I primi trenta anni di “Non è la Rai”

Un libro celebra la trasmissione di Gianni Boncompagni ed Ambra


INTERAZIONI: 208

Quando una trasmissione televisiva da trenta anni turba i sonni dei benpensanti, tanto da far affermare ancora oggi che con essa “iniziò la fine della televisione” (lo ha testualmente scritto Beatrice Dondi alcune settimane fa su “L’Espresso”) significa solo una cosa: che avevi ed hai avuto ragione!

Ci riferiamo a Gianni Boncompagni e alla sua vituperata, ma proprio per questo prediletta, “creatura” Non è la Rai. Che essa avrebbe sancito il trionfo creativo del suo artefice era chiaro già trenta anni fa, ma oggi, a bocce ferme, ciò è ancora più evidente.

Basta osservare le repliche di quel programma messe spesso in onda dal canale Mediaset Extra: ciò che apparentemente sembra un raffazzonato frutto dell’improvvisazione, mostra in realtà almeno tre livelli di lettura.

  1. Livello Estetico. Per anni si è blaterato sul lolitismo portato avanti da quella trasmissione; in realtà ciò che già allora veniva trasmesso sulla stessa emittente e sulle altre era invariabilmente più esplicito, morboso, volgare di quanto qui rappresentato. Boncompagni utilizzava la gioventù come chiave estetica per rappresentare anche visivamente una “estetica dell’innocenza”. Immagini affresco, estrema pulizia di assieme, inquadrature che riescono ad esaltare il dettaglio come l’assieme. Il riferimento era la cultura collettiva degli anni sessanta, portata qui ad un livello di sublimazione estetica quantomeno per i parametri televisivi.
  2. Livello Filosofico. Una volta Boncompagni descrisse Non è la Rai come un “vuoto pneumatico”. Prese singolarmente le esibizioni, i giochi messi in scena erano un nulla. Ma nella reiterazione estrema si innescava un processo di attrazione che andava ben oltre il (non) contenuto. Questo effetto era già stato abbondantemente sperimentato in “Pronto, Raffaella” col famoso gioco dei fagioli.
  3. Cornice di provocazione. I due precedenti livelli erano inscritti all’interno di una struttura che utilizzava in maniera reiterata la provocazione. Non solo giocando sul lolitismo di cui sopra, ma alternando continuamente i registri (l’intrattenimento puro che sfocia nella polemica politica, la  caricatura di formule come il talk show, etc…) al fine di mandare in cortocircuito critici e analisti vari. Il tutto con la caratteristica innocenza dell’autore che, mentre sapeva perfettamente di alzare polveroni, pareva reagire come il bambino colto in fallo che con aria sorpresa e beffarda risponde “Non ho mica fatto nulla…”. La creazione del “personaggio Ambra” è da questo punto di vista semplicemente esemplare

Non è un caso che, a riprendere le fila di tutto questo discorso, sia una persona profondamente coinvolta nell’immaginario estetico della trasmissione: è infatti il fotografo Marco Geppetti, coadiuvato da Marika De Sandoli, a dedicare un libro composto da immagini e parole, per celebrare i primi trenta anni della famigerata trasmissione. Il volume in questione si intitola “C’era una volta Non è la Rai” ed è pubblicato da Edizioni All Around.

Figlio d’arte, intriso di estetica anni sessanta e di cultura musicale, Geppetti rappresenta un immaginario inattuale allora come ora. Una celebrazione di giovinezza e spontaneità fuori da qualsiasi artefazione. Molte sue foto, nolti suoi ricordi, sono la rappresentazione non tanto di un fenomeno televisivo, quanto di una sorta di festa durata per quattro stagioni; i suoi scatti richiamano l’eccitazione della Dolce Vita e la joie de vivre rappresentata da fenomeni passati come quello delle Yè Yè girls (Hardy, Gall, etc…).

Questo libro inizia una opera di chiarificazione quantomeno estetica su un fenomeno di cui si è sragionato sin troppo. Critico acerrimo di quella trasmissione, anche Aldo Grasso pare aver recitato in merito il suo mea culpa. Ci aspettiamo che sia il primo di una lunga serie… Oppure no. E tutto sommato non sarebbe un male…