La Terza Estate dell’Amore è il nuovo album di Cosmo assolutamente antipop

Fossi uno di quelli che stila le classifiche dei dischi dell’anno azzarderei già ora che questo lavoro finirà tra i migliori album usciti nel 2021


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Non mi sono mai fatto neanche una canna. Potrei star qui a tirare fuori mie teorie filosofiche sul motivo, come se del resto fosse necessario un motivo valido per non essersi mai fatto neanche una canna, quel neanche lì pronto a aprire il discorso alla stanza del piccolo chimico, ma nei fatti credo sia più una mera conseguenza del mio essere cattolico. Il senso di colpa, quella faccenda lì. Poi, certo, mettiamoci pure che non mi ha mai attirato molto l’immaginario di chi si faceva le canne, per non dire, torniamo a quel “neanche”, tutto quel che concerne invece le dipendenze, e quell’”invece”, è evidente, sta lì per far capire che so distinguere tra droghe leggere e droghe pesanti, vivo in questo mondo, mica su Urano. Non mi sono mai fatto le canne perché mi è stato detto, da piccolo, che le droghe erano qualcosa di sbagliato, di pericoloso, erano gli anni Settanta, un tipo si faceva le pere sotto casa mia tutte le sere, quando capitava che tornassi tardi lo vedevo che dormicchiava brasato sui tre scalini che portavano all’atrio del mio palazzo, spesso un filo di bava che gli colava dalla bocca, come un Homer Simpson ante litteram, solo che invece che starsene sul divano di casa stava seduto all’addiaccio, quelle buffe siringhe piccole piccole infilate ancora nel braccio.

Non mi sono mai fatto neanche una canna, quindi, e non ho particolare interesse all’argomento, immagino come possa capitare a chi non ha la patente quando si comincia a parlare di faccende inerenti alla guida e alle auto. Però mi occupo di musica, e di musica leggera, e l’immaginario della musica leggera, specie di quella che ambisce per sua natura a diventare manistream pur rivendicando il sacrosanto diritto, almeno a parole e sulla carta, di non essere mainstream, è intriso di continui riferimenti alle droghe leggere, pensate alla trap, a certo rock, quindi in qualche modo mi ritrovo a averci a che fare.

Non mi sono mai interessato molto a assecondare le aspettative che gli altri riponevano su di me, a partire dai miei genitori. Da adulto, questo mio modo di essere, e di conseguenza di comportami, ha fatto sì che difficilmente mi interrogassi in anticipo su cosa un mio dire e fare avrebbe comportato, il tutto continuando a non intaccare il mio benessere psicofisico, mai avuto ansi o paranoie, forse anche per quel mio non aver mai ceduto di fronte alle lusinghe dello sballo (questa è una battuta scema, non state qui a spiegarmi il come e il cosa). Tradotto in termini spicci, ho sempre provato a dire e scrivere quel che pensavo, a volte vittima del mio stesso stile, della necessità quasi patologica del cercare la battuta, sempre e comunque dedito fin quasi all’asservimento a sacro fuoco dell’ironia, la sensazione di passare per scomodo, disallineato o più semplicemente stronzo lì, pronta a subentrare in seconda battuta.

Non che io intenda passare per un soggetto naif, di quelli che praticano il politicamente scorretto a propria insaputa, diciamo piuttosto che, realizzato di essere quasi sempre politicamente scorretto non mi sono mai applicato a sufficienza per risolvere questo piccolo difetto alla nascita, con mia buona pace.

Quindi niente droghe, e niente buon senso. Bene, andiamo avanti.

Ho un approccio alla musica che non esiterei a definire mentale. Esattamente l’opposto di quel che si dice in genere di questa forma d’arte, niente pancia, niente cuore, solo testa. Al punto che a volte preferisco leggere di musica (o scrivere di musica) che ascoltarla. Ultimamente sempre più spesso, ma temo sia più per una questione legata alla musica di merda che gira, vallo a sapere. La parte teorica che c’è dietro la creazione, la produzione e la performance della musica è la cosa che più mi interessa. Delle emozioni, siano esse quelle rassicuranti dell’amore, o quelle disturbanti della rabbia e del dolore, poco mi appassiono. Per questo, anche per questo, ho sempre provato un certo interesse per la scena dance e elettronica, complice Simon Reynolds e i suoi libri, come per la stagione dei rave, credo di aver letto parecchio anche a riguardo, pur non avendoci mai messo un piede neanche per sbaglio. Credo, altresì, di aver ascoltato davvero pochissima musica dance o elettronica, provando nei confronti di un genere che prevede in sé anche un certo coinvolgimento del corpo, coinvolgimento che non intendo assecondare, una sorta di repulsione a pelle. So che potrebbe suonare strano, ma tanto mi interessa da un punto di vista teorico, tanto poco incontra la mia attenzione praticamente. Non è il solo caso in cui la teoria cozza con la pratica, parlo per me, adoro leggere saggi sulla beat generation, per dire, ma credo di non aver più sfogliato un libro di un autore di quel periodo dall’età di venti anni, e tornando alla musica, sono un grande cultore della No Wave newyorchese, direi quasi ovviamente, ma da qui a passare le giornate ascoltando Glenn Branca, direi, ce ne corre.

È uscito da qualche tempo il nuovo album di Cosmo, dal titolo La terza estate dell’Amore.

È uscito abbastanza di colpo, nel senso che a differenza da quanto succede ormai abitualmente non è stato anticipato da nessun singolo. Per un motivo molto semplice, l’album in questione, giunto a tre anni da Cosmotronic, anomalo lavoro composto per metà di canzoni e per metà di brani strumentali, e a cinque da L’ultima festa, album che in qualche modo ci regalava un nuovo protagonista della scena indipendente, uno di quelli prima da tenere d’occhio, poi da andare a ascoltare dal vivo, di tendenza, per un motivo molto semplice La terza estate dell’amore non è stato anticipato da un singolo, dicevo, perché singoli dentro La terza estate dell’amore non ce ne sono. E non ce ne sono per scelta razionale, torniamo a parlare di teoria, di testa laddove dovrebbe esserci, dicono, cuore o pancia, perché Cosmo ha deciso di fare un album, il titolo del secondo singolo la dice lunga, assolutamente antipop. Un po’ una via di incontro tra i due lati di Cosmotronic, brani nei quali la parte musicale, ovviamente elettronica e che guarda al corpo in movimento, si sposta con una lingua del tutto reinventata, assolutamente non pop, quasi un free style in realtà tutto scritto.

Un modo forse anche forzato per togliersi dalle palle un tot di seguaci pret-a-porter, gente che si era accodata per moda, per contingenza, perché in quel momento le cose giravano così, questo forse unico passaggio di pancia in una pubblicazione che è altrimenti del tutto mentale, razionale e pensata.

Nel presentarlo alla stampa, non ricordo più nel corso di quale intervista, ripeto, sono passati diversi giorni, Cosmo ha fatto riferimento all’ecstasy, e qui magari si potrebbe intuire il perché io abbia iniziato parlando di canne, sempre che un motivo reale ci sia, dicendo che negare che l’ecstasy esista e i giovani ci si possano avvicinare, anzi, che in parte ci si avvicineranno, è negare l’evidenza, per cui, diceva Cosmo, la cosa saggia da fare sarebbe spiegare loro come farlo, la faccenda del non mischiare sostanze a sostanze, l’altra faccenda del bere tanto, insomma, una sorta di educazione allo sballo, non troppo diversa da quella sessuale. La cosa mi ha colpito, perché, da teoreta, da una parte mi è venuto da pensare come la percezione che noi abbiamo della musica indipendente divenuta per un qualche tempo mainstream è in parte distorta dal nostro essere parte di quel discorso, cioè di come in fondo Cosmo resti pur sempre un artista di nicchia, dico questo perché, penso, se una frase del genere la avesse detta Morgan, ricordiamo tutti la questione crack fumato per ragioni terapeutiche finite dentro una non-intervista di Raffaele Panizza su Max, fatto che gli costò il posto a Sanremo oltre che una momentanea fatwa dai canali Rai, ecco, se l’avesse detta Morgan ora sarebbe da qualche parte crocifisso al muro, come un Cristo, dall’altra mi ha fatto intuire che in fondo quel che Cosmo sta facendo con la musica non è troppo distante da quel che io sostenevo poco sopra, a proposito della musica che dovrebbe essere rivolta al cuore o alla pancia, ma che a volte parte dalla testa e alla testa si rivolge.

Nei fatti La terza estate dell’amore, a discapito di un titolo neanche troppo vagamente flower power, è un disco che si muove nell’alveo del pop elettronico, e forse dico pop più per affetto che per attinenza reale al genere. Un disco che scontenterebbe tanti, se i tanti solo esistessero, ma che, in assenza di singoli a ricordare a quei tanti che il disco è fuori, accontenterà buona parte dello zoccolo duro cosmiano, contraltare fisico di quello che IRA di Iosonouncane è per la psiche (questa frase, per dire, non vuole dire in sé un cazzo, ma mi andava di buttare nel discorso IRA, prima che gli sceriffi del web lo finiscano del tutto, dopo averlo innalzato e poi devastato).

Fossi uno di quelli che stila le classifiche dei dischi dell’anno azzarderei già ora che questo lavoro finirà tra i migliori album usciti nel 2021, a fianco di Exuvia di Caparezza, di Bingo di Margherita Vicario, di My Mamma de La Rappresentante di Lista e di How To Leave Your Body di Not Waving. Proprio quest’ultimo potrebbe scippargli il titolo di album più radicale, ma che Not Waving sia radicale, credo, è scoperta solo per quelli che non sanno chi Not Waving sia, anche qui, tutta testa e niente corpo, andatevi a recuperare anche Animals, comodamente seduti sul vostro divano, senza bisogno di exstasy, ciucci della Chicco e energy drink per non finire disidratati. La musica a volte può davvero concederci il lusso di viaggiare da fermi, e mai come di questi tempi evitare la rottura di coglioni di doversi mettere in fila per un check in in mezzo a gente sudata con indosso la mascherina andrebbe rivalutato.