Il Divin Codino, il biopic su Roberto Baggio, una vita tra calcio, famiglia e provincia

Da oggi su Netflix il film sul grande calciatore. Una storia di cadute e rinascite, che celebra la forza degli affetti e il buon senso dell’Italia profonda. Semplicistico certo, ma affettuoso e poco enfatico

Il Divin Codino

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Nonostante le apparenze, non è il famoso rigore sbagliato a Usa 94 nella finale dei mondiali contro il Brasile l’acme de Il Divin Codino, il biopic sulla vita di Roberto Baggio (interpretato dall’Andrea Arcangeli di Romulus) che debutta oggi su Netflix. Certo, quando il prologo mostra un bambino che tira un calcio a un pallone dentro l’officina paterna, e poi quell’immagine si trasforma nel Baggio adulto davanti al portiere Taffarel che sta per eseguire il penalty più importante della sua carriera allora davvero sembra che il senso del film sia tutto lì.

Ma a parte il fatto che prima di veder calciare quel rigore ne passerà ancora molto di tempo, almeno metà film, è chiaro che la regia di Letizia Lamartire (Baby 2 e 3) e la sceneggiatura di Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo (insieme hanno firmato Il Ragazzo Invisibile, 1992, 1993) hanno altri obiettivi, fedeli a quell’idea ripetuta più volte che più importante dello scopo è il percorso.

E lo seguono il percorso fatto di inevitabili alti e bassi di questo ragazzo di Caldogno, provincia di Vicenza, nato in una famiglia con otto figli e un padre burbero (Andrea Pennacchi), che è sì un talento predestinato, ma è pure un ragazzo taciturno e apparentemente fragile. La fragilità è quella che pare spezzare definitivamente le sue ambizioni già nel 1985, quando ormai già ceduto alla Fiorentina che s’aspetta grandi cose dal campione in erba, subisce a 17 anni un grave infortunio al ginocchio destro durante la partita tra la sua squadra, il Lanerossi Vicenza, e il Rimini – guarda caso allenato da un ancora semisconosciuto Arrigo Sacchi, che sarà la sua nemesi durante i mondiali del 1994 (il film non può lasciarsi sfuggire questo dettaglio del caso che pare uscito da una perfetta sceneggiatura).

Sin da questo inciampo – che trova eco molti anni dopo nell’altro grave infortunio del 2002, a fine carriera, quando Baggio milita nel Brescia e spera di essere riconvocato in nazionale da Trapattoni – Il Divin Codino trova il suo assetto narrativo fondamentale, e abbastanza tradizionale, in un ciclo di cadute e redenzioni, di prove da superare più e più volte. A far da collante per cementare gli alti e bassi della vita sono la famiglia, un sano buon senso di provincia e il buddismo, che Baggio comincia ad abbracciare dopo il primo incidente, a Firenze – “Dove finiscono le mie capacità comincia la mia fede”, dice.

Su questi tre elementi si regge il film. Famiglia vuol dire prima di tutto il rapporto con un padre difficile, con poche parole, affetti trattenuti e nessun complimento. E quel ruolo paterno, con la speranza del figlio di ottenere un riconoscimento, è assunto vicariamente dagli allenatori importanti che Baggio incontra lungo il suo percorso. Prima Arrigo Sacchi (Antonio Zavatteri), una relazione molto controversa – la famosa sostituzione contro la Norveglia a Usa 94, quando l’Italia è in dieci e Baggio commenta in mondovisione “Questo è matto” –, in cui però la sceneggiatura ha l’intelligenza di non trasformare il mister di Fusignano in uno scontato villain da film (il ruolo toccato a Spalletti nel documentario di Infascelli Mi Chiamo Francesco Totti e nella serie Speravo De Morì Prima). Sacchi che, guarda caso, dei giocatori dice “Per me siete tutti uguali”, esattamente come il padre di Baggio quando parla dei suoi otto figli. Poi tocca al ruspante Carletto Mazzone (un inedito Martufello), l’allenatore del Brescia che con la sua bonomia paesana e praticona glielo spiega chiaramente che tutti i calciatori, in fondo, sono sempre in cerca di padri putativi e l’allenatore è perfetto per il ruolo.

Famiglia vuol dire anche la compagna per la vita Andreina (Valentina Bellè), accanto a lui sin dall’adolescenza. È lei che lo raggiunge, insieme ai genitori di Baggio, a Usa 94, capace anche di trasformarsi letteralmente nella sua stampella, quando il calciatore, cercando di riprendersi dal secondo infortunio, cammina appoggiandosi alla moglie e ai figli.

Poi c’è il calore della provincia, della vita semplice condotta a un ritmo più comprensibile e a misura d’uomo. Un mondo che ti dice che “se non ti impegni le cose non arrivano da sole”, che son pure le parole del suo primo maestro zen, col che il film collega in maniera anche un po’ spericolata il buddismo a un buon senso da provincia italiana. Un mondo dove può succedere che quando la moglie del patron d’una squadra, il Brescia, vede in tv Baggio che senza contratto s’allena a casa sua,  chiama “Ginetto”, il marito, dall’altra stanza e gli chiede se non sia il caso di prenderlo quel calciatore. E detto fatto, in un attimo è contratto, intorno a un tavolo a stringersi la mano, e di soldi manco si parla. Questa ode alla provincia è anche la ragione per cui a finire del tutto tra parentesi, come non fossero mai esistiti, sono gli anni nelle squadre più blasonate, la Juventus e il Milan, che pure son quelle con cui Baggio ha vinto i titoli importanti. Ma non s’accorderebbero col tipo di ritratto cui punta Il Divin Codino.

Perché, come si diceva, importa il percorso. I titoli, anche il Pallone d’Oro vinto nel 1993 che si vede quasi di sfuggita, sono meno rilevanti. Esattamente come il rigore sbagliato col Brasile, che è sì al centro esatto del film, ma ne sorregge la struttura molto meno di quanto sembri. Il Divin Codino punta ad altro, in questo anche coerente col personaggio, un atleta e un uomo dallo stile sommesso e non guascone, abbastanza lontano dalla società del calcio spettacolo di oggi. Per questo il film parla, con tono fin troppo addolcito e accomodante, di valori antichi, di una fede sicuramente, poco interessato all’epica – infatti di calcio giocato ce n’è, saggiamente, pochissimo – e più ai momenti intimisti. E in questo trova una sua cifra a misura d’uomo, da film certo non indimenticabile, però senza enfasi celebrative, affettuoso e simpatico.