La Terra Dei Figli, la ricerca della tenerezza di una generazione senza padri

Il racconto post-apocalittico di Claudio Cupellini, tratto da un graphic novel di Gipi, è una parabola intimista dalle venature fiabesche, un doloroso viaggio iniziatico di un figlio verso l’età adulta. Tra i protagonisti Valeria Golino e Valerio Mastandrea

La Terra Dei Figli

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Dopo anni dedicati alla regia di Gomorra – La Serie, Claudio Cupellini torna al grande schermo, dal quale mancava dal 2015, dai tempi di Alaska, un mélo venato di noir intrigante e a suo modo poco italiano. Per certi versi è eterodossa rispetto panorama nazionale anche la scelta del racconto post-apocalittico di questo nuovo La Terra Dei Figli (2021), che Cupellini, aiutato in sede di sceneggiatura da Guido Iuculano e Filippo Gravino ha tratto, snellendolo, dal graphic novel omonimo di Gipi. Però è anche vero che in quest’ultimo decennio i nuovi autori si sono dedicati sempre più al ritorno ai generi, con incursioni nel fumettistico, il film sportivo, heist e crime movie, pellicole di ambientazione storica, che hanno ampliato lo spettro narrativo della nostra cinematografia, non più necessariamente, ed è un bene, incardinata sul doppio binario dicotomico commedia-film d’autore.

La Terra Dei Figli fotografa un mondo in ginocchio, riemerso dopo un indefinito cataclisma in un dopostoria, uno scenario spettrale e primitivo di palafitte e baracche in cui i pochi sopravvissuti ingaggiano una lotta elementare per la vita in cui ogni uomo è nemico del suo prossimo. È così persino il rapporto tra i due protagonisti volutamente senza nome, il Padre (Paolo Pierobon) e il Figlio (l’esordiente Leon De La Vallée), in cui il genitore verso il sangue del suo sangue non ha un solo gesto amorevole, chiuso in una durezza ferina e senza sentimenti.  L’unico elemento estraneo è la scrittura in cui il Padre talvolta si immerge, raccogliendo in un quadenro pensieri preclusi al figlio il quale, essendo nato dopo la tragedia, non è in grado di leggere.

Così quando il Padre muore, il ragazzo decide di varcare l’argine che separa la porzione di realtà tutto sommato sicura in cui vive dal mare aperto del mondo che decide di affrontare con tutte le sue insidie, mosso da una volontà di cambiamento, di crescita e di scoperta, cercando qualcuno che sia in grado di leggergli il contenuto di quelle pagine. Per capire se, al fondo dell’odio sordo paterno, albergasse un barlume di tenerezza.

In questo itinerario di incontri, con un uomo cattivo come un orco (Fabrizio Ferracane) una “strega” non vedente (Valeria Golino), un duo di fratelli adulti forse benevoli (Maurizio Donadoni e Franco Ravera), una giovane donna tenuta in gabbia come una bestia (Maria Roveran), una banda di violenti tra cui un cacciatore di uomini (Valerio Mastandrea) si srotola il percorso iniziatico del giovane figlio verso la scoperta di sé e il passaggio a una vita adulta nonostante tutto.

La Terra Dei Figli è debitore del genere tipizzato cui appartiene, con una nota che lo apparenta in particolare a I Figli Degli Uomini di Alfonso Cuarón: perché se lì dopo la catastrofe le donne non erano più in grado più di generare figli, qui invece i padri hanno deciso di ucciderli tutti per risparmiargli l’orrore di un mondo senza più senso – tranne appunto il Padre interpretato da Pierobon.

Il quasi irriconoscibile Valerio Mastandrea de La Terra Dei Figli

Il film però mostra l’autonomia delle proprie scelte, a partire da un’ambientazione indovinata nella Pianura Padana del delta del Po, un mondo acquoreo con un orizzonte che si distende monotono e indefinito, una realtà residuale dai colori grigi che non offre più coordinate fisiche e di senso alle persone che la abitano. Ed è indovinata nella sua semplicità l’idea che il percorso iniziatico di maturazione intrapreso dal giovane protagonista, costretto a superare delle allegoriche Colonne d’Ercole, sia nella direzione della conoscenza, simboleggiata da quel quaderno in cui sono iscritti i segni di un sapere, il linguaggio, che gli è preclusi e al quale aspira per ampliare il proprio orizzonte fisico e mentale.  

Gli individui in cui si imbatte il Figlio sono tutte figurazioni dell’universo familiare: una donna che forse è stata una madre – la sola che mostri verso di lui una embrionale forma di affetto – i due fratelli che si rivelano una coppia di Caino e Caino, il cacciatore oppresso dal senso di colpa per l’assassinio sacrificale del figlio e, infine, quella giovane donna ridotta allo stato di ferinità il cui nome, Maria, rimanda alla promessa di un diverso modo di vivere, in cui l’amore, raggelato dalla tragedia collettiva, possa finalmente riaffiorare.

I Figli Della Terra ha un incedere monocorde come gli scenari incolori della spenta laguna in cui è ambientata la storia. Non è un thriller, ma una parabola intimista dalle venature fiabesche in cui protagonisti e sentimenti – o meglio, la loro assenza – sono più importanti dell’azione, che ruota intorno sempre agli stessi meccanismi ripetuti. In questa chiave non giova al racconto il fatto che i personaggi restino allo stato di abbozzo, più funzioni narrative archetipiche che individui con un proprio carattere, non facendo scattare la partecipazione dello spettatore a una vicenda dallo sviluppo troppo elementare.

È la debolezza maggiore di un film formalmente ben costruito, in cui scenografia (Daniele Frabetti), costumi (Mariana Tufano), musiche (Motta) contribuiscono alla costruzione di un universo implacabile e credibile, un deserto emotivo che assomiglia a una palude definitiva, postumana. Una palude per salvarsi dalla quale bisogna riuscire a interpretare il linguaggio arcano del quaderno, libro sapienziale nel quale è raccolto il tesoro della memoria degli uomini e dei loro sentimenti inespressi.