Dopo il passaggio a Locarno nel 2015 del suo lungometraggio d’esordio, il fluviale (cinque ore!) Happy Hour, il 2021 ha segnato l’affermazione sulla scena del cinema d’autore internazionale del regista giapponese poco più che quarantenne Ryūsuke Hamaguchi, grazie a una doppietta di film, Il Gioco Del Destino E Della Fantasia e Drive My Car. Entrambi, come succede al cinema orientale sin dai tempi del Rashomon di Kurosawa, che vinse la Mostra del Cinema di Venezia nel 1951, hanno ottenuto la loro consacrazione sul palcoscenico dei festival, uno vincendo il Gran premio della Giuria a Berlino, il secondo guadagnando il riconoscimento per la miglior sceneggiatura all’ultimo Cannes, dove i rumours degli addetti ai lavori lo avevano accreditato addirittura dei favori del pronostico per la Palma d’Oro, poi andata al diametralmente opposto, survoltato Titane di Julia Ducournau.
I due film sono stati acquisiti dalla benemerita Tucker, che li distribuirà, il primo il 26 agosto, cui seguirà dal 23 settembre Drive My Car. Guardando Il Gioco Del Destino E Della Fantasia, è anche semplice capire il perché del favore della critica occidentale, che in esso ritrova quel riserbo, quella capacità di lavorare per sfumature e per sottrazione, su di una tensione sublimata e rarefatta che è quanto il pubblico colto europeo ed anglofono usualmente s’attende, in particolare, dal cinema giapponese.
Il Gioco Del Destino E Della Fantasia (esemplato sul titolo internazionale Wheel of Fortune and Fantasy, dove il più asciutto originale giapponese, Gūzen to sōzō, significa “caso e immaginazione”) è costituito da una trilogia di microracconti insistentemente minimalisti, concentrati su piccoli frammenti di vita quotidiana. Nel primo, “Magia (o qualcosa di meno rassicurante)”, Gumi (Hyunri Lee) racconta all’amica del cuore Meiko (Kotone Furukawa) l’incontro entusiasmante con un giovane imprenditore, Kaz (Ayumu Nakajima), foriero di sviluppi sentimentali. Dalla descrizione Meiko capisce che il lui è l’un tempo grande amore della sua vita, relazione da lei stessa però rovinata con un tradimento.
Nel secondo, “La porta spalancata”, lo studente universitario Sasaki (Shouma Kai), per vendicarsi della bocciatura inflittagli dal professore di francese Segawa (Kiyohiko Shubukawa) – il quale ha appena vinto con un suo romanzo il prestigioso Premio letterario Akutagawa –, istiga la sua amante Nao (Katsuki Mori), pure lei ex studentessa del docente, ad andare da lui per sedurlo e così rovinarlo con uno scandalo sessuale. Nel terzo episodio, “Ancora Una Volta”, Moka (Fusako Urabe), un’ingegnera sistemista momentaneamente disoccupata, crede di riconoscere in una donna incontrata per caso sulle scale mobili, Nana (Aoba Kawai), l’ex compagna di scuola suo primo amore vent’anni addietro. Dopo un po’ entrambe però capiscono d’aver sbagliato persona e di non essersi mai viste prima. L’equivoco dà origine a una svolta inaspettata.
Sono tante le suggestioni, riconoscibili per un pubblico occidentale, che affiorano dalla visione del film di Hamaguchi. I personaggi che si pongono domande sul senso dell’esistenza, i sentimenti e la felicità rimandano a Čechov. Le fluide conversazioni, che con accorta sensibilità e squisita attenzione ai dettagli svelano progressivamente le intermittenze del cuore, squadernano una leggerezza pensosa alla Éric Rohmer. Mentre l’insistito gioco sul caso, che partendo da una situazione data conduce in tutt’altra direzione, ricorda il cinema di Kieślowski (Destino Cieco), e pure, nel gioco del come se, delle sliding doors, dei momenti fondamentali della vita che potrebbero andare in una direzione o in un’altra, il curioso dittico di Alain Resnais, Smoking/No Smoking.
I racconti di Hamaguchi progrediscono tramite conversazioni minuziose e chirurgiche, che affondano nella carne dei sentimenti e dei moventi che scuotono e indirizzano l’esistenza dei personaggi. Quando Meiko capisce di chi sta davvero parlando la sua amica, va subito a trovare il suo vecchio amante, che non vede da due anni, forse per sedurlo, forse semplicemente per sentirsi dire che lei è ancora il suo amore perduto, spinta da un impulso che non è necessariamente benevolo e trasparente (“Perché continui a ferirmi?”, chiede Kaz. “Non so, potrebbe essere amore”).
Nel secondo episodio, Nao crede di poter abilmente manipolare il professore, adulandolo per i suoi successi ed eccitandolo attraverso la lettura di un passo esplicitamente erotico del suo romanzo. Ma superata la soglia della maschera e del minuetto della seduzione, o proprio attraverso di essi, la relazione tra i due prende una piega completamente diversa e mostra una profonda intensità e verità, che ancora una volta non ha necessariamente a che vedere con sentimenti educati e lineari – ma è mai lineare o beneducato il desiderio? L’equivoco tra Moka e Nana, poi, offre il destro a entrambe le donne per frugare in modo diverso e assai più sincero nel proprio passato, confessando cose che, probabilmente, non avrebbero mai avuto il coraggio di ammettere alle due persone che cercavano davvero – e nemmeno a sé stesse.
Non c’è nulla di particolrmente nuovo nel cinema di Hamaguchi, che insegue l’eterno rondò degli incontri, delle occasioni perdute, delle delusioni. Ma c’è una stupenda musicalità nel suo modo di raccontare, procedendo nelle cadenze di una dialettica tra l’opacità glaciale e geometrica dei luoghi, delle case ordinate, dei colori spenti, e l’intensità delle emozioni che vibrano attraverso le parole e i gesti pure alla superficie controllatissimi dei personaggi. I quali però parlano esplicitamente di sesso, erotismo, masturbazione, erezioni, di un desiderio che, invece di venir raffreddato dall’apparente abulia del loro atteggiamento esteriore, manifesta tutta l’urgenza del bisogno, della fame istintiva di passionalità che la patina delle buone maniere riesce a stento a comprimere.
Il Gioco Del Destino E Della Fantasia richiede l’adesione d’uno spettatore che invece d’esser sballottato tra i colpi di scena d’una drammaturgia vistosa, viene cullato dal ritmo ipnotizzante e sommesso di un cinema del non detto, o meglio del troppo detto di cui bisogna cogliere solo l’essenziale, la dolorosa, veritiera confessione catartica che giace appena dissimulata dietro la maschera delle convenzioni sociali.