Lars Von Trier e Enrico Ruggeri, tra dogmi e amicizia

Dopo una breve disamina sul regista danese, vi spiego perché sia lecito chiedersi come mai abbiano premiato il mio amico Ruggeri col Premio Tenco

GENEVA, SWITZERLAND - JANUARY 17: Luca Dotto at SIHH 2018 on January 17, 2018 in Geneva, Switzerland. (Photo by Daniele Venturelli)


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Nel 2000 ho pubblicato un romanzo. Era il mio terzo romanzo. Il mio quarto libro. A ben vedere anche l’inizio della fine della mia breve carriera di narratore. Almeno stando ai canoni ufficiali.

Ma tornando a quel romanzo, arrivato dopo una raccolta di racconti frutto del mio passaggio a Ricercare, laboratorio di scritture che in quegli anni raccoglieva le promesse della scrittura italiana, e la doppietta Questa volta il fuoco, che anni dopo avrà una sua incredibile vita in Spagna, vita che mi porterà a scrivere editoriali di politica per El Pais in compagnia di Tabucchi e Erri De Luca, e Aironfric, il primo edito dalla combattiva Derive Approdi, casa editrice militante vicina all’ex potere operaio Sergio Bianchi, protagonista degli Invisibili di Nanni Balestrini, mio mentore, il secondo approdato miracolosamente in Mondadori, per la neonata Strade Blu, grazie a una cordata che ha visto coinvolti Stefano Benni e Valerio Evangelisti, usciti a distanza di due mesi tra marzo e giugno 1999, tornando a quel romanzo, Anime @ Losanghe, era un mio tentativo, direi abbastanza fallito, di mescolare la scrittura “di genere” del mio primo romanzo, un noir, e quella decisamente più comico del secondo, senza però soffermarmi sullo sperimentalismo figlio del Gruppo 63 di quest’ultimo. Nei fatti era la storia di una band, band che portava il nome del titolo, e di una serie di delitti che vi giravano attorno. Raccontavo, usando quell’escamotage narrativo, quel genere narrativo in voga, il noir, seppur in salsa comica, la storia della mia band anni Novanta, gli Epicentro, per altro andando almeno temporaneamente a logorare amicizie vecchie una vita.

Certo, l’aver scritto un romanzo nel quale raccontavo i miei trascorsi nel mondo dell’hardcore mi avrebbe aiutato a consolidare la mia allora giovanissima carriera da critico musicale, il mio caporeddattore a Tutto Musica entusiasta di avere un punk tra le sue fila, ma ripeto, al tempo stesso avrebbe messo fine alla mia carriera da narratore, divenuta da allora marginale nella mia produzione letteraria. Ora quel romanzo, insieme a Questa volta il fuoco e al successivo Una notte lunga abbastanza, del 2012, si trova raccolto nell’opera Avrei voluto tutto, chiaro omaggio al Vogliamo tutti del mio maestro Nanni Balestrini, ognuno di quelle opere parte di una trilogia da me dedicata al 1994. E proprio del 94 e di quel romanzo volevo parlare, per partire in una delle mie solite cavalcate in apparenza senza una meta per territori a volte anche a me stesso sconosciuti. Cinque anni prima che Anime @ Losanghe vedesse la luce, nel 1995, Lars Von Trier, geniale e discusso (anche discutibile, sicuramente non discorsivo) regista danese, insieme al suo collega e connazionale Thomas Vinterberg diedero vita a un movimento cinematografico dal nome Dogma 95. Alla base di questo movimento, decisamente d’essai, c’era un decalogo, che fermava le regole per un cinema sincero e onesto, intellettualmente, che evitasse effetti speciali e finzioni tecnologiche di ogni tipo. I film di questi registi, specie quelli di Von Trier, molto apprezzati dalla critica cinematografica e di casa a Cannes, dove negli anni ha vinto svariati premi, erano tutti fatti seguendo queste regole, e la scritta Dogma 95 campeggiava sul grande schermo all’inizio delle loro opere. Siccome ero, immagino di esserlo ancora, un inguaribile cazzone, nella prima pagina di Anime @ Losanghe campeggiava la scritta Dogma 94.

Il 1994 era l’anno nel quale il libro si svolgeva, per intendersi quello dell’ascesa al potere di Silvio Berlusconi, come della morte di Kurt Cobain e Charles Bukowski, oltre che dell’ascesa e caduta degli Epicentro, giusto per fare un paio di riferimenti storici, facile capire che il mio fosse un modo iconico di fermare su pagina sia il mio essere un cazzone, certo, ma anche il mio provare a portare nella mia scrittura un linguaggio altro da quello scritto, erano gli anni dell’Avant Pop, Mark Leyner e David Foster Wallace stavano lentamente sostituendo Nanni Balestrini nel mio pantheon. Negli stessi giorni, parlo del 2000, non del 1994, ma io ovviamente questo non potevo saperlo, il mondo era assai meno connesso di ora, i social non esistevano e la rete era quasi faccenda di pochi, in Gran Bretagna un gruppo di scrittori capitanata da Nicholas Blincoe si univano sotto il nome di New Puritans, i Nuovi Puritani, per portare il Dogma 95 in letteratura, decisamente facendosi notare più di me, tra loro anche Alex Garland, che in seguito sarebbe divenuto famoso a Hollywood come regista.

Non sto raccontando questo per dirvi quanto io sia geniale, seppur con poca fortuna, arrivato su certe posizioni prima di altri, perché nei fatti a me del Dogma 95 non fregava davvero nulla. Mi piacciono gli effetti speciali, al cinema come quando scrivo o leggo, e col tempo ho sposato assolutamente uno stile massimalista che rifugge ogni qualsivoglia forma di linearità e aderenza al reale per perdersi nello stile e nella fantasia. Lo dico, e so di averlo detto con un numero forse eccessivo di parole, badate bene che ora sto di nuovo indossando il vessillo del Dogma 94, perché una caratteristica di quel manifesto, o di quello che quel manifesto aveva contribuito a creare, ho in qualche modo continuato a seguirla, certo andandola a mescolare con altre istanze lontanissime da quei lidi. Mentre scrivo, siete qui a leggermi, non potete non esservene accorti, mi piace entrare in scena e dire quel che sto facendo. No, non dico che sono compiaciutamente uso a mettere me stesso, o un me stesso rappresentato, non necessariamente vicino al me stesso reale, non sono in effetti seguace del Dogma 95, questo lo faccio ma nulla ha a che vedere con questo discorso, parlo di quando, lo sto facendo esattamente in questo momento, entro in scena spiegando che cosa sto facendo, come ora che vi ho appena detto che sto qui a dirvi cosa sto facendo, dando vita a un loop tipo scala di Penrose. Scrivere e mettere le didascalie alla propria scrittura è una scelta stilistica, è evidente, non certo una necessità finalizzata a spiegare qualcosa che, in genere, resta nel backstage della mia testa. Lo faccio, sapendo di correre il rischio di risultare ampolloso, a volte anche fastidioso. Succede. Torno a Lars Von Trier, così magari capite cosa sto provando a fare oggi. L’ottovolante sta per fermarsi, prima di ripartire. Tra il 2003 e il 2005 Lars Von Trier ha fatto uscire un dittico, cioè due film legati tra loro. Dogville, il primo, Manderlay, il secondo, sempre scritti, recitati e diretti secondo il manifesto Dogma 95. Stavolta però, magari anche volendo giocare sulla sua fama di personaggio eccentrico, controverso, Von Trier ha voluto andare oltre. Se il Dogma 95 era in qualche modo un tentativo, in potenza forse più che in atto, di spogliare il cinema da tutti quegli orpelli che Hollywood ci aveva messo sopra e intorno, influenzando poi il resto del mondo, stavolta Von Trier dà vita a un corto circuito, andando letteralmente e fisicamente a mashuppare teatro e cinema.

Lasciamo da parte le trame, non mi interessa qui parlare nello specifico dei film analizzandoli da questo punto di vista, quello che balzò clamorosamente agli occhi degli spettatori è la totale assenza delle scenografie, il villaggio di Dogville, per dire, nell’omonimo film,  è rappresentato da un punto di vista grafico, con delle linee in terra, come una planimetria bidimensionale. Niente pareti, niente strade reali e cartonate, come nei vecchi western, solo linee di gesso in terra, un teatro sul cui palco va in scena un dramma. Pochi oggetti presenti, quelli coi quali gli attori sono tenuti, anche forzati, a confrontarsi. La storia deve passare di lì e di lì esplodere. Un gesto controverso, quello di Lars Von Trier, figlio delle teorie di Jerzy Grotowski, regista polacco che a teatro aveva idealizzato la sottrazione, sorta di minimalismo visivo, e anche di Antonin Artaud, che vedeva nell’assenza di orpelli e quindi nell’estremizzare i gesti degli attori, al limite della violenza, un modo, il solo modo, per sconvolgere lo spettatore, il Teatro delle Crudeltà a ridefinire i codici di comunicazione della recitazione, ma controverso proprio perché Grotowski e Artaud, come buona parte del Teatro del Novecento, prendeva talmente le distanze dal cinema da portare all’estremo le proprie istanze, mentre Von Trier prova, anche furbamente, a mescolare il teatro col cinema. Al punto che, contravvenendo in parte proprio al Dogma 95, finisce per omaggiare Godard, che della settima arte è maestro indiscusso, andando a utilizzare un montaggio discontinuo, fatto che in sé pone lo spettatore in una condizione assolutamente antiteatrale, le scene non si susseguono seguendo il flusso e la trama, e quindi creando disagio nello spettatore stesso, incapace di immedesimarsi nei personaggi interpretati dagli attori, per una volta letteralmente spettatori. Volessi ora lasciarmi andare a bieco chiacchiericcio, potrei buttare sul piatto il fatto che al protagonista del dittico, dittico il cui nome è USA- Terra delle opportunità, e che doveva essere inizialmente una trilogia ambientata, appunto, un America, Grace il nome del personaggio, è stato interpretato da Nicole Kidman nel primo episodio, e da Bryce Dallas Howard, figlia di Ron Howard, il Ricky Cunningham di Happy Days poi divenuto regista di blockbuster come Il Codice da Vinci, questo a causa dei rapporti pessimi tra la Kidman e il regista danese, ancora una volta additato come dotato di un carattere impossibile, al limite del dispotismo, ma qui il discorso va a spostarsi su altro, al punto che a breve di Lars Von Trier non si parlerà più, e in tutti i casi, seppur io abbia detto che non intendo fare bieco chiacchiericcio, nel dichiarare questa mia intenzione sono in verità andato a farlo, anche questo neanche troppo velato omaggio a Dogville stesso e a tutto il Dogma 95, dico quello che faccio, poi non lo faccio ma dichiaro di aver mentito, finendo al tempo stesso per essere sincero e falso, il loop della scala di Penrose, siamo sempre da quelle parti.

Veniamo a noi.

Siamo in scena, delle linee tratteggiate col gessetto in terra, poco altro. Concetti espressi senza filtri, anche con una certa violenza, sicuramente in maniera molto molto diretta. Tutto vero. O almeno, tutto sembra vero e così viene raccontato. Il resto lo fa lo spettatore, cioè tu che stai leggendo, nello specifico uno spettatore/lettore. Si accendono i riflettori. Ci sono io in scena. O uno che ha la mia faccia. Sono amico di Enrico Ruggeri. La cosa, per chi segue me, per chi è addetto ai lavori, nel senso di “lavora nel mondo della musica”, per chi magari segue solo Enrico ma ha avuto modo di incrociarmi sui social o in qualche altra situazione pubblica, è piuttosto nota. Non l’ho mai tenuta nascosta, né l’ha tenuta nascosta lui, perché ritengo, riteniamo, credo, è un fatto, che la nostra amicizia sia nata subito dopo di una indiscussa stima reciproca, decisamente la mia più antica della sua, perché Enrico ha iniziato a fare musica assai prima che io iniziassi a scriverne, non perché abbia così tanti anni più di me, più per una mia tardiva caduta sulla via di Damasco, non siamo andati a scuola insieme, non siamo amici di famiglia, anche questo l’ho già detto, ci siamo scelti e quindi non vedo perché mai dovrei tenere questa cosa segreta. Mi capita spesso di scrivere di Enrico, ogni volta che fa qualcosa che io ritenga degno di nota, e nel suo caso fa spesso cose che io ritengo degne di nota.

Il fatto che siamo amici, in sé, potrebbe vanificare il mio sforzo scrittorio, “eh, ma scrivi così perché siete amici”, seppur il mio dichiararlo tende proprio a smorzare queste accuse (o a acuirle, le scuse non richieste che sono figlie di autoaccuse manifeste), su tutto il dettaglio, ritengo non irrilevante, anche alla base della nostra amicizia, lo dico en passant, che a me di quel che pensano gli altri, specie quella porzione di altri che arriva alzando il ditino, fondamentalmente non frega nulla, altrimenti avrei potuto serenamente tenere la nostra amicizia nascosta e scrivere quel che volevo, o avrei potuto non scriverne, specie nei frangenti non infrequenti nel quale Enrico si trova, sempre per quel nostro comune istinto a dire quel che pensiamo in totale autonomia, a essere al centro di shit storming di un qualche tipo. Ribadisco, io e Enrico siamo amici, e la nostra amicizia arriva dopo la stima reciproca, immutata nel tempo, parlo per me, anzi nel tempo rafforzata e cresciuta, di pari passo con l’amicizia. Per questo motivo, anche prima che io e Enrico diventassimo amici, per la faccenda della stima, intendo, ho tirato bordate piuttosto violente contro il Club Tenco, reo, ai miei occhi, di non averlo mai premiato. Di non averlo anche invitato da anni, ignorandolo come se non esistesse. Ne ho scritto, praticamente tutti gli anni, usando proprio il “caso Ruggeri” come prototipo della fallacia di quei Premi e anche delle Targhe Tenco, perché ignorarlo è qualcosa di indegno in sé, farlo, in caso, nessuno ha mai risposto alle mie bordate, per presunte posizioni politiche, sarebbe anche peggio. Ho talmente rotto le palle, a riguardo, che a un certo punto i membri del vecchio direttivo, per chi non lo sapesse nel 2017 c’è stata un vero e proprio scisma all’interno del Club Tenco, mi hanno invitato a prendere parte alla giuria delle Targhe Tenco, per, dicevano, portare il dissenso in seno a quel contesto. Magari anche per tenermi buono, ho pensato, nel caso sbagliando completamente mira. Ho infatti continuato a rompere e non ho mai smesso di esternare il mio dissenso, anche quest’anno. Poi arriva la notizia che il Premio Tenco, cioè le serate durante le quali vengono dati i Premi Tenco e vengono ritirate le Targhe Tenco, i primi decisi dal Club, le seconde decretate dalle votazioni della giuria di cui faccio anche io, mio malgrado, parte, ha deciso, finalmente, di insignire anche Enrico.

Evviva, dovrei poter dire. Aggiungendo il classico “era ora”.

Però, vero che a questo punto se vi dico “Dogville” faticate a ricordare il perché io ve ne abbia parlato, anche a lungo?, questa è un’edizione un po’ strana del Premio Tenco, per stessa volontà del Club Tenco. Nel presentare i Premi e gli ospiti della nuova edizione, poi parleremo di quando andrà in scena, il Club dichiara che questa sarà l’edizione della svolta, e mi viene da portare le mani in fronte. Non perché io sia aprioristicamente contro le svolte, figuriamoci, ma perché nello specifico mi sembra un voler prendere le distanze da se stessi del tutto fuori tempo massimo. Sintetizzo e semplifico, il Club Tenco saluta la canzone d’autore, detta anche canzone d’arte, e per saluta intendo che le dice addio, formalmente, e va incontro al mercato. Loro lo dicono con altre parole, ma questo è il succo del discorso. Si parla di muri caduti a Berlino, si parla di steccati che vanno abbattuti, divelti. Letta così sembra quasi che il Club Tenco diventi una sorta di depandance autunnale, poi parleremo di quando andrà un scena, del Festival della Canzone Italiana, di scena a sua volta a Sanremo. E dire che il Club Tenco era nato proprio prendendo le distanze da quel consesso, ovviamente il nome di Luigi Tenco è dolorosamente legato al Festival. Da anni, specie dalla nuova gestione, si è visto una volontà, spesso goffa, molto goffa, di fare l’occhiolino a un grande pubblico a cui, va detto, del Club Tenco, dei Premi Tenco e delle Targhe Tenco continua a non fregare nulla, il picco in tal senso la famosa “performance”, il Dio delle Arti mi perdoni, di Achille Lauro, chiamato a cantare, si fa per dire, Lontano Lontano in apertura di una recente edizione. Quest’anno, con queste dichiarazioni, la volontà di prendere definitivamente le distanze da se stessi, per inseguire per altro un mondo che probabilmente neanche esiste, quello del mercato, appunto. A questo punto, però, viene da chiedersi perché proprio quest’anno abbiano deciso di premiare Enrico Ruggeri, che è sì cantautore assai popolare, anche di una popolarità a tratti molto mainstream, uno che anche i miei genitori ultraottantenni conoscono e riconoscono, se vedono in tv, ma sicuramente portatore di una musica d’autore, colto e raffinato.

Non basta, nelle motivazioni che accompagnano il premio i redattori, nel senso di coloro che hanno redatto le motivazioni, dichiarano “ama scavare nel ramificato universo dei sentimenti e delle emozioni con il linguaggio discorsivo della quotidianità, lontano da ogni pretesa o artificio letterario”, a dimostrazione che non sanno letteralmente quello che dicono e che di Enrico Ruggeri non hanno fisicamente capito un cazzo. Roba da non presentarsi sul palco e mandare al proprio posto, che so?, il tizio che cantava “vuoi venire a fare fichi fichi con me, facciamo fichi fichi insieme”, così almeno colgono cosa significhi artificio letterario. Sapere che sempre quest’anno verrà premiato Mogol, ovviamente autoinsignitosi del Premio in quanto Presidente della Siae, malignano i ben informati, rende la faccenda anche più interessante, anche lui da sempre inviso al Club Tenco per ragioni adducibili alla sfera politica più che a quella artistica, premiarlo per quanto fatto con Battisti, nel 2021, grida letteralmente vendetta, tanto quanto aver snobbato Ruggeri anche quando si premiava Fiorella Mannoia come miglior interprete, chi meglio di lei ha incarnato negli anni l’idea di canzone d’autore?, per album quali Canzoni per parlare e Di terra e di vento, con buona parte delle canzoni scritte proprio da Rouge, piene di pretese, ben riposte, e artifici letterari. La speranza è che nel corso delle serate, che a brevissimo spiegherò perché non avrò modo di seguire di persona, chiedano formalmente scusa a entrambi, sia per il ritardo di questi premi, sia per un ostracismo davvero peloso. Prima di andare verso il finale, altrettanto pregno di artifici letterari, amici del Club Tenco, spero che Rouge nel suo set canti Portiere di notte, così scoprirete che nel segreto delle vostre stampe, perché anche quando lo tenevate fuori da quel palco lo ascoltavate nel segreto delle vostre stanze, lo so, vi siete commossi per quella storia di amore non corrisposto senza manco capire che a un certo punto il protagonista si fa una sega su un asciugamano, ricordiamo ai passeggeri che si è iniziato parlando di Dogma 95 e di Dogville, vorrei fare un riferimento più preciso riguardo a quanto lasciato intravedere sulle date del Premio Tenco. Ho alluso, avrà pensato qualcuno, ora è il momento di dire. Il Premio Tenco 2021 andrà di scena il fine settimana del 22, 23 e 24 ottobre. A Sanremo, in quel Teatro Ariston che in qualche modo portò via la vita al titolare del Premio, Luigi Tenco. Nelle stesse date, in quel di Aversa, andrà in scena un altro premio dedicato alla musica d’autore, anzi, d’autrice, il Premio Bianca D’Aponte. Le date del Premio Bianca D’Aponte, la cui edizione 2020 è stata recupera durante l’estate, visto che nello scorso autunno era impossibile tenere spettacoli dal vivo al chiuso, come all’aperto, sono state annunciate in chiusura dell’edizione tenutasi a luglio, con largo anticipo. Per altro nel fine settimana nel quale, da anni, il premio dedicato alla cantautrice Bianca D’Aponte, scomparsa a soli ventitré anni, si svolge, il penultimo weekend di ottobre. Il Premio Tenco, forse proprio per sancire una totale distanza dal mondo della canzone d’arte, decide di sovrapporsi, costringendo per altro parte della giuria, o delle giurie, a fare una scelta immagino dolorosa. Lo fa in maniera arrogante, come se tutto fosse dovuto, come se per altro la grandezza di un premio inficiasse la legittimità dell’altro. Roba da asilo nido, verrebbe da dire, non fosse che, essendo anche amico di Gaetano D’Aponte, papà di Bianca e instancabile cuore e motore del premio, so per certo che le polemiche non sono affatto gradite in quel contesto. Mettiamola così, sono sinceramente contento per Enrico, cui viene finalmente riconosciuto qualcosa che gli spettava da sempre, “giustizia è fatta”, appunto, ma mi viene da chiosare che se qualcosa potevano comunque farla male, anche stavolta sono decisamente riusciti a farla molto peggio, dando vita a un vero disastro. Non fosse che risulterei sì fuoriluogo, quasi gli suggerirei di non presentarsi davvero al Tenco, e di farlo, a sorpresa a Aversa, sul palco del Premio Bianca D’Aponte, Carramba che sorpresa! Magari glielo suggerisco domani, dal vivo, visto che io e lui faremo un incontro pubblico a Milano, presso la chiesa sconsacrata di San Celso, in corso Italia, alle 16:30, lui nelle vesti di intervistatore, io di intervistato. Vedi tu come ti piazzo un po’ di autopromozione a chiusura di un pezzo che con una specie di autopromozione tardiva era partito e che poi, come sempre nei miei testi scritti, si è perso dentro il discorso. Beati artifici letterari.