Fortuna, la cronaca trasfigurata in una favola nera. Che sfiora l’esercizio di stile

Dal 27 maggio al cinema, il film d'esordio di Nicolangelo Gelormini s'ispira a un tragico caso di infanzia violata. Il tono è esageratemente prezioso e allusivo. Con Valeria Golino e Pina Turco

Fortuna

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Fortuna s’ispira fin dal titolo a un terribile caso di cronaca, quello d’una bambina di sei anni, Fortuna Loffredo, che morì gettata giù dal tetto d’un condominio del Parco Verde di Caivano, nel quale le indagini scoperchiarono una reiterata vicenda di abusi ai danni di diversi ragazzini. Per il suo esordio al lungometraggio il regista Nicolangelo Gelormini però, già assistente di Paolo Sorrentino, insieme al cosceneggiatore Massimiliano Virgilio sceglie di mettere volutamente tra parentesi la mimesi e il ricatto del dolore spiattellato in faccia allo spettatore, e procede con uno stile ricercato e rarefatto, in cui la storia, il cui senso viene rivelato solo nelle didascalie prima dei titoli di coda, resta quasi imperscrutabile.

Prima di tutto all’inizio Fortuna (Cristina Magnotti) pare chiamarsi Nancy, con una madre dolce e accogliente (Valeria Golino) e un padre più defilato ma non meno tenero (Libero De Rienzo), che mostrano qualche apprensione per quella bambina taciturna portata da una psicologa un po’ sbrigativa (Pina Turco) che la fa disegnare per cercare di capire quali siano i suoi traumi.

Fortuna e la sua famiglia vivono in un enorme palazzone che incombe sui personaggi col suo profilo enorme e lugubre, mentre tutt’intorno si stende una periferia amorfa. La ragazzina cerca di ritagliarsi un suo universo fantastico, con gli amichetti con cui gioca sul terrazzo del condominio coi quali parla di giganti e pianeti misteriosi, ma anche di minacciosi fiori blu e di un telefonino sul quale girano dei video che paiono morbosi di bambine riprese a ballare. Il vicinato non è più tranquillizzante, c’è per esempio una strana saccente vicina di casa che vive sul pianerottolo e che probabilmente fa il palo al figlio spacciatore di droga. A un certo punto uno degli amici di Nancy muore, accidentalmente?, per una caduta.

A quel punto la storia ricomincia dall’inizio, ripetendo le stesse tappe. Si amplia il formato dell’immagine, dall’originaria dimensione quasi quadrata al tutto schermo e si ribaltando i ruoli dei personaggi. Ora Nancy si chiama Fortuna, mentre Valeria Golino diventa la psicologa e Pina Turco la madre. Il tono del racconto si fa più concreto, s’ispessisce lo squallore suburbano, ed emerge dallo sfondo un vicino (Giovanni Ludeno) dai modi un po’ viscidi. L’enigma a poco a poco assume contorni minimamente più definiti, senza però che mai il nocciolo tragico della vicenda, il grumo di dolore e soprusi che ne è al centro, venga esplicitato.

Le protagoniste Valeria Golina, Cristina Magnotti e Pina Turco. Foto di Gianni Fiorito

Sin dalle primissime inquadrature, che ritraggano le architetture della periferia in dettagli quasi astratti, Fortuna scarta dal realismo della messinscena, mosso da un una forma di pudore rispetto alla rappresentazione della violenza, nella quale non vuole rimestare come quei film di onesta denuncia civile che però finiscono sempre per sfruttare parassitariamente un orrore che mostrano con troppa disinvoltura. Invece d’una descrizione minuziosa di squallori e brutture, Gelormini riscatta l’innocenza infantile tramite continue e preziose accensioni stilistiche, negli scarti di montaggio, nel ritmo laconico e introverso di scene in cui pare non accadere nulla, muovendosi in un tono sfumato e fiabesco, con improvvisi scatti ed effetti sonori quasi horror.

La sindrome da disorientamento temporale di cui pare soffra la bambina è la stessa del film, che si ripiega su sé stesso attraverso sequenze che rifiutano un ordine cronologico e logico cogente. E lo spettatore deve decrittare il senso della storia negli interstizi tra le sequenze, nei non detti. Fortuna è un film anche coraggioso, con scelte visive esibite e una confezione che sperimenta una tastiera espressiva ed emotiva lontana dall’ovvio.

Però si tratta di una cifra alla lunga sfiancante, perché dalla ricercata rarefazione formale non affiora una seppur minima sedimentazione narrativa. Così i protagonisti, seppur bravi, anche i bambini, non riescono mai a trasformarsi in autentici personaggi. E il modo di procedere per ellissi e lampi fiabeschi, più che da una forte scelta autoriale sembra derivare dallo smarrimento di fronte a una vicenda scomoda per la quale non si sanno trovare parole e immagini nette per raccontarla, preferendo adagiarsi in una confezione tutta allusioni e ambiguità che non dice mai nulla di preciso, naufragando nell’esercizio di stile.