Jovanotti ha fatto Boom

Un brano che non fa parte di un album, o almeno non ancora, e che è parte del lavoro che ormai da anni Lorenzo sta portando avanti con la produzione di Rick Rubin


INTERAZIONI: 162

Leggenda vuole che in un bordello da qualche parte nei pressi di Aosta una maitresse si fosse stancata di tornare ogni giorno a casa coi vestiti puzzolenti di tabacco. Le maitresse indossavano vestiti, è un fatto. Per questo, anche per questo, ebbe una idea a suo modo geniale, fece preparare un liquore che contenesse una buona quantità di tabacco, così da togliere agli inconsapevoli clienti del bordello la voglia di fumare, delle altre voglie si sarebbero poi occupate le ragazze, a questo erano preposti i bordelli, quando esistevano. Il liquore, a base di frutti di bosco, era in buona parte costituito da assenzio, motivo che spingeva gli avventori a berlo dopo aver dato alle fiamme l’alcool in superficie, ingollando direttamente il bicchierino ancora in fiamme. Tempo pochi giorni e fu chiaro a tutti che il Barabù, questo il nome del liquore inventato dalla maitresse, non era solo un liquore, ma era una via di mezzo tra un liquore e qualcosa che aveva a che fare col tabacco, con le sigarette. Così partì l’usanza di berlo dando in qualche modo vita a una sorta di rituale, arrivato fino a noi, o a quella piccola porzione di noi che lo conoscono. Si riempie il bicchierino, ci si intinge la prima falange del dito indice, si porta al dito un accendino e lo si accende come fosse una candela, lo si porta velocemente in bocca, spegnendolo, poi si prende il bicchierino e lo si ingolla velocemente, per poi passare davanti alla bocca il dito cui si è dato fuoco, come a dire “zitti tutti”, e lo si aspira come si fa con le sigarette. L’effetto è devastante, i gradi del liquore sono cinquantacinque e il mix col tabacco è potente, una vera botta.

Ho sentito questa storia dal titolare di un ristorante a Rhemes Saint George, dentro il Parco del Gran Paradiso, un racconto evidentemente fatto centinaia di volte, mandato a memoria, poco prima lo avevo sentito fare, con le medesime parole, compreso un riferimento ironico al fatto che ormai i bordelli non ci fossero più, commento rivolto al maschio di una coppia eterosessuale, con complicità, una sorta di rito nel rito, comunque abbastanza avvincente da convincere me e Marina, mia moglie, a provarlo, nonostante gli evidenti rischi che portare la barba lunga, parlo ovviamente per me, può provocare nel portare qualcosa in fiamme alla bocca. Il tipo, titolare del locale che porta il nome Le Barmé de l’Ours, ve lo consiglio caldamente, ottimi prodotti cucinati con grande fantasia e cura, del resto, aveva mostrato sempre agli avventori del tavolo a fianco al nostro, a debita distanza, i pannelli di plexiglas, che ho visto in questa occasione per la prima volta da che sarebbero obbligatori, messi anche quelli con fantasia e cura, neanche sembravano dei supporti antiCovid, quanto degli abbellimenti, il tipo ha mostrato sempre agli avventori del tavolo a fianco al nostro un paio di lunghi baffi tenuti nascosti sotto la mascherina, lo ha fatto a distanza, la barba lunga e tenuta a punta la si vedeva bene, baffi che, ha dichiarato, in altri tempi avrebbe portato arrotolati e tenuti su con la cera, ma il Covid costringe lì dentro, prigionieri, ovvio che uno che porta i baffi a manubrio tenuti su con la cera poi si perda in aneddoti vittoriani, non credo al solo scopo di piazzare bevute che, per altro, sono puntualmente offerte dal medesimo possessore dei baffi a manubrio tenuti su con la cera, oltre che del locale in questione. A lato del racconto, ma è un dettaglio irrilevante per l’equilibrio narrativo del testo, il fatto che il dito richiesto per questo rito, immagino non volendo vedere i suoi avventori rivolgersi verso di lui e il suo accendino puntando un dito medio, e essendo la pratica complicata con anulare, mignolo e pollice, l’indice unica scelta percorribile, sia il medesimo rimasto incastrato dentro una porta il giorno di Natale del 2020, causa troppa corrente dentro casa, tutte le finestre lasciate incautamente aperte, dito che si è aperto al mondo come io, orso e brontolone, non sono poi così solito fare, con ampio versamento di sangue, da parte sua, di sacramenti, da parte mia, corsa in farmacia, i Pronto Soccorsi erano da escludersi, causa Covid, e medicamenti fatti alla meglio da me medesimo, punti fatti coi cerottini appositamente inventati, la sensibilità mai più riacquistata, io a immergere proprio la parte offesa nel Barabù, il tipo coi baffi a manubrio occultati dalla mascherina a dargli fuoco, io che comunque non avrei sentito comunque niente, come in certi film esistenziali francesi, o nei remake americani con Keanu Reeves come interprete, eccetera eccetera.

Ora, immagino vi starete chiedendo perché io abbia speso parole e tempo, occupando il vostro tempo e la vostra attenzione, parlando di un liquore aostano di cui, spero, non avevate mai sentito neanche il nome, e lo spero non perché auguri sventura a chi lo produce, ma giusto per non aver sprecato il mio e il vostro tempo dicendovi l’ovvio. Bene, se ho messo sulla tavola ingredienti come un prodotto buono, dal gusto particolare e forte, accompagnato da un rituale bizzarro, facilmente ripetibile ma al tempo stesso evocativo e accompagnato da un aneddoto curioso, l’ho fatto perché volendo introdurre qualcosa che ripercorresse fedelmente tutti questi passaggi, ovviamente traslato nel mio campo d’azione, che non è quello dei superalcolici ma della musica. C’era un tempo, quando già i bordelli erano chiusi, almeno ufficialmente, ma comunque un tempo lontano, nel quale l’uscita di un disco era un momento coperto da un alone di magia. Ci segnavamo le date in cui sapevamo sarebbe uscito il disco di un nostro beniamino, e ce le segnavamo perché quelle date venivano annunciate con un certo anticipo, coprendo il tutto di aspettative e trepidazioni. Spesso, per non dire sempre, l’uscita di un disco, si trattasse di un singolo, vedi alla voce 45 giri, o di un album, i famosi 33 giri, che in realtà erano 33 giri e mezzo, era anticipata da una qualche uscita promozionale, in tv più che in radio, e comunque dalle recensioni dei critici musicali che venivano pubblicate su riviste di settore o sui quotidiani. Le firme dei critici, allora, avevano un certo peso, e tendevano a fidelizzare i lettori: ti fidavi di tal critico, e se lui diceva che un disco era valido lo compravi a scatola chiusa, altrimenti tentennavi, temporeggiavi in attesa che qualcuno che conoscevi lo avesse comprato, magari per ascoltarlo prima di andare a spendere soldi, poi comunque probabilmente finivi per comprarlo. I critici facevano tendenza, erano temuti e comunque avevano un loro peso sul mercato. Per ascoltare i dischi, infattti, non c’era altra via che comprarli. Non c’era la rete, non c’era la pirateria, non ancora i vu cumprà che vendevano cd taroccati in strada, non c’era altra maniera che uscire di casa, soldi in mano, andare in un negozio e comprarli. Se si abitava in posti sperduti, poi, a questo iter andava aggiunto l’arrivare in città, se il disco non era distribuito bene addirittura ordinarlo e poi tornarci a tempo debito. Un rito, quello di fare questa trafila, a volte, se si aveva un negoziante di fiducia, Alta fedeltà di Nick Hornby è stato il libro della vita per molti, anche per questo, si aggiungeva anche il passaggio dell’ascolto in anteprima del disco lì, sul posto, che portava a gustare un prodotto importante, dal gusto particolare, forte. Un album era un prodotto che veniva “fabbricato” con cura, a suo modo prezioso. La musica era preziosa anche in virtù del fatto di avere un prezzo, un costo che spesso prevedeva una scelta a monte, una selezione. Non era possibile, a meno che non si fosse particolarmente abbienti, molto abbienti, avere tutta la musica a disposizione, neanche tutta la musica di un determinato genere, se si era appassionati di un genere specifico, quindi si doveva operare una scelta. Per dire, se compravi dischi con la paghetta, parlo usando il lessico dei miei tempi, non ti potevi permettere che un paio di album al mese, se avevi altre spese magari uno solo, quindi quel disco doveva per forza avere un peso specifico molto alto, essere perfetto. Sbagliare un acquisto, per essere chiari, era  una piccola tragedia, avrebbe in qualche modo compromesso gli ascolti delle settimane successive, perché comprando musica con una certa parsimonia poi un disco lo si ascoltava più e più volte, come a voler ottimizzare la spesa, a renderla sensata. Il primo ascolto di un album in casa, quindi, era un momento a sua volta rituale. Ci si sedeva al buio, diciamo in penombra, perché la musica occupasse tutti i sensi, e si stava lì, per tutto il tempo necessario, in silenzio. Alzandosi giusto il tempo per cambiare il lato del disco, parliamo di vinili, passandoci prima su un panno tipo quello che si usa per pulire le lenti per gli occhiali, o una di quelle piccole spazzoline morbide, fatte appositamente, si appoggiava la puntina e si tornava seduti, in silenzio assoluto, in ascolto, spesso da soli. Su tutto lo sfogliare compulsivamente la custodia del disco, quella che stava dentro la copertina, leggere i crediti, guardare le immagini, studiarne i dettagli per trarne informazioni vitali, da aggiungere a quelle trovate sulle riviste di settore, annotate nelle recensioni. I più esperti di noi, spesso più grandi anagraficamente, ne erano portatori sani, veicoli di informazioni che oggi troviamo in tempo reale sulla rete, anche lì, come la musica stessa, privi di un qualsivoglia valore proprio per la facilità con cui li si può reperire, in mezzo a un oceano di altra musica e informazione.

Oggi, in effetti, tutto questo è venuto quasi del tutto meno. I dischi non esistono più, lo streaming occupa praticamente la totalità del mercato. Non ci sono più neanche le riviste specializzate, tranne quelle di ultranicchia, roba da boomer. I dischi, continuiamo a chiamarli così per praticità, non vengono più annunciati con grande anticipo, spesso l’annuncio è in tempo reale, “è appena uscito il disco di”, i singoli occupano tutto lo spazio, così vuole Daniel Ek di Spotify, il Dio di questa strana religione che si chiama discografia. Le recensioni dei dischi, non dovrei essere io a parlarne, è il mio mestiere, sono diventate giocoforza altro, si racconta qualcosa che chi legge ha con buona probabilità già sentito, e che comunque non dovrà comprare dando modo a quel rito, a quella trafila, ce l’ha già lì, gratis, sul cellulare. Tutto è cambiato, anche la musica stessa. Da tempo gli album erano diventati pieni di riempitivi, brani che allungassero il brodo per arrivare al minutaggio imposto dalla Philips ai Cd, ora si tende a ragionare per singoli, uno al mese, o quando è possibile, le radio contano quel che contano, la televisione porta soldi solo a chi la fa.

È in questa chiave, immagino, che dobbiamo inquadrare il nuovo singolo di Jovanotti, Il Boom, uscito il giorno in cui il nostro ha presentato ai media il Jova Beach Party 2022. Un brano che non fa parte di un album, o almeno non ancora, e che è parte del lavoro che ormai da anni Lorenzo sta portando avanti con la produzione di Rick Rubin, come già successo per l’album Oh vita e per il recente singolo regalato a Gianni Morandi, L’allegria. Un singolo, i titoli stan lì per quello, che vuole evidentemente evocare qualcosa di scoppiettante, di più, una vera e propria bomba, e del resto che Jovanotti negli ultimi anni, dovrei dire decenni, sia tornato quello che ha come intento principale quello di farci muovere il culo, a seguire la testa, come da georgeclintoniana memoria, non è certo un segreto. Nel presentarlo, sui social, lo stesso Lorenzo si è mostrato movimentatissimo, come del resto era accaduto durante tutta l’estate per spingere L’allegria di Morandi, e a un primo distratto ascolto il brano sembra ascrivibile proprio ai brani da danzare in riva al mare, un fuoco nei paraggi, i piedi scalzi che affondano nella sabbia, la voglia di divertirsi e di scatenarsi. Il problema, parlo per me, è che non siamo in estate, vivo in una città senza mare, e ho questa deprecabile tendenza a far muovere prima le testa, e solo in un secondo momento il culo. Per cui l’ascolto di Il Boom non è stato, come mi ero anche riproposto di fare, distratto, disattento, ma tutt’altro. A un ascolto attento, ahinoi, Il Boom appare dai contorni assai diversi, i lineamenti che si mettono a fuoco secondo dopo secondo. Quella che dovrebbe essere una bomba, la nuova L’ombelico del mondo, per intendersi, appare invece come quello che è, la cover venuta male di Boom di Valeria Marini, parlo di musica e di parole, e non sto praticando nessun grado di ironia, manco fossi un alunno del Kenyon College che ha avuto modo di assistere in prima persona al famoso discorso di David Foster Wallace sedici anni fa, una cosa che la ascolti e provi immediatamente disagio, come essere capitati per sbaglio su certi siti del dark web, immagino, ci finisci per sbaglio ma ti senti comunque lo sporco addosso. Una canzone imbarazzante, la peggiore di una produzione che comunque è ormai quasi quarantennale e che annovera perle quali La mia moto o Nuova Era, tirata fuori decisamente nella stagione sbagliata (e nessuna delle quattro stagioni convenzionali sarebbe comunque quella giusta). Non credo sia un caso che, come già successo con L’allegria, presentata come uno dei brani candidati a diventare uno dei tormentoni dell’estate 2021, e invece dimsotratasi un clamoroso flop, fuori dalla top 100 sin dalla prima settimana, con streaming risibili, ormai i singoli si trovano solo lì, e con un impatto nella cultura popolare pari a zero, anche Il Boom stia seguendo passo passo il medesimo cammino. Neanche un capolino in classifica, dove ci sono ancora canzoni uscite un paio di anni fa, quello che tecnicamente viene identificato con un bagno di sangue più che come un flop, la parola flop suona in maniera simpatica, quasi dolce, un bagno di sangue è un bagno di sangue, come se Jovanotti, bombarolo ante litteram, invece di fabbricare la bomba delle bombe, quella da intitolare giustamente Il Boom, avesse sbagliato qualcosa in fase di assemblaggio e si fosse ritrovato a saltare in aria lì, in casa, Unabomber che scompare dalla scena non perché identificato dalla polizia, ma per aver sbagliato quello che assolutamente non avrebbe dovuto sbagliare. Lorenzo, hai voluto provare il Barabù, ma hai la barba troppo folta, avvicinare la fiamma alla bocca, a volte, è davvero pericoloso, ci si brucia.