinando le ventitré e mezza. 

Durante la cena, ma lo avevo già anticipato al maestro Germini, ho espresso la richiesta che nella scaletta finisse anche un brano che da anni Vecchioni non esegue più nei suoi concerti, Ninni. Una canzone che parte da un paradosso piuttosto comune in letteratura, un se stesso adulto che incontra casualmente i suoi genitori da giovani, con un se stesso bambino al seguito. Una cosa a metà strada tra Interstellar e Ritorno al futuro, non fosse che Ninni è precedente a entrambe, e dotata di una carica emotiva potentissima, nel mentre il padre era morto (come indicato nel passaggio “fuma piano”). Il motivo della mia richiesta era figlio sia di un semplice fatto, Ninni è la canzone del professore che preferisco, ma è anche una delle mie canzoni in assoluto, quelle che porterei nella famosa isola deserta, l’altra del suo repertorio è indubbiamente Stranamore, brano però improponibile per sola voce e chitarra classica, sia perché, questi due anni di pandemia, uno dei quali passato lontano dai miei genitori e dalla mia città natale, tra agosto 2020 e luglio 2021 non li ho visti se non su Whatsapp e non ho messo piede fuori da Milano, mi ha in qualche modo spinto a ritornare figlio. Sì, perché da padre di quattro figli, destino condiviso con Vecchioni, negli ultimi venti anni sono decisamente stato più genitore che figlio, ma il passare degli anni, il vederli invecchiare, il vedermi invecchiare, mi ha spinto in qualche modo a tornare anche a essere molto figlio, e niente come una canzone come Ninni riesce a rendere bene questa idea. Sentirmela dedicare, confesso, è stato un ulteriore tuffo al cuore, appena stemperato, qualche minuto dopo, quando a un mio fargli notare come in fondo somigliassi non poco all’iconografia di Cristo, di lui si stava parlando, mi ha fatto notare che tra me e quell’icona ci sono giusto una settantina di chili di scarto, in eccesso, essere passati dal sentirsi dedicare un capolavoro a essere sfottuto come “ciccione” è stato la giusta chiusura di una serata che ha messo in campo davvero una rosa incredibile di emozioni, dal divertimento alla commozione, prima parte di una nuova realtà, Il Circolo delle 12 Lune, nome poetico nato da una sinergia tra Comune di Seregno, Musicamorfosi e Osservatorio Astronomico di Brera. Circolo delle 12 Lune che non a caso è stato celebrato prima dei bis, proprio per mano del sindaco e dell’assessora alla cultura che hanno donato a Vecchioni, al maestro Germini, alla Dottoressa Ilaria Arosio, astrofisica dell’Osservatorio di Brera e anche a me, una luna di argilla fatte a mano, opera dell’artista Maurizio De Rosa, contenuta in una scatola in legno dipinta con un cielo stellato, a sua volta dell’artista Naida Tarakcija, sorta di simbolico segno di appartenenza appunto a un circolo che proprio ieri ha visto la luce e che credo proprio ha tutte le caratteristiche per portare a Seregno una bella ventata di musica e parole, come ha fatto notare il sindaco Rossi, indicazione precisa di come la notte potrà passare, come cantato da Vecchioni nel brano con cui dieci anni fa ha vinto Sanremo, Chiamami ancora amore, vedendo ora nella notte questi ultimi due anni passati come agli arresti domiciliari, fisici e emotivi, una ripartenza che già domani sera vedrà un secondo appuntamento, sempre alle 21 e sempre al Teatro San Rocco di Seregno, in compagnia di Extraliscio e Elisabetta Sgarbi. Chi non viene è più grasso di Gesù, mi sembra ovvio.