Un Altro Giro, le modeste provocazioni alcoliche del film da Oscar di Thomas Vinterberg

Dal 20 maggio al cinema il film d’autore europeo dell’anno, vincitore della statuetta per il film internazionale. Parte come un trasgressivo elogio della bottiglia. E termina in un furbesco panegirico sulla bellezza della vita

Altro Giro

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Osare è perdere l’equilibrio per un momento. Non osare è perdersi”: più ancora della citazione posta esplicitamente all’inizio del film – “Cos’è la giovinezza? Un sogno. Cos’è l’amore? Il contenuto d’un sogno” – è a quest’altro pensiero di Kierkegaard messo in bocca a uno dei protagonisti di Un Altro Giro (Druk, 2020) che il regista Thomas Vinterberg consegna il “messaggio” del suo ultimo film. Il quale, pur incappato nelle sfortune dell’anno della pandemia – si è ritrovato nella selezione fantasma del mai svolto Festival di Cannes 2020 – alla fine s’è guadagnato il titolo di film d’autore europeo dell’anno, trionfando agli Efa, i cosiddetti Oscar europei, e poi agli Oscar veri e propri, dove ha ottenuto la statuetta come miglior film internazionale. E già si parla di un remake americano con Leonardo DiCaprio.

Può sembrare paradossale tanto entusiasmo per un film che, sulle prime, sembra una sorta di panegirico della sbronza, quanto di meno politicamente corretto si possa immaginare. La storia di Un Altro Giro ruota infatti intorno a quattro professori danesi quaranta-cinquantenni, tra cui l’attore più caro a Vinterberg, Mads Mikkelsen, che immalinconiti dalla mezza età e non trovando più motivazione nell’insegnamento e nella vita privata, decidono di dare una svolta alla loro esistenza. Uno dei quattro, docente di psicologia, informa gli amici degli studi di Finn Skårderud, uno psichiatra norvegese – esiste davvero – il quale sostiene che l’essere umano sarebbe nato con un tasso alcolemico inferiore al necessario dello 0,05%. Per mettere alla prova la teoria i quattro attuano un meticoloso piano di bevute pianificate per vedere se questo, effettivamente, migliori le loro vite.

Gli amici cominciano a bere di primo mattino, però smettendo alle otto di sera e non toccando alcol nemmeno nei weekend. Il miracolo avviene: gli spenti professori improvvisamente ringalluzziscono, migliora non solo il loro umore ma ritrovano il gusto di lavorare, trasformandosi in docenti trascinanti. Il professore di ginnastica motiva il ragazzino occhialuto e bullizzato, che diventa il leader della squadra di calcio della scuola. Mikkelsen s’inventa giochetti di prestigio che entusiasmano gli studenti – tipo, chi sceglieresti come leader politico tra un paraplegico, un ubriacone e un sobrio vegetariano che ama gli animali? I ragazzi ovviamente prendono il terzo, e preferiscono Hitler a Franklin Roosevelt e Churchill – e lo rendono immediatamente l’insegnante più popolare dell’istituto. Per soprammercato Mikkelsen riesce anche a ravvivare lo spento ménage familiare, ritrovando prestazioni sessuali degne di nota con la moglie.

Insomma aveva ragione Kierkegaard, bisogna avere il coraggio di perdere l’equilibrio, le certezze, forse anche la tanto sopravvalutata lucidità. Però Un Altro Giro non si ferma qui, altrimenti difficilmente avrebbe ottenuto il favore che gli è arriso. Perché passi un bicchiere, ma due diventano pericolosi. E cercando di portare avanti il loro esperimento, gli amici si spingono troppo oltre. A quel punto gli effetti benefici degli “spiriti” svaniscono, prende il sopravvento un torpore autodistruttivo che si riverbera anche sui rapporti di coppia, che s’incancreniscono immediatamente.

Un Altro Giro, in fondo, si pone una domanda intorno alla quale l’essere umano ruota da sempre: ossia come riuscire a tenersi in equilibrio tra passione e ragione, tra istinto fisiologico a lasciarsi andare per entrare in contatto con il sé profondo, pulsionale, oscuro, e il bisogno di lucidità senza la quale la nostra esistenza perde immediatamente consistenza. È un equilibrio che nemmeno Vinterberg riesce a trovare, in un film confuso, furbo e ondivago. Parte come una trasgressiva celebrazione della bottiglia al fine, si presume, di scandalizzare i bravi borghesi – posto esista ancora una categoria del genere –, le cui ipocrisie il regista mette alla prova dai tempi del giovanile Festen. E però poi Un Altro Giro sgonfia le provocazioni, abbandona l’esperimento esistenzial-scientifico e s’accuccia nel solito dramma familiare, quello sì molto borghese, di recriminazioni e tradimenti tra lui e lei. Alla fine, insomma, c’è la solidità della coppia come unica soluzione, e allora sarà il caso di darsi una calmata, non disdegnare un buon bicchiere, ma senza esagerare.

Restano pagine visivamente efficaci: a partire dal prologo, con gli studenti che si sfidano a una gara alcolica correndo a perdifiato intorno a un lago, una sequenza che restituisce il fascino seducente dell’esuberanza etilica mista alla bellezza intrinseca della giovinezza e all’esaltazione panica degli scenari nordici. Però in conclusione Un Altro Giro sfugge alle sue premesse incendiarie – che sulla carta farebbero addirittura far pensare a La Grande Abbuffata di Ferreri, che però è un film mortuario che procede fino alle estreme, e sgradevoli, conseguenze – e si rifugia in una conclusione di piccolo cabotaggio, piuttosto ambigua per la verità, sulla poesia della vita nonostante tutto, nella quale vale la pena gettarsi a capofitto.