Amarcord, tra provincia e fascismo Fellini scolpisce l’autobiografia degli italiani

Uno dei capolavori del regista, in cui dietro la chiave memoriale si dispiega un’analisi senza sconti sull’identità del paese e il carattere degli italiani

Amarcord

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Col passare degli anni, a ogni nuova visione dei suoi film, diventa sempre più evidente che, lungi dall’essere stato il cantore dell’autobiografismo capriccioso, il modellatore di sogni infantili ricreati in un immaginario visivo incantatorio e magico, Federico Fellini è stato prima di tutto un antropologo, forse il migliore analista che abbiamo avuto dell’identità italiana. Il quale sì, parte da dati intimi e privati, trasfigurando e molto reinventando la propria storia personale (innestando sulla sua anche memorie altrui) prima nella Rimini dell’età acerba, poi nella Roma della maturità. E attraverso quei materiali descrive, con ambizioni di verità e non certo di realismo, il carattere del paese e del suo popolo.

È da qui che prendono piede definizioni come quella di Andrea Minuz, in una sua monografia sul regista riminese, del Fellini “politico”. Che non è un regista impegnato alla Francesco Rosi o alla Elio Petri: è un concetto di politico, dice l’autore, “che va messo tra virgolette. E che indica semmai i modi in cui nel cinema di Fellini prende forma la complessa relazione tra l’ideologia italiana e la spinta della modernità nelle varie implicazioni sociali, ideologiche, culturali”.

Nascosto dietro la stregoneria d’uno stile apparentemente tutto visionario e sublimato in poesia, c’è un artista che ha posto in luce l’infantilismo strutturale del paese. Paese al quale però – tranne nei frutti degli anni estremi come La Voce Della Luna, ormai sconsolato per essere stato messo da parte, dal mondo del cinema e della cultura italiana –, ha sempre guardato non con l’atteggiamento aggressivo del polemista apocalittico che giudica e condanna e che cerca moralisticamente di raddrizzare il carattere deficitario dei connazionali.

Al contrario, come scrive Marco Bertozzi in un altro volume recente molto penetrante, Fellini mantiene uno sguardo “carico di accettazione per il paese così com’è […] Sottraendosi all’impresa di ‘fare gli italiani’, di fornire cioè un contributo alla ricorrente necessità di creare un soggetto pubblico omogeneo, Fellini vive immerso nel paese”. Così lo tratteggia in un modo insieme distante – perché, per dir così, la sua parte razionale lo trova inaccettabile – e però anche coinvolto, stimolato dalla sua esuberante parte emotiva infantile che insegue e si fa sedurre dagli aspetti farseschi, cialtroneschi di una nazione che non smette di divertirlo nel momento esatto in cui, per le sue manchevolezze, dovrebbe fargli paura.

Amarcord
  • Zanin, Maggio, Brancia, Proietti, Janigro, Orfei (Actor)

Questo intreccio tra cinema e memoria personale, racconto collettivo e scandaglio antropologico, trova una sintesi ideale in Amarcord (1973), scritto da Fellini insieme a un altro romagnolo della sua stessa generazione, Tonino Guerra. Un titolo ricavato dal dialetto locale, che vuol dire “Io mi ricordo” (A m’arcord), del quale lo stesso Fellini rifiutava un’interpretazione incagliata sul significato letterale. “Ciò che bisognava accuratamente evitare – scrisse – era una lettura in chiave autobiografica del film. Amarcord: una paroletta bizzarra, un carillon, una capriola fonetica, un suono cabalistico, la marca di un aperitivo, anche, perché no? Qualunque cosa, tranne l’irritante associazione al ‘je me souviens’. Una parola che nella sua stravaganza potesse diventare la sintesi, il punto di riferimento, quasi il riverbero sonoro di un sentimento, di uno stato d’animo, di un atteggiamento, di un modo di sentire e di pensare duplice, controverso, contraddittorio, la convivenza di due opposti”.

Amarcord invece, pur nutrito di memorie e qualche nostalgia, è un film dalle preoccupazioni ed obiettivi più vasti, non solipsisticamente ripiegati. Per intuirli basta guardare il celebre manifesto della pellicola disegnato da Giuliano Geleng. All’illustratore, per ispirarlo, Fellini aveva scritto una lettera ricca di suggerimenti: “Il manifesto dovrebbe a colpo d’occhio sprigionare la lietezza squillante di una cartolina natalizia o meglio, pasquale […] i personaggi del film dovrebbero come affacciarsi dal manifesto […] sorpresi in una immobilità sbigottita, amabile, riluttante e sfrontata, una specie di vecchia immagine indelebile e favolosa riflessa in uno specchio festoso, domenicale”.

Il risultato finale rispecchia le indicazioni, affollato di personaggi ritratti con gusto naïf, che guardano interrogativamente lo spettatore dritto negli occhi, mentre sopra le loro teste scorrono le immagini fantastiche degli episodi del film: il Grand Hotel delle avventure esotiche e piccanti, il transatlantico Rex, “la più grande realizzazione del regime”, simbolo di potenza littoria e sogno di un altrove, la ruota incantevole del pavone che appare come un’epifania. Questa rappresentazione contiene un che di caricaturale e ha la struttura quasi d’una striscia a fumetti. Ed è così esattamente che si srotola Amarcord, come ricorda Jean-Paul Manganaro: “Una striscia a fumetti, con gli episodi che si susseguono slegati fra loro, e la cui unica continuità deriva dalla loro durata, apparentemente un anno, confrontata con un tempo assente, quello di sempre, e le ripetizioni che ne determinano la circolarità”.

Fellini, senza assilli di rispondenza realistica né di resa psicologica dei personaggi, colleziona una serie di figurine che costruiscono un affresco corale dell’Italia e degli italiani nel loro girare a vuoto e in cerchio, però lieti e sconsiderati, in una ripetizione continua degli stessi riti, abitudini, fissazioni (soprattutto sessuali), infantilismi (l’imberbe Titta [Bruno Zanin], raffigurato nella sua adolescenza eterna da calzoni corti, “costretto a non crescere – scrisse Goffredo Fofi – dalla mamma e dal fascismo e dai preti e dalla scuola”). L’ambientazione nella Rimini degli anni Trenta aggiunge al racconto la nota del ridicolo stentoreo del regime, che rispetto alla storia del paese finisce per essere più segno di continuità che di discontinuità, mostrandone l’immaturità congenita con una intensità persino più netta.

Una grandezza tutta presunta quella della dittatura, in cui l’unico Mussolini che si vede è quello di una gigantesca composizione floreale di garofani rossi e rosa che ne riproduce il volto, grottesco al massimo grado, che parla ai personaggi i quali in essa vedono una proiezione di desideri e aspirazioni. Quello di Amarcord però, attraversato anche da simbologie allarmanti, come la fitta nebbia in cui si smarrisce il nonno (“mi sembra di non stare in nessun posto”, dice), è un paese immobile, congelato nella stanca ripetizione degli stessi comportamenti, tra strusci domenicali, storielle pruriginose ripetute allo sfinimento – quali da operetta viennese (l’avventura col principe della Gradisca [Magali Noël]), quali da Mille e una Notte (le vanterie erotiche del venditore ambulante Biscein nell’harem) –, uno zio (Ciccio Ingrassia) bloccato nella follia e nel desiderio irrealizzabile di possedere una donna.

Proprio nella composizione sfilacciata degli episodi, soltanto giustapposti, Amarcord mostra l’irresolutezza di fondo di un’Italia incorreggibile – e per questo agli occhi di Fellini non condannabile in toto –, da cui però inevitabilmente, accanto alla tenerezza affettuosa emergono la malinconia e l’amarezza per ciò che saremmo potuti, e non siamo mai riusciti, ad essere. Un paese simile, nell’impossibilità di cambiarlo davvero, non resta che raccontarlo, con uno stile mimetico slabbrato, che ripete nella sua struttura priva di centro e senza progressione la mancanza di giudizio e risolutezza dei personaggi, il loro muoversi affannosamente da fermi, trascinati da allucinatorie immagini sessuali (la tabaccaia), nevicate miracolistiche, illusorie virilità a buon mercato (il fascismo).

Nel frattempo si muore quasi senza avvedersene (la madre di Titta [Pupella Maggio]), ci si sposa quasi senza accorgersene (ancora la Gradisca, con un anonimo carabiniere tragicamente al di sotto delle sue aspettative). E il sipario cala, così come s’era alzato, senza una ragione specifica, “lasciando affiorare – scrive ancora Manganaro – il film nel suo essere cinema, senza più bisogno di spiegarlo”. Come inspiegabile, allora come adesso, è il paese che queste vicende ha prodotto.