Marx Può Aspettare, la nudità del dolore e il cinema a nudo di Marco Bellocchio

Presentato a Cannes, dove il regista riceverà la Palma d’Oro d’onore, il documentario ripercorre la vicenda del suicidio del gemello Camillo nel 68. Un film sulla memoria e il senso di colpa, da cui emerge la spiritualità del cinema di Bellocchio

Marx Può Aspettare

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Quando viene ritrovato il corpo senza vita di Camillo, la madre per il dolore compie un gesto apparentemente insensato: si strappa i vestiti di dosso, cerca di denudarsi, lei donna pudica e pia sino all’ossessione. È l’operazione che compie anche Marco Bellocchio con questo suo nuovo documentario che ha il sapore della verità, Marx Può Aspettare, dedicato al fratello gemello Camillo, morto suicida per impiccagione a soli 29 anni, nel 1968.

Il film è uscito nelle sale contemporaneamente al passaggio al festival di Cannes, dove domani Bellocchio sarà insignito della prestigiosa Palma d’Oro d’onore, consegnata dalle mani di Paolo Sorrentino, come omaggio alla sua lunga e ancora vitalissima carriera – ottuagenario e in piena attività, sta ultimando la sua prima serie tv Esterno Notte, sul caso Moro ed ha già in programma un nuovo film dedicato al caso di Edgardo Mortara.

Di questa carriera, l’intricata vicenda familiare, con al vertice il terribile trauma della scomparsa del fratello, ha sempre costituito un elemento d’ispirazione determinante. Una traccia affiorata talvolta in forme più esplicite, talvolta più allusive nella sua filmografia: a partire dal ritratto scandaloso, per l’epoca, della famiglia disfunzionale del folgorante esordio de I Pugni In Tasca (1965), passando per l’autobiografia letterale de Gli Occhi, La Bocca (1982), sino al nuovamente scandaloso L’Ora Di Religione (2002), con le polemiche per le bestemmie del personaggio del fratello folle del protagonista Sergio Castellitto – esemplato su di un altro fratello di Bellocchio.

Il quale, con Marx Può Aspettare, ha deciso di dismettere le metafore e il discorso indiretto, s’è liberato degli assilli formali del cinema di finzione e ha voluto, depurando lo stile sino all’essenziale e puntando alla scabra semplicità della parola e della confessione – termine che contiene, l’ateo Bellocchio lo sa, un senso quasi religioso – raccontare la vicenda nuda e semplice della vita della sua famiglia e della morte di Camillo.

L’occasione è offerta da un pranzo di fine anno a Piacenza nel 2016, città di cui sono originari i Bellocchio, con le sorelle e i fratelli superstiti – più d’uno negli anni è scomparso –, tutti ormai ottuagenari, alcuni più anziani di Marco, come Piergiorgio, storico fondatore de I Quaderni Piacentini. Il momento apparentemente conviviale riannoda i fili di una vicenda traumatica che ha coinvolto i componenti del nucleo familiare: dal padre morto giovane di cancro, un fratello, Paolo, la cui follia esternata in urla e bestemmie ha segnato la giovinezza di tutti, sino alla vicenda di Camillo, ragazzo sensibile e malinconico, lontano dalla risolutezza intellettuale di Piergiorgio e dai risultati prestigiosi del gemello Marco, privo anche delle certezze rassicuranti dell’ideologia – è sua la frase che dà il titolo al film – schiacciato da una difficoltà di stare al mondo che lo conduce al drammatico gesto.

Marx Può Aspettare ripercorre la vicenda a occhio asciutto: Bellocchio non tace lo sgomento e la commozione, ma evita il sentimentalismo e si mantiene ai fatti, alle memorie delle sorelle e dei fratelli, alle struggenti fotografie in bianco e nero che raccontano un pezzo di storia personale e insieme d’Italia, con i filmini di famiglia e, incastrati dentro di essi, gli spezzoni dei film di Marco da cui più direttamente affiora la filiazione della supposta finzione dalla storia vera.

Bellocchio costruisce un racconto che non fa sconti, soprattutto a sé stesso. Camillo una volta scrisse una lettera a Marco, chiedendogli, non sapendo bene cosa fare della sua vita, se non potesse provare il cinema. Marco confessa ai suoi figli Pier Giorgio ed Elena, piuttosto perplessi, di non ricordarsene bene, e quasi sicuramente di non avergli mai risposto. “Tutti vivevamo una vita di arida infelicità, un deserto”, dice a un certo punto, un’esistenza la cui unica missione era cercare di “sopravvivere”, parola che ritorna spesso nel film, dura e inappellabile, che reca con sé il senso di una gelida solitudine vissuta da tutti nel mezzo di quella famiglia numerosa scandita dai lutti.

Nella foto, da sinistra, i fratelli Piergiorgio, Letizia, Alberto, Maria Luisa e Marco Bellocchio

In Marx Può Aspettare però, non può esserci più nulla delle rabbie, i risentimenti, i furori giovanili. Per questo il film assume una forma oggettiva, segnata, all’inizio e alla fine, da inquadrature in cui i fratelli ormai anziani sono ripresi in maniera frontale, diretta, come diretto è il supplemento d’indagine dentro la memoria collettiva che compie il regista, con tutti i buchi, le incertezze, gli interrogativi che la fragilità imperfetta del ricordo porta con sé.

Affiora lo sgomento del senso di colpa, però sempre emotivamente trattenuto, depurato dalla distanza e da un istintivo pudore. Emerge anche, senza illudersi che raccontare una storia significhi davvero capirla, l’incomprensibilità di una morte le cui vere cause, come sempre in questi casi, restano imperscrutabili. Più che mai agli intellettuali raziocinanti Piergiorgio e Marco, che non si nascondono dietro nessun giro di parole riguardo alla personale incapacità di attingere il nucleo più misterioso del dolore di Camillo.

Questo in verità accade, dentro Marx Può Attendere e anche fuori, perché così è la vita, fatta dello slabbrarsi dell’intimità fraterna, del quotidiano con le sue urgenze che prendono il sopravvento, del bisogno istintivo di allontanare da sé le cicatrici legate alle proprie origini – la necessità, umanissima, della sopravvivenza. Però da qualche parte il dolore resta e lavora interiormente, lasciando tracce sull’intera storia personale. Nel caso del cinema di Marco Bellocchio, a dirlo è con grande finezza padre Virgilio Fantuzzi, amico e storico critico cinematografico della rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica, assume la forma di una via crucis di cui ogni film è una tappa, sino al calvario della bestemmia de L’Ora Di Religione. È una rilettura in chiave spirituale del suo percorso d’artista che fa quasi sorridere il laico Bellocchio, però esatta, se solo guardiamo alla sommessa, disarmata confessione di questo documentario.

Del quale è enigmatico, sentito e bellissimo anche il doppio finale. Prima la confessione della sorella Letizia, che spera in una vita dopo la morte non per vedere Dio e i santi, di cui non le importa nulla, ma per riabbracciare la famiglia. E poi quello schermo diviso in due, che mostra da un lato le tappe della vita di Marco e il suo invecchiare, e dall’altro il gemello Camillo, consegnato all’eternità della sua giovinezza che la vita non ha mai sciupato. Che è, per usare un’altra parole dalle risonanze spirituali, il peccato più grande che possa esistere.