Drive My Car, tra Čechov e Murakami, un bellissimo film che ha il sapore della vita autentica

Tratto da un racconto dello scrittore giapponese, il nuovo film di Ryūsuke Hamaguchi usa sapientemente le parole dello "Zio Vanja" cechoviano per comporre un grande affresco sul dolore, il senso di colpa, il bisogno di accettazione

Drive My Car

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I frammenti dell’affascinante trittico di episodi del precedente film di Ryūsuke Hamaguchi, Il Gioco Del Destino E Della Fantasia, composti di lunghi dialoghi in automobile, incontri casuali che riaprono e suturano ferite sepolte, l’erotismo come chiave attraverso cui comprendere il senso della vita tornano in Drive My Car, vincitore del premio della sceneggiatura all’ultimo festival di Cannes, nella struttura di un grande affresco di tre ore, che rimescola, ripercorre e restituisce in forma ancora più nitida e chirurgica gli stessi temi.

Il poco più che quarantenne regista nipponico stavolta prende in prestito la storia e le parole di Murakami Haruki – sceneggiando un suo racconto compreso nella raccolta Uomini senza Donne –, che a sua volta s’affida alle parole dello Zio Vanja di Čechov per esprimere compiutamente la complessità dei moventi alla base delle azioni, e soprattutto delle inazioni, dei personaggi. E si tratta in primo luogo degli atti compiuti, e di quelli mancati, del protagonista Kafuku (Hidetoshi Nishijima), regista teatrale affranto dopo la morte improvvisa per un’emorragia cerebrale della moglie Oto (Reika Kirishima), giunta dopo la scomparsa, diversi anni prima, anche della loro bambina.

La traccia di un doppio lutto segna Drive My Car quindi, che infatti comincia due volte. La prima parte, un prologo di circa 40 minuti, alla fine dei quali partono i titoli di testa, attraversa la vita di coppia di Kafuku e Oto. La quale, nell’inquadratura che apre il film, è una silhouette impalpabile ritratta nella penombra del letto in cui i coniugi consumano, come fanno spesso, una notte in cui il sesso s’intreccia alle parole, la tensione erotica si trasforma per lei, sceneggiatrice televisiva, nell’ispirazione per creare dei racconti che riutilizza nella sua professione. Il loro rapporto è però, come Kafuku sa da tempo, fatto di tradimenti continui che lui fa finta di non vedere – e il glaucoma che il regista scopre di avere dopo un incidente d’auto è lo specchio della sua cecità selettiva rispetto ai fatti della sua esistenza.

La morte di Oto recide questo legame intensissimo e produce una cesura profonda, anche rispetto al lavoro – durante una recita di Zio Vanja Kafuku, provato, abbandona lo spettacolo. Lo ritroviamo, due anni dopo e dopo i titoli di testa, in un altro luogo, a Hiroshima, invitato per una residenza artistica in cui dare vita proprio a una nuova messinscena dello Zio Vanja. Che nasce rispettando la sua usuale metodologia registica, ossia prendere interpreti di diversa provenienza, i quali nello spettacolo si esprimono nella propria lingua, producendo una babele che, a scelta, può essere ritenuta tanto una metafora dell’impossibilità di capirsi fino in fondo, quanto – forse più propriamente – della forza di quell’esperanto che è il teatro, in cui la comprensione segue il cemento della comunità che si forma sulle tavole del palcoscenico, che sopperisce all’apparente estraneità delle parole e dei significanti – tra le interpreti c’è anche una donna sordomuta che parla il linguaggio dei segni.

Un’altra figura apparentemente quasi muta è Misaki (Toko Miura), l’autista donna di 23 anni – ha l’età che avrebbe avuto la figlia di Kafuku se fosse sopravvissuta – impostagli dagli organizzatori dello spettacolo. Tutti i giorni guida la vecchia Saab Turbo rossa di cui il regista è gelosissimo – col suo cromatismo acceso stagliato sullo sfondo degli spenti colori nipponici diventa un personaggio fondamentale, e simbolicamente il grumo rappreso delle emozioni a fatica trattenute – e lo accompagna in un tragitto di un’ora in cui Kafuku ascolta su di un nastro registrato le battute di Zio Vanja per memorizzarle, lette dalla scomparsa Oto. La routine della trasferta è destinata a trasformarsi in un confronto serrato, in cui i due personaggi si svelano poco a poco reciprocamente segreti e ferite (Misaki reca la traccia vistosa di una cicatrice sulla guancia), scandite sempre dalla parole di Zio Vanja che riassumono il senso della storia cui stiamo assistendo, il dolore e i rimpianti dei personaggi.

Ha ragione Ryūsuke Hamaguchiquando dice, in un’intervista, che “una delle prove della grandezza di Čechov è la sua capacità di far dire ai personaggi cose che illustrano l’essenza della vita e che nel quotidiano nessuno di noi ha la possibilità o la libertà di dire apertamente”. E il talento del regista nipponico sta nel riappropriarsi di quelle parole – “La mia vita è perduta senza rimedio. Non esiste il passato, l’ho speso stupidamente in sciocchezze, e il presente è terribile per la sua assurdità. Ecco qua la mia vita e il mio amore: dove riporli, che ne devo fare?” – senza ridurle mai a pura esibizione citazionista, facendole invece risuonare come i dialoghi presi di peso dalla vita dei suoi personaggi, gli unici possibili attraverso cui esprimere le loro emozioni.

Drive My Car è un’opera di tessitura finissima, per come mescola dialoghi, silenzi e lingue diverse, in cui ogni piccolo gesto assume un significato esemplare – per esempio il fatto che Kafuku accetti di “lasciarsi guidare” da un’altra persona. La regia minuziosa di Ryūsuke Hamaguchi riesce a intrecciare le storie dei tanti personaggi – c’è anche un attore, ex amante di Oto, cui Kafuku dà il ruolo di Vanja – allo stesso tempo aggrovigliando la narrazione e però poi puntando a uno scioglimento che regali ai protagonisti, alla fine della loro lunga epopea attraverso la sofferenza e il senso di colpa, una possibilità per continuare a stare al mondo in modo più consapevole. Ancora una volta facendo tesoro del testo di Čechov – “Che farci! Bisogna vivere! […] E quando giungerà la nostra ora, noi morremo rasserenati e di là diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, che abbiamo sentito tanta amarezza. E Dio avrà compassione di noi” – in cui si riflette l’intero arco dell’esperienza umana.

Ed è appunto, umanissimo lo spartito del film di Ryūsuke Hamaguchi, che nonostante l’incedere pacato del ritmo narrativo non lascia mai allo spettatore l’impressione della lentezza, con tre ore dense e tutte necessarie –grazie anche al sapiente dosaggio delle svolte e dei colpi di scena – che fluiscono con la naturalezza, l’amarezza e la malinconia della vita autentica.