Torni ad ascoltare Lucio Battisti e per l’ennesima volta ti si stritola il cuore, perché ti riscopri il ragazzo che non puoi più essere

Battisti oltre il grande mare c'è già stato, è tornato, come si diceva, e sembra intuire che il Paese sta perdendo la sua ultima innocenza mentre ondate di furia montano


INTERAZIONI: 250

Certi album non muoiono mai. La batteria, il contrabbasso eccetera di Lucio Battisti è una stilla di eternità che nel tempo s’è fatta stalattite e stalagmite, sale dalla memoria, discende dalla nostalgia, si adorna di formati, dal vinile al compact, al recupero in digitale, all’alta risoluzione a 192khz/24bit, il massimo possibile al momento in termini di resa. Non è una prima volta, quasi tutti i singoli brani erano già usciti nello stesso formato all’interno della doppia raccolta “Masters”, nel 2017-18, ma la Sony ha voluto qualcosa di più: una nuova versione, speciale, disponibile in tutti i formati, fisici e non, con la versione spagnola dell’album (“Lucio Battisti, la bateria, el contrabajo eccetera”) , finora inedita in Italia, oltre al consueto booklet di corredo. Ancora lui: mentre trionfano ragazzi di vent’anni, e già la trap si sfilaccia in varianti interlocutorie, torna dopo 45 anni questo lavoro che non abbiamo mai smesso di cantare. Perchè certi passaggi sono diventati, oltre tutto, modi di dire: “Ma non dovevamo vederci più?”. Un documento sociale. Però, proprio in virtù del quasi mezzo secolo di distanza, s’impone un’analisi storica sul momento della genesi: altrimenti se ne capisce poco e sfuggono i significati, i valori aggiunti, che restano colossali.
La batteria, il contrabbasso eccetera, anzitutto, è insieme disco di rottura e di ritorno, punto a capo e di seguito: dopo l’ordalia di Anima Latina, capolavoro all’epoca frainteso, esempio di progressive evoluto, parto sofferto quant’altri mai, con quelle composizioni così anomale, difficili, intransigenti, col cancellare e rifar tutto di Lucio, mai convinto, con quel missaggio che fece storcere le orecchie a tanti, la voce in mezzo al flusso sonoro, le parole a malapena percepibili, Battisti decide di fermarsi. Ne ha abbastanza. Deve raccogliere le idee. Non vuole restare incastrato a niente. Non vuole sintesi, cerca percorsi completamente nuovi. Per due anni sparisce: non era mai successo un periodo così prolungato fra un disco e l’altro.
Battisti è sparito, Battisti è tornato. Non era mai mancato tanto: dov’è? Che sta facendo? È in crisi? Si ritira? No, ritorna al futuro; riprende a rivestire di musica piccole struggenti storie di ogni giorno. Ma prima ha dovuto passare per l’America, portandosi indietro un nuovo corredo di suoni. Ormai è lontano dal problema delle classifiche, dei primati, anche se trionfa con Ancora tu, letteralmente prosciugato da ondate di vacanzieri a Ostia, sull’Adriatico, sul Tirreno, all’Idroscalo, “il mare dei poveri” di Milano che lo intasano di roulottes senza ruote, minuscole case semoventi che non si muoveranno più, tra insalate di riso e un sole che odora di cemento, di gas, di periferia. Ancora tu va bene, è di nuovo paradigmatica per questa Italia sconfitta, e va bene Battisti, paradigmatico di se stesso. Le sue canzoni a questo punto si asciugano nel tempo, diventano pulsazioni: tutto è ritmico, la sezione di basso e batteria, gl’inserti di tastiere, le chitarre soprattutto. E La batteria, il contrabbasso eccetera si presenta, nuovo specchio dei tempi, uguale e diverso: le canzoni di tutti, le cronache di ogni giorno ci sono ancora, ma sembrano così distanti da due, tre anni fa. È un disco cupo, disilluso, a tratti disperato, di gente che comune che però non gioisce, di storie da niente che finiscono male, di perdenti, personaggi che nel bosco sognano case impossibili, finiscono in manicomio, si rassegnano ad amori e non amori impossibili. L’allegria pazza di Lucio in copertina, che corre sguazzando in un torrente, non ha niente di sereno, sembra quasi isterica. È l’Italia battuta da se stessa, che non ha più tanta forza per sognare, solo per preoccuparsi. Anzi, neppure più quello: vada come vada. Non si aspetta più un domani, lo si subisce e basta, che faccia il minor male possibile. Questa modernità, mai così apparente, ha portato solo frustrazioni.
E Pasolini non c’è più. E il piombo c’è più che mai. Battisti ancora lui, incorreggibile come questa Italia sempre uguale, sempre impenitente. Si spalanca il futuro, il modo stesso di guardare all’America cambia, come fosse improvvisamente più vicina, da toccare un po’ di più, da mitizzare un poco meno. Novità covano sotto la fatica di vivere. La televisione si veste di nuovi colori, che esploderanno anche nei canali privati dirottando i nostri sogni, spogliandoli della loro pelle nostrana che lascerà posto a suggestioni d’oltreoceano. Le stesse che prendono a rimbalzare dalle prime radio libere, ma libere veramente (lo resteranno poco).
Battisti oltre il grande mare c’è già stato, è tornato, come si diceva, e sa, avverte, sembra intuire che il Paese sta perdendo la sua ultima innocenza mentre ondate di furia montano, politica, sociale, spicciola, organizzata. Tutto scoppia. Tutto è sul punto di esplodere e lo sarà di più ancora tra un anno, con Lucio intento a ritoccare ancora il tiro della sua musica, destinata a spostarsi su un funky bianco.
Nella Batteria… c’è la svolta ritmica, canzoni costruite sulla ritmica, dura, compatta, serrata. Canzoni, è a quella forma che si torna dopo gli sperimentalismi di due anni prima. Canzoni che chiedono musicisti adatti e dunque, insieme a presenze consolidate (Radius, Dall’Oglio), vengono reclutati Walter Calloni, Ivan Graziani, gente dinamica, che riesce ad assecondare le nuove pulsazioni di Lucio. Si dirà, all’uscita, che questo è un album minore, non del tutto riuscito, un’occasione persa. Ma di minore c’è solo la vista critica dei giornalisti: è un disco che lambisce la disco-music restandone al di fuori, operazione che solo un artista di personalità può concedersi. È un disco dall’atmosfera ben precisa, nettissima, che torna nei canoni emozionali consueti, che da italiano parla agli italiani, ma con altre vesti, più adatte ai tempi, sciacquate nei suoni d’Oltreoceano. Ed è un disco dove certi momenti, vedi la straziante elegia latina di Respirando, sono destinati ad acquistare rilevanza nel tempo. Si tratta, semmai, di un disco che torna al futuro e non può non patire certi confronti con pietre miliari del passato. Ma se si ascoltano certi momenti, “Ah! Donna tu sei mia… e quando dico mia, dico che non vai più via”, e parte la ritmica delle chitarre, si coglie tutto lo spaesamento di un uomo che non è più tanto sicuro di prevalere nella dialettica dei sessi, che vede la sua compagna sfuggirgli, e la prega, con aggressività, con arroganza ma la prega di non tradirlo più, di restare con lui. Ed è un brano di una presa lancinante, tutto intessuto sulle palpitazioni di una emozione convulsa e rassegnata. Così come è straziante la poesia minimale di Dove arriva quel cespuglio, condannata ad un finale interlocutorio. Peggio ancora, l’alienazione malata, da ospedale psichiatrico, di No dottore. Tutto così implacabilmente ribattuto, secco, metronomico, ma con un’anima immensa, Non ci sono i cambi, gli stacchi, le alternanze di Acqua azzurra o Fiori rosa, già scritte, già sentite, adesso i brani sono omogenei, continui, ossessivi, Lucio prova a dire di più dicendo, a volte, di meno. Almeno all’apparenza. Il valore aggiunto di un disco simile sta qui, nelle atmosfere più rarefatte e più insinuanti che in passato.
Dirà Battisti (riportato, fra gli altri, in “Lucio Battisti – innocenti evasioni”, di Alfonso Amodio, Italo Gnocchi e Mauro Ronconi, Editori Riuniti): “La ritmica che usano [gli americani che gli piacciono adesso, ndA] è quella che sento di più al momento, ma non mi sognerei di copiarli. Vengo da Poggio Bustone e loro chissà da quale angolo d’America: ma dove vai, ma come fai a copiarli senza fare la figura del cretino. Però possiamo benissimo proporre lo stesso discorso musicale, sentire le stesse cose e l’esposizione delle mie emozioni possono risultare completamente differenti”. Le ritmiche, in particolare delle chitarre, in questo disco sono spettacolose: reincise, sovrapposte, ritoccate, sostituite, restano l’intelaiatura, il ricamo di un passaggio storico oltre che artistico. Non si sottolineerà mai abbastanza la personalità musicale di Lucio, troppo orgoglioso per ricalcare pedissequamente schemi non suoi: il musicista di razza si lascia ispirare, poi supera l’originaria suggestione risolvendola in qualcosa di completamente personale. Di suo. Un marchio di fabbrica, come questo lavoro.
Torni ad ascoltarlo e per l’ennesima volta ti si stritola il cuore. Perché ti riscopri il ragazzo che non puoi più essere, perché sospetti che allora stavi meglio, nel piombo, senza i giocattoli onnipotenti, ma, chissà come meglio, perché era un’altra cosa, chi cazzo lo sa perché. Ma parte la tachicardia di Ancora tu e appare il volto di quell’amore adolescente, di quando perdevi l’innocenza, diventavi grande o così credevi, piccolo stupido tenero presuntuoso, e allora guardi in alto e cerchi ancora quel sole sempre uguale ma che dentro te brillava in modo diverso. E ti chiedi cosa è stato della vita, se poteva andare meglio, se tu sei ancora tu o cosa hai perso lungo la strada, se quella canzone, quella voce, quella sinfonia spicciola ti resuscita o ti ammazza, se per caso hai ancora un giro di giostra. Domanda inutile…

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