Marcell Jacobs è un grande atleta e porta lustro al suo Paese, che è anche il nostro, ma la divinizzazione sembra un po’ eccessiva

Fino a un mese fa il nome, il volto di Marcell Jacobs lo conoscevano pochi addetti ai lavori, adesso è più immanente di tutti i capi di Stato messi insieme

Photo by chedonna.it (Instagram @crazylongjumper)


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Quaranta medaglie, dieci d’oro e c’è solo Marcell Jacobs “l’uomo più veloce del mondo”. “Cosa si prova ad essere l’uomo più veloce del mondo?” chiede l’inviato in estasi. E Marcell: “Sono superfelice, ero superallenato, ancora non ci credo, non so che cosa ho fatto, ma sono superfelice”. L’orgia dei superlativi nella società afasica che si esalta alla propria autoesaltazione. Marcell è superfelice anche perché la Ferrari e il Consorzio del Parmigiano gli hanno fatto due supercontratti da supersponsor, roba da tre o quattro milioni, ma questo non c’è bisogno di dirlo, è superirrilevante, Marcell è superfelice perché è l’uomo più veloce del mondo. Anche se uno più veloce c’è, è il consumatore di cannabis e patate Usain Bolt che però si è ritirato.
Ma cosa è questo continuo parossistico bisogno di eroi, sempre più esagerati, sempre più esageratamente osannati? Certo, la mitologia sportiva c’è sempre stata, fin da Omero, è irresistibile come lo è l’uomo che si spinge oltre i suoi limiti stabiliti da Dio, è Icaro che vola con le ali di cera, è Prometeo che ruba il fuoco, storie che poi finiscono male perché gli dèi s’incazzano e ci pensano loro a far capire cosa a quei presuntuosi che cosa hanno fatto davvero: li hanno sfidati, hanno creduto di essere come loro. Ma la ybris è parte del sogno umano e serve a far sognare i normali, sempre allo stesso modo: ah potessi volare, potessi avere i superpoteri!
Solo che qui siamo arrivati si direbbe al punto di non ritorno, alla lobotomia mitopoietica o mitopugnettara. La corsa meravigliosa, animalesca di Jacobs l’abbiamo vista milioni di volte, l’abbiamo prosciugata, ci è entrata nel sangue e ci esce dagli occhi, sembra già parte della storia anche se ha solo due settimane. E così pure l’altro exploit, qullo della staffetta, quattro frecce azzurre ma, anche qui, esiste solo Marcell. Essendo lui divino, anche la madre l’hanno subito fatta diventare irreale, toccata dalla grazia, fattrice di un semidio, forse le faranno fare un calendario, la manderanno al Grande Fratello Vip. La mamma dell’uomo più veloce del mondo. E lei, superfelice, risplendente di gloria, resiliente “finché il sole risplenderà sulle sciagure umane”, prenderà a discettare di clima e di Covid.
Esalano gli inviati genuflessi: grazie Marcell, grazie per avere vinto due medaglie, grazie di essere l’uomo più veloce del mondo, grazie di essere italiano. Lui ascolta, con la degnazione dei sovrani semidivini, dei mandati da Dio, e benigno concede: “Sì, sono superfelice”. Gli altri medagliati passano, lui resta e regna sui social e sugli sponsor.
Succedono cose anche strane, come la scena di lui, il nuovo dio del vento, eroe omerico o manga giapponese, che sbarca all’aeroporto e pare il secondo avvento di Cristo, un cafarnao di gente, fotografi, tifosi, amici degli amici, parenti, fidanzate, mamme superfelici e inviati prostrati come Fantozzi e Filini: “E’ un apostolo! Un santo!”. Solo che anche questa epifania, alla milionesima volta che te la devi sorbire, pensi: ma non è che lo fanno andare e venire in continuazione?
Marcell Jacobs è un grande atleta e porta lustro al suo Paese, che è anche il nostro, ma la divinizzazione sembra un po’ eccessiva: ai tempi di Mennea, di Sara Simeoni durava un giorno, poi si tornava alle normali pene quotidiane, adesso si ferma il mondo fino a esaurimento del mito. Ma la fabbrica dei miti è isterica, divora i suoi prodotti con ugolinesca voracità: neanche il tempo di canonizzare i vincitori degli Europei di pallone, che già ti spuntano fuori i medagliati olimpici fagocitati da un uomo solo al comando dei media: lui, Marcell, l’uomo più veloce del mondo. Dicci qualcosa, uomo saetta, uomo fiamma, cosa ne pensi della questione mediorientale, del riscaldamento globale, delle tensioni Usa-Cina, dei roghi al sud? Del green pass? Del ddl Zan? Una associazione un po’ fanatica è andata a riesumare un tweet dell’eroe in età adolescenziale, una di quelle frasi cretinotte che non si possono evitare a sedici anni, ma i talebani arcobaleno hanno dato di matto: vergogna, restituiscei la medaglia. Cose infantili, che accadono quando la società infantile trasforma un campione in una entità sovrumana. Fino a un mese fa il nome, il volto di Marcell Jacobs lo conoscevano pochi addetti ai lavori, adesso è più immanente di tutti i capi di Stato messi insieme. Più o meno o per niente democratici.
Non colpa del ragazzo Marcell, ma c’è da chiedersi quale sia la inevitabile involuzione di una simile pazzia mediatica. Perché non potrà che acuirsi. Già la Federica Pellegrini, soprannominata “la divina”, come la Callas. Strani, insidiosi tempi dove per diventare “trend topics”, per imporsi all’attenzione del mondo come influencer, più grandi dei semidei omerici e di Dio stesso, devi o vincere una medaglia o delinquere in proporzioni apocalittiche.
Sto ultimando questo pezzo e mi chiedo se non abbia esagerato nella polemica: il telegiornale, spietato, mi infligge l’ennesimo, eterno ritorno di Marcell Jacobs che sbarca all’aeroporto, con accenti che un tempo i rotocalchi riservavano alla dinastia Savoia, “il re si fa la barba da solo!”. “Marcell, sei l’uomo più veloce del mondo ma dicci, illuminaci: dove andrai in vacanza?”. “Non lo so, ma dovunque andrò sarò superfelice”.