Generazione 56k dei The Jackal è una stronz*ta divertente che vola alto su Netflix

Generazione 56k vince ma non convince, una serie di macchiette stereotipate di cui sicuramente avremo potuto fare a meno


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Non tutte le ciambelle vengono con il buco e Generazione 56k dei The Jackal sicuramente è un esperimento non riuscito. La voglia di leggerezza è ormai il fil rouge dell’intrattenimento del periodo post lockdown ma questo non significa che tutte le stronz*te che si parano davanti a noi, e che riescono a strapparci un sorriso, debbano essere per forza promosse o, ancora peggio, lodate.

Generazione 56k era molto attesa proprio per via del coinvolgimento dei The Jackal (reduci anche dalla querelle che ha visto protagonista Aurora Leone) ma mai come in questo caso non è stata garanzia di successo, almeno non presso la critica visto che le bocciature non sono mancate. Il pubblico però ha apprezzato tanto che la creatura del popolare gruppo di videomaker napoletani sta volando alto e in poco tempo è già una delle serie più viste su Netflix (scalando la famosa topo Ten della piattaforma) e si pensa già ad un possibile seguito, ma cosa c’è di giusto e cosa di sbagliato in Generazione 56k?

La serie nata dalla collaborazione con i The Jackal manca di qualcosa a cominciare dall’originalità e il piglio che da sempre contraddistingue il gruppo di Fabio Balsamo, Fru e tutti coloro che vi hanno preso parte (a cominciare dalla squadra di autori e finendo alla regia firmata da Francesco Ebbasta nei primi quattro episodi) forse un po’ usati come specchietti per le allodole che sono arrivate in stormi regalando a Generazione 56k un’attenzione che un’altra serie di questo tipo non avrebbe ottenuto.

La fiera dell’ovvio inizia dalla base romantica dedicata a Daniel e Matilda (due giovani che si incontrano grazie ad un’app ma che scoprono poi di essersi conosciuti da ragazzini) che già dalla prima scena ‘si rivelano al pubblico’ che da quel momento capisce già cosa succederà subito dopo e cosa si diranno i due nel corso degli episodi. La storia non coinvolge, è leggera, non ha bisogno di interpretazioni e ogni tanto strappa un sorriso al pubblico specie quello che è affezionato a quelli che sono oggetti e momenti cult del repertorio degli anni ’90, quella generazione 56k che si affacciava al mondo globale del web e che era ancora ancorato a quel ‘muretto’ dove gioie e dolori dei ragazzi si alternavano a racconti di vita e di conquiste, vere o false che fossero.

Una serie di macchiette stereotipate che nemmeno i flashback, pronti a portare a galla la nostalgia del pubblico, riescono a rendere meno ovvia. La leggerezza non giustifica il vuoto cosmico portato sullo schermo e anche se la voglia di sorridere e rivivere anni che non torneranno prende il sopravvento strada facendo, non basta. L’usato sicuro di Generazione 56k vince ma non convince.