The Father, Hopkins e Colman in un commovente viaggio nella mente di un uomo

Da giovedì 20 al cinema il film che Florian Zeller ha tratto da una sua fortunata pièce teatrale, storia del progressivo decadimento di un anziano malato di Alzheimer. Protagonisti impeccabili e due premi Oscar, alla sceneggiatura e ad Hopkins

The Father

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Dopo il clamoroso successo della pièce teatrale, messa in scena in 45 paesi (anche in Italia, con Alessandro Haber), vincitrice del premio Molière nella madrepatria Francia, del Tony e Olivier Award rispettivamente per l’edizione di Broadway e del West End londinese, anche già tradotta in film nel 2015 da Philippe Le Guay (Florida, con Jean Rochefort), il drammaturgo Florian Zeller ha deciso di ritornare sui passi del suo dramma del 2012 Le Père per tradurlo in una seconda versione cinematografica, da lui diretta e sceneggiata, insieme a Christopher Hampton, già autore degli adattamenti in lingua inglese.

Il risultato, The Father, cui in italiano è stato aggiunto un importuno sottotitolo che dice troppo, Nulla È Come Sembra, ha riattivato l’interminabile favore che quest’opera ha ottenuto un po’ dovunque, capace anche di ottenere sei nomination e due premi Oscar, alla sceneggiatura non originale e all’impeccabile protagonista Anthony Hopkins (va detto che, non fosse per la vittoria di un Oscar solo due anni fa, il premio l’avrebbe vinto anche Olivia Colman).

Hopkins è Anthony, un ottuagenario affetto dall’Alzheimer che vive da solo nella sua casa londinese. La figlia Anne (Colman) deve trasferirsi a Parigi col suo nuovo compagno ed è preoccupata per il destino del padre, che rifiuta anche l’assistenza di qualunque badante, e perciò sta perciò pensando di ricoverarlo in un istituto. Quasi subito però la vicenda si ingarbuglia: all’improvviso, in apparente contraddizione con quanto accaduto fino a quel momento, Anthony si ritrova per casa uno sconosciuto che asserisce di essere il marito di Anne, la quale a sua volta dice al padre di non star lasciando l’Inghilterra. Nel frattempo quel marito sgradevole si duplica, interpretato da due diversi attori coi quali Anthony, smarrito e mai riconoscendoli, interagisce con gran sospetto. Ogni tanto poi, rimpiange l’assenza dell’altra figlia, andata via da tanti anni, che spera sempre di poter rivedere.

Nulla è appunto come sembra in The Father, che nella forma assomiglia a quei mind game movies alla Christopher Nolan o alla Charlie Kaufman (Zeller dice di essersi ispirato anche a Mulholland Drive di Lynch), nei quali il racconto procede tra continue contraddizioni narrative che terremotano la stabilità della realtà, che muta continuamente sotto i nostri occhi, obbligando lo spettatore a chiedersi cosa stia davvero succedendo.

L’interrogativo però non diventa mai quello di un thriller, non c’è alcun mistero da scoprire che possa aiutare a riagguantare il bandolo della matassa e ritrovare la logica dei fatti. Logica e linearità semplicemente non ci sono né ci potranno essere, perché quello di The Father è il mondo come lo percepisce il protagonista, un uomo malato che sta velocemente perdendo la capacità di ricordare fatti e cose. Così tutto nella sua mente si sovrappone e s’aggroviglia e il mondo perde progressivamente senso, distante e sempre più opaco.

The Father è un dramma da camera – la casa è l’altra protagonista della storia – che mantiene una forma esteriore molto tradizionale, con piani fissi e molto dialogata, alla ricerca di una apparente oggettività dei fatti, mostrando senza infingimenti la malattia per quello che è, una continua, inesorabile perdita di ogni cosa (a sottolineare questo dato, nella versione teatrale scomparivano progressivamente anche gli arredi). E infatti ad Anthony manca sempre qualcosa, soprattutto il suo orologio che pensa gli sia stato rubato dall’ennesima, dice lui, badante truffaldina. Di orologi al polso addirittura ne porta due, evidentemente alla disperata ricerca di qualcosa che almeno resti lineare e stabile – se non lo spazio e le persone, che si avvicendano insensatamente, almeno la durata e il tempo.

Olivia Colman e il regista Florian Zeller sul set

Ed è proprio qui che The Father trova la sua misura migliore, nella rinuncia a cercare una cornice vistosa, conscio che la vicenda non debba ricorrere a effetti visivi e di ripresa, sorreggendosi invece interamente sui suoi risvolti umani. Perciò un film del genere non potrebbe esistere senza i suoi protagonisti. Hopkins è magnifico, doloroso nell’asciuttezza di un’interpretazione che s’accorda alla misura espressiva del film, e quindi spoglia, essenziale.

Nel progredire del racconto è via via sempre più svuotato d’energia, sempre più smarrito nello sguardo, passando dagli scatti di rabbia o dall’esibizione vanesia di fronte a una badante giovane e carina – cui dice addirittura di essere un ex ballerino di tip tap – a una fisicità, sul finale, completamente arresa. Non è da meno Olivia Colman, che ha l’intelligenza di lavorare di controscena, lasciando lo spazio a Hopkins e riempiendo con discrezione gli interstizi con i continui sussulti di un’apprensione ugualmente sofferta. Ed è questa la ragione per cui, pur in assenza di intrighi segreti e colpi di scena lo spettatore resta incatenato a un racconto che non chiede di essere capito, quanto emotivamente vissuto.