Raffaella Carrà è stata il classico caso in cui la somma va molto al di là delle parti

Forse l'arma in più di Raffaella era proprio quell'essere contagiosa nel vitalismo, quel saper rappresentare l'entusiasmo di un'epoca al punto da indurre a pensare: questa non può morire, questa non morirà mai

photo by Jumpin Jiminy


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Non è esagerato il panegirico della Carrà, rimpianta come un capo di Stato, celebrata dal capo dello Stato? Forse, probabilmente, ma con fondate ragioni. Raffaella era un po’ di tutto e niente di assoluto: cantava così così, ballava così così, conduceva discretamente, intervistava in modo un po’ andante. Però il suo era il classico caso in cui la somma va molto al di là delle parti. La Carrà lo sapeva, sapeva di non avere un talento puro ed era una sgobbona, una perfezionista, con l’umiltà di voler imparare sempre, di assorbire sempre, da tutti e già questa è una lezione in un mondo di improvvisati, non solo di oggi, specialmente di oggi, dove si nasce Fedez o disperati da reality e si tira avanti una vita sempre sapendo fare un po’ di niente e meno di niente. La giovane romagnola invece aveva cominciato da bambina, con la pubblicità e non aveva mai mollato. Con la volontà, con la serietà era arrivata a diventare non tanto la soubrette perfetta quanto una che reggeva il ruolo in un’epoca di mostri sacri. Quando la chiamano a fare Milleluci, nel 1974, deve vedersela con Mina e rischia di finire nella bocca della tigre (di Cremona), Mina è la più grande cantante bianca al mondo ed è, lei sì, magnetismo puro, presenza pura: l’altra non solo non scompare, ma anzi è lei a trascinarla, a scioglierla, a renderla più naturale, più simpatica e con Mina non è mai facile. Ne nasce un’amicizia da pari a pari, senza soggezione e questo perché Raffaella è romagnola e gli emiliano-romagnoli, come diceva Giorgio Bocca, sono dei gran figli di puttana, di quelli che ti fottono con la bonomia. Gentile, seria, umile, ma guai a farle ombra, guai a farla sentire una comprimaria!
Ha avuto anche un Pigmalione speciale in Gianni Boncompagni, che era un cinico amorale e le costruiva tormentoni definiti in privato “sonore vaccate”. Japino, il successore, no, lui è uno che dalla Carrà ha più preso che dato. Anche lei ha avuto i suoi scivoloni, si è guastata con la Rai per ripicche personali, è sbarcata alla corte di Berlusconi dove non ha brillato (come quasi tutti i transfughi dalla Rai, che era un altro mondo), si è costretta a reinventarsi in Spagna, in Argentina, pubblico sentimentale e quando è tornata aveva capito il trucco, puntare sulle emozioni facili, spiegare le ali del patetico. Cinico il “Bonco”, discretamente cinica lei: ha inaugurato il melodramma in talk show, quelle lacrime che Gianfranco D’Angelo, parodiandola in Drive In, le faceva sgorgare a fontana; ha condotto osceni programmi a base di fagioli e carrambate. Ma a 40 anni era già un’altra star e un’altra donna, quasi algida, con quell’accento latino tanto costruito da suonare insopportabile. Non sprigionava una sensualità conturbante, non aveva il fisico, minuta, aggraziata, poche forme, il fascino veniva tutto dal sorriso che, nei tempi fulgidi, brillava come un impasto di freschezza e malizia, e che con l’avanzare del tempo si era dissolto come in chi non è nata fémme fatale.
Allora perché la salutiamo come una Divina? Se ne stanno dicendo tante: perché ha sdoganato l’erotismo domestico, perché ha anticipato i tempi scoprendo la pancia, perché era la diva formato famiglia; forse la vera ragione è che ha saputo incarnare più di tutte quell’esuberanza da ventesimo secolo, una energia forsennata figlia di coincidenze esoteriche: le coreografie non erano un granché ma lei le faceva sue come una posseduta. Quel roteare pazzesco della testa, come se dovesse staccarsi dal collo (quante ragazzine ci hanno provato, rimediando conseguenze devastanti!). Quel gettarsi senza risparmio in ogni ruolo, in ogni forma artistica, anche a costo di trovate sopra le righe – “Quanto a mascherate, solo Renato Zero mi batte”. Sì, forse l’arma in più di Raffaella Carrà era quell’essere contagiosa nel vitalismo, quel saper rappresentare l’entusiasmo di un’epoca al punto da indurre a pensare: questa non può morire, questa non morirà mai. Invece è andata e quando va via una presenza così, lo sentono tutti e perché ha accompagnato i migliori anni della vita di tanti, e perché quella fame di vita, quell’entusiasmo appena velato di malinconia lo sai che non può tornare così come non tornano, neanche reincarnati, gli altri grandi di una televisione irripetibile, dei quali dopo la dipartita di Raffa resta solo Pippo Baudo ormai giubilato. Lo sanno quanti cresciuti tra i Sessanta e i Settanta, anni di benessere e insieme di crisi, Agnelli e Fantozzi, pianta di ficus in appartamento e dodici ore di coda per il mare-fogna, al sabato sera tutti in casa che c’è la Carrà e comunque fuori sparano, uccidono. Decadi feroci, oscure e insieme abbaglianti, divoranti, autofagocitanti, una fiammata di vent’anni consumatasi nel suo ardere.
Raffaella Carrà ha attraversato tutto questo ed è andata oltre, molto oltre sempre con la fiaccola della protagonista. Anche quando i tempi non la aspettavano più e i talent da lei presentati facevano alzare il ciglio o sbadigliare. Ha inoltre avuto il merito, non da poco, di dimostrare che anche nello spettacolo poco si crea e molto si ricicla. È stata un po’ Madonna, un po’ Lady Gaga, un po’ Miley Cyrus (Maga Maghella) molto prima di tutte queste. Ed era italiana di Bellaria, non di New York. Ha anticipato pure certe pulsioni gender, lo sapeva e fingeva di non capire perché. Sempre così così, sempre un poco di tutto, mai troppo. Un poco, perché tutto il resto era lei, Raffa, solo lei, inconfondibilmente lei.