Ida, raccontare l’assenza attraverso le immagini

Nella Polonia del 1962 la novizia Anna scopre di chiamarsi Ida e di essere ebrea, figlia di genitori trucidati in guerra. Cui vuole dare sepoltura. Un film sulla memoria, le colpe individuali e collettive, il dolore e la sua elaborazione. Su Rai Storia alle 21.10

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C’è un elemento che accomuna due film per il resto stilisticamente diversissimi come Ida di Paweł Pawlikowski e Il Figlio di Saul di László Nemes, insigniti consecutivamente dell’Oscar per il miglior film straniero nel 2015 e 2016. È la scelta di raccontare la Shoah attraverso il fuori campo, scegliendo cioè di non rappresentare direttamente l’orrore della persecuzione antiebraica, innestandola nel quadro visivo, ma alludendovi, imprimendola ai margini del fotogramma e anche oltre. Rispettando, in un certo senso, il monito di Claude Lanzmann, l’autore del monumentale documentario Shoah, che teorizzò l’impossibilità di mettere in scena l’orrore concentrazionario, pena la sua immediata, immorale spettacolarizzazione (da qui la celebre polemica contro Schindler’s List di Spielberg).

Il Figlio Di Saul racconta lo spazio concentrazionario del lager, in cui si muove un membro del sonderkommando, ossia le squadre di prigionieri che, in cambio di condizioni di vita appena meno bestiali, fungevano da carcerieri degli altri deportati. Com’è noto, Nemes gira il film tutto in semisoggettiva, con la macchina da presa incollata al protagonista, di cui riproduce lo sguardo. Questo espediente, insieme al formato quadrato del fotogramma e a una profondità di campo limitatissima – quasi tutto ciò che viene ripreso è fuori fuoco – trasforma la tragedia dei campi in una rappresentazione incerta di immagini indistinte. Così della Shoah lo spettatore, al pari del protagonista, coglie solo frammenti, restandogli indecifrabile il senso generale degli accadimenti di un mondo oggettivamente incomprensibile – come si può pretendere di cogliere il significato di una scandalosa assurdità logica quale il campo di concentramento? Così Il Figlio Di Saul riesce, in una scommessa estetica ed etica, a sottrarsi al rischio della spettacolarizzazione, allo stesso tempo raccontando davvero l’Olocausto, senza mostrarlo e vampirizzarlo, dichiarando, nella impossibilità di metterlo compiutamente in scena, la natura impenetrabile di un evento che va al di là della razionalità umana.

Ida di Paweł Pawlikowski, un regista polacco che ha vissuto lungamente lontano dalla sua patria e che solo a partire da questo film, uscito nel 2013, ha deciso di tornare a casa per prendere di petto la storia del suo paese (anche nel successivo, bellissimo, Cold War), per certi versi è agli antipodi de Il Figlio Di Saul. Se il film ungherese di Nemes è frenetico, concitato e traballante, Ida è invece compostissimo, nel suo bianco e nero rigoroso di immagini che sembrano tableaux vivants, con una cura certosina della composizione dell’immagine, sempre statica, ferma, oggettiva. Anche qui però il formato è quasi quadrato, il 4:3 del cinema classico, che rimanda all’asfissia di un quadro all’esterno del quale preme una realtà della quale gli aspetti più importanti, e tragici, restano irrappresentabili.

Protagonista di Ida è Anna (Agata Trzebuchowska), giovanissima novizia orfana che sta per prendere i voti nella Polonia socialista del 1962. Prima però la madre superiora la convince ad andare a far visita all’unica parente ancora in vita, la zia Wanda (Agata Kulesza), che da giudice, dopo la fine della Seconda guerra mondiale condannò alla pena capitale molti partigiani non comunisti della resistenza polacca. Grazie a Wanda, Anna, che non è mai uscita dal convento e non sa nulla del proprio passato, viene a conoscenza della sua storia personale.

Ida
  • Kulesza,Trezbuchowska (Actor)
  • Audience Rating: G (audience generale)

Così scopre il suo vero nome, Ida, e la sua vera identità di ebrea, figlia di una coppia trucidata durante la guerra. Non dai nazisti, beninteso, ma da una famiglia di polacchi, che prima li avevano nascosti e che poi, sia per paura di ritorsioni, sia perché interessati a prendere possesso dei loro beni, a partire dalla casa in cui abitano, avevano deciso di ucciderli. Il film diventa il viaggio di due donne agli opposti – Anna giovanissima e luminosa nella sua veste di purezza immacolata, Wanda depressa e alcolizzata, piegata dal dolore delle violenze subite e dal rimorso di quelle inflitte –, alla ricerca delle spoglie mortali dei genitori della ragazza.

Pawlikowski vuole, a partire da questa vicenda individuale, parlare del passato rimosso di un intero paese, con cui la Polonia ha cominciato faticosamente a fare i conti a partire da un volume dello storico Jan Gross, I Carnefici Della Porta Accanto, che nel 2000 riaprì lo spinoso tema delle relazioni tra civili ed ebrei negli anni della guerra, sbugiardando la propaganda socialista, che aveva sempre presentato i polacchi come salvatori, sottolineando invece l’antisemitismo diffuso e i numerosi atti di violenza contro la comunità ebraica.

Quello di Ida è, letteralmente, un atto di disseppellimento della storia, lo scavo dentro la memoria scomoda del paese plasticamente reso dalla missione delle due protagoniste, che devono recuperare i corpi dei loro parenti, seppelliti in forma anonima chissà dove, per dare finalmente loro una degna sepoltura. E come ne Il Figlio Di Saul, Pawlikowski opta per una messinscena indiretta e allusiva, in cui l’orrore della persecuzione antiebraica non è mai esplicitato, ma sempre reso attraverso una struttura formale in cui ogni elemento è pregno di significato. Dicevamo prima del formato in 4:3, che immediatamente suggerisce come gli elementi più importanti e scabrosi restino al di fuori dell’inquadratura, definita propria dall’assenza di quanto è essenziale – il rimosso della memoria.

Anche dentro la cornice visiva di Ida, però, si colgono gli effetti del rimosso, grazie ad immagini in cui, quasi sempre, i personaggi sono relegati ai margini, spesso con parti del corpo o del volto tagliate. È come se sull’inquadratura gravasse un peso che spinge verso i bordi del fotogramma le figure umane – è un’indicazione di Matilda Mroz, che ha scritto un puntuale saggio sul film –, un peso evidentemente morale, legato alla cancellazione colpevole della memoria collettiva. Ed è anche come se, in un simile contesto, i personaggi diventassero secondari, pedine schiacciate da una storia più grande di loro, tutt’altro che “al centro del mondo” – e di conseguenza nemmeno al centro dell’immagine.

Ida è una storia di assenze: l’assenza della memoria, della colpa, dell’identità e dei nomi propri, l’assenza dei corpi persino. Dunque la forma del film non può che insistere in ogni dettaglio stilistico, che si fa immediatamente di senso e contenuto, sulla mancanza, su ciò che il film non può e non deve far vedere. E le inquadrature sempre compostissime, immote e dilavate – un bianco e nero che fotografa paesaggi quasi astratti, cui i colori sembrano essere stati strappati via – rinviano a una vita tolta di peso dall’immagine, ridotta al pallido riflesso di ciò che era e che forse potrebbe ancora essere.

In tal senso la vicenda delle due protagoniste, che non riveleremo, indica i diversi modi in cui si può attraversare l’esperienza del lutto. Con Wanda che deve, oltre all’elaborazione della sofferenza, fare anche i conti con le proprie colpe di inflessibile e ottusa persecutrice di innocenti. Ed Ida che, alle soglie del momento fondamentale della sua vita, diventare suora, prima di compiere questo passo ha bisogno di capire chi è veramente, e di comprendere di che pasta è fatto realmente il mondo (di qui l’incontro con un giovane musicista jazz, una traccia che rimanda al successivo Cold War).

Ida è un film sulla complessità della vita e della storia, sulle colpe individuali e collettive, sulle cicatrici non rimarginabili, sull’afflizione e la sua elaborazione. Un film al centro del quale campeggiano una domanda di verità e una dinamica dell’assenza che affligge ogni fotogramma. Così l’interrogazione etica si raddoppia in una forma depurata e mirabile, che rimanda a tutto quello che manca nell’esistenza delle protagoniste e, insieme, nella memoria di un paese.