Amy Winehouse: la sua luce era quella voce, così intensa, così vissuta e spenta troppo presto

Una Fondazione porta il suo nome e opera per prevenire i pericoli legati al consumo di droghe e di alcool. Ma a che serve?


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“Fermati, stronza, o ti farai male”. Keith Richards aveva un suo modo, affettuosamente ruvido, di proteggere chi gli piaceva e Amy Winehouse gli piaceva molto per quella sfrontatezza, per la generosità sul palco, per l’amore per l’eccesso, per il talento con cui rinverdiva la tradizione del jazz, del soul bianco. Ma Amy non poteva più fermarsi e il 23 luglio di dieci anni fa si univa al club dei 27, la macabra accolita delle rockstar che si fermano a quell’età. Appena un mese prima si era esibita per l’ultima volta sul palco, fuori controllo come sempre più spesso le accadeva. C’è un respiro nella sua voce, il respiro del rimpianto: per la vita, per come avrebbe potuto essere; per ciò che lasciava in eredità al mondo: cosa avrebbe potuto fare questa ragazza di Londra, schiantatasi dopo tre dischi? Ma sono abbastanza per lasciare un segno, per entrare, postuma, nella British Female Solo Artist, nella Walk of Fame. Riconoscimenti che non serviranno a nessuno.
Tutto era ispirazione in Amy e tutto era generosità. Istintiva, folle, inesauribile nel darsi, nello sdarsi: capace di prendere a pugni i fan e di gettarsi in mare per salvare una che sta annegando. Incapace di dire di no alle sirene tossiche, alla devastazione di sé, a chiunque le spillasse qualcosa. “Chiedi ad Amy, e lei lo farà”. Oggi sono tante le istituzioni, gli enti che portano il suo nome e continuano, forse anche tra sprechi e lucri, quello slancio per i derelitti o semplicemente i normali, senza una stella sul marciapiede, che l’animava tanto in vita. Sposata, divorziata, sola, piena di successo, piena di tragedia, tutto in un lampo, una raffica di vita, il tempo che una meteora ci mette a sfrecciare: e lascia come una polvere di luce, che non si spegnerà mai. La sua luce era quella voce, così intensa, così vissuta troppo presto. Così spenta troppo presto.
Fu uno shock quando si presentò al mondo con Frank, l’album d’esordio, nel 2003: impudentemente jazz, neosoul, modernamente reminiscente, la paragonano a Sarah Vaughan, a Macy Gray. E sarà un botto ancora più forte tre anni dopo Back to Black, il disco della consacrazione nel segno della tradizione più nera. Sono canzoni che scrive lei, magari non da sola ma l’impronta è decisa, la personalità fortissima almeno quanto la fragilità di farfalla di vetro una volta scesa dal palco. Canta cose come Rehab, dove rifiuta di disintossicarsi: a 25 anni ha già un enfisema polmonare, deve entrare il clinica. Uno pensa che, con quello che fanno, si salvaguardino. Ma anche Aretha soffriva di enfisema, fumava 140 sigarette al giorno. Gente così, ragazze così. Prede di loro stesse. Quel demone di vita che ti tiene in suo potere, che ti ossigena e ti avvelena, ti ammazza mentre ti fa vivere. Ti uccide di quel che ti fa vivere. Una manciata di calendari ancora, e il prossimo disco, nel 2011, esce dopo di lei. Oltre agli inediti, devono riempirlo con alcuni demo, perché Amy non ce l’aveva fatta a completarlo.
Eppure riesce a lasciare qualcosa che va oltre il suo talento ancora acerbo. Eppure si ritrova ad incarnare in quel corpo ossificato, flagellato, l’eterna Fenice del rock che muore, rinasce dalle sue ceneri, per morire ancora. Sempre quella mitologia di merda. Fermati stronza, o ti farai male ma come fa a fermarsi una che ha la tua stessa luce negli occhi ed è la luce di chi si gioca il tutto per tutto ogni volta e tu sai che rilancerà ancora, perché farsi male è la sua missione, perché di male, quel male che ti porta a odiarti, è fatta.
Winehouse si chiamava, ed è morta di tutto e soprattutto di vino, di liquidi pesanti. “Oh, sì, sono proprio una ubriacona”. Gli esami tossicologici chiariranno che aveva in corpo alcool in misura 5 volte superiore al limite consentito per guidare; non ha retto allo stop and go, una massiccia assunzione dopo un periodo di astinenza. Quattro mesi prima aveva donato per sostegno 20mila sterline in abiti a un negozio di Londra. Ha pagato operazioni costose a gente qualunque, e ha proibito che si sapesse. Ha appoggiato ogni campagna in cui credesse, e credeva a tutto quel cuore pieno di tutto. Un giorno dopo la sua perdita, già gli avvoltoi si spartivano l’eredità, non solo artistica, e non avrebbero mai smesso. Lei continuava e continuava, barcollava e continuava verso un altro palco dove saliva malferma, un’altra sbronza, un altra pipa di crack, un altro esaurimento, un altro dimagramento, un’altra clinica, un altro slancio, un altra canzone. Un altro dolore. Un altra overdose in una merdosa stanza d’albergo. “Sono un po’ bulimica e un po’ anoressica, ma chi non ha problemi?”. Ma lei non aveva problemi, aveva incubi famelici a mangiarla. Fermati stronza o ti farai male ma Amy non si era mai fermata fin da bambina e non si sarebbe fermata. Lo sai, questo, lo sai, Keith, no?
E la voce è il rimpianto. Un’occasione perduta. Una maledetta occasione perduta. Oggi avrebbe solo 37 anni e chissà. Ma a che serve fare questi calcoli? C’era tanta Motown in lei, c’era Diana Ross, c’era un tempo che non c’era più, c’era un rhythm and blues da tre ottave di estensione, sicura, potente, appena un po’ roca. C’era tutto giusto, l’intensità, il gusto, la tecnica. Ma c’era pure quel modo di sentire la musica che ti ammazza. Bella, ma finita Gorgone, una foresta nera su un volto mostrificato, i buchi in faccia. E nei capelli stavano tutti i suoi demoni. Oggi una Fondazione che porta il suo nome opera per prevenire i pericoli legati al consumo di droghe e di alcool, e per sviluppare il potenziale dei giovani. Ma a che serve?