Il Cieco Che Non Voleva Vedere Titanic, il dolore della malattia e la forza della vita

Dal 14 settembre in sala il film che ha vinto a Venezia 78 il premio di Orizzonti Extra. La storia commovente, drammatica, persino con spunti di commedia, di un malato di sclerosi multipla cieco e paralitico

Il Cieco Che Non Voleva Vedere Titanic

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C’è una piccola opera, anche nel senso della durata, ottanta minuti appena, che s’è fatta largo tra le novità che hanno affollato l’ultima mostra del cinema di Venezia conclusasi sabato scorso. È Il Cieco Che Non Voleva Vedere Titanic del regista finlandese Teemu Nikki, vincitore del Premio degli Spettatori Armany Beauty nella sezione Orizzonti Extra. Sull’onda di questo riconoscimento e del passaparola innescato il film esce subito in sala, dal 14 settembre, grazie alla collaborazione tra I Wonder e Unipol Biografilm Collection, e contemporaneamente sulla piattaforma IWonderFull.

Qual è la ragione di tanta attenzione? È un duplice motivo, in cui si intrecciano ragioni di ordine stilistico ed emotivo. Il Cieco Che Non Voleva Vedere Titanic è un ragazzo di una trentina d’anni, Jaakko (Petri Poikolainen), cinefilo appassionato, fanatico su tutti del grande John Carpenter, che nella sua collezione possiede una copia rigorosamente intonsa di Titanic di James Cameron, sul quale, sebbene non l’abbia mai visto, nutre moltissimi dubbi. Ne parla spesso al telefono con una donna, Sirpa, della quale è sicuramente innamorato, pur non avendola mai incontrata.

Jaakko infatti è affetto da sclerosi multipla, costretto all’immobilità e privo della vista. Può parlare solo del cinema che ricorda, come può vedere solo le immagini che affiorano alla sua memoria o attraverso sogni struggenti. Perciò, per rendere questa forma di separazione fisica dalla realtà, Teemu Nikki ricorre a un espediente quasi letterale, sfocando tutto ciò che c’è intorno a Jakko, optando per una ripresa in semisoggettiva o comunque prossima al volto del protagonista ritratto in primissimo piano, coi contorni del mondo circostante confusi e vagamente percettibili.

Nonostante la complessità della sua esistenza, obbligata ai pochi metri quadrati del suo appartamento, Jakko è vivace, o almeno ostenta un’allegria di facciata, vestita della sua affilata ironia. L’amore che nutre per Sirpa, insieme alla passione per il cinema – il film in questo senso è un peana intelligente e discreto al potere addirittura salvifico della settima arte – gli permettono almeno idealmente di varcare la soglia asfissiante del mondo minimale in cui è costretto.

Quando però Sirpa, anch’essa malata, gli annuncia il peggioramento delle sue condizioni, Jakko decide di andarla a trovare, sebbene lei abiti in un’altra città. “Ho capito tutto. Ho bisogno di aiuto solo in cinque posti. Da casa mia al taxi, dal taxi alla stazione, dalla stazione al treno, dal treno al taxi e infine, dal taxi a te. Dovrò fare affidamento su cinque sconosciuti”. Così Il Cieco Che Non Voleva Vedere Titanic si trasforma in una riflessione sulla natura dell’essere umano, sulla scommessa che chiunque compie (certo in forme meno estreme e paradigmatiche di Jakko) quando decide di affidarsi agli altri, e in generale sul nostro bisogno di condividere con gli altri emozioni saperi passioni, anche se ciò comporta inevitabilmente l’uscire fuori dal proprio perimetro di sicurezza e aprirsi al rischio e all’imponderabile.

L’espediente formale della realtà sfocata inquadrata da Il Cieco Che Non Voleva Vedere Titanic, quindi, da un lato richiama la condizione materiale del protagonista, che la regia cerca se non di far provare, almeno di far intuire allo spettatore; dall’altro, rimanda a una più universale condizione esistenziale di incertezza rispetto a quello che, come individui, sappiamo o non sappiamo di un mondo nel quale, in sostanza, buona parte delle nostre scelte sono fondate non su una consapevolezza piena e perfettamente razionale, ma sulla fiducia in gran parte istintiva che riponiamo in situazioni e persone che conosciamo assai sommariamente attraverso gli incerti segnali che ci provengono dalla realtà. Che nel caso specifico di Jakko possono essere, nell’odissea attraverso il suo mondo senza immagini, una minima inflessione nella voce che lo spinge ad affidarsi a uno sconosciuto appena incontrato.

Allo stesso modo, pure lo spettatore non riesce a guardare Il Cieco Che Non Voleva Vedere Titanic con gli occhi della sola ragione, ed è inevitabile scivolare in questa esperienza visiva immersiva con i nervi e la parte emotiva, seguendo i rivolgimenti di una vicenda che di volta in volta prende le forme del gioco cinefilo, della commedia romantica, del dramma intimista e del thriller – dato che, purtroppo, gli esseri umani non sono esattamente come Jakko vorrebbe che fossero. L’empatia verso il protagonista diviene ancora più intensa quando si capisce che il suo interprete, Petri Poikolainen, vive la condizione del suo personaggio, infermo per quella stessa malattia, che ha quindi trovato nella irripetibile possibilità di diventare attore una forma di risarcimento sul piano dell’adorato immaginario cinematografico a una condizione difficile.

E se la scelta di adottare una forma che mima alla lontana la percezione del mondo che ha Jakko è un espediente stilistico sin troppo facile, che rischia di sembrare quasi ricattatorio nei confronti dello spettatore, per il resto è difficile restare insensibili all’epopea de Il Cieco Che Non Voleva Vedere Titanic. Anche per la scelta opportuna di Teemu Nikki di optare per una durata minimale che aiuta a dissimulare le ambizioni da apologo morale dietro la patina di un film di trasparente naturalezza. Anche se poi sotto la superficie ottimista è impossibile non cogliere tutta l’amarezza di cui si nutre questa storia.