W i Body Count e Ice-T, musica per organi bollenti

In questa epoca così strana, sapere che il vecchio Tracy Marrow, questo il nome di Ice-T, è ancora in giro a urlare e rappare parole eversive, mi rasserena


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Siamo nel 1990.

Io sto studiando Storia Moderna all’università di Bologna, l’Alma Mater. Lo sto facendo in realtà da casa, da Ancona, non è mai stata presa in considerazione l’idea che io frequentassi, e la cosa, ai tempi, mi sembrava più che naturale. Del resto avevo una vita piacevole in città, suonavo, avevo una ragazza, che oggi è mia moglie, avevo tanti amici, non sentivo affatto la necessità di andare altrove.

Decidevo di affrontare una materia, andavo a parlare col professore, prendevo i libri e me li studiavo per conto mio, mi iscrivevo e davo l’esame. Poi passavo a altro.. Dato l’esame, a volte ne davo anche due o tre alla volta, portati avanti in parallelo, passavo al successivo, o ai successivi. Senza mai aver frequentato una lezione, un paio di volte a Bologna al mese, in treno, partivo la mattina presto e tornavo la sera.

In quelle occasioni, sempre, andavo anche a rifornirmi di vinili, dal Disco D’oro, in via Gallera, vicino all’Isola nel Kantiere, quella dell’Isola Posse All Stars, o da Nannucci, che era più verso il centro e che ne era decisamente una versione mainstream. Tornavo a casa con album che, in Ancona, non avrei trovato, neanche dal mio rivenditore di fiducia, Marco Cataldi, e che andavano a rimpinguare la mia discoteca.

Come ho raccontato altre volte, era pure una faccenda di budget, anzi, lo era soprattutto, molti degli album che avrei voluto avere, all’epoca ero letteralmente onnivoro e voracissimo, volevo ascoltare tutto, e riascoltare tutto, molti di quegli album, quindi, li avevo, si fa per dire, sotto forma di audiocassetta, prestatimi da amici fidati, dai fratelli Bartola, Roberto sarebbe poi stato il bassista della mia band punk, gli Epicentro, che mi passavano prevalentemente vinili punk, hardcore e new wave, quelli che mi passava Massi Di Prenda, il batterista con cui avrei suonato in seguito, heavy metal e southern rock, e quelli che mi girava Stefano Renzi, il rock alternativo americano, le college band, ma anche certo rock europeo, dai primi U2 ai Waterboys, per intendersi. Migliaia di cassette, ordinatissime, tutte da 90 minuti, un album per lato.

Oltre ai dischi, ai tanti dischi, tutti quelli che riuscivo a comprare risparmiando su tutto quel che potevo. Ma nessuno dei miei amici ascoltava rap, e io amavo il rap. Lo trovavo un genere innovativo. Intendiamoci, ho suonato per anni, in diverse band, ho scritto canzoni, molte delle quali, per altro, anni dopo sono state pubblicate, da major, cosa che ancora oggi non manca di farmi ridere, ma non ho mai provato a fare rap.

So bene quali sono i miei talenti, e soprattutto so quali non sono i miei talenti, leggi alla voce “limiti”.

Ma ascoltare rap mi piaceva. Ho iniziato a scrivere narrativa, poco dopo, provando a simulare il rap, sulle orme di Balestrini, anche di questo ho già parlato e non voglio tornarci su oggi, non serve.

Amavo tutta la musica, compresa il rap, ma non avevo amici che mi potessero prestare album rap. Per cui, nei primi anni Novanta, buona parte dei vinili che compravo, anche dei cd, si dividevano equamente tra rap e grunge, con una buona prevalenza del primo.

Tornavo a casa, da Bologna, con l’immancabile busta quadrata del Disco d’Oro, con dentro i vinili, che riponevo in ordine alfabetico nella mia discoteca. E nel mentre studiavo la materia, nei modi che allora, fine anni Ottanta, primi anni Novanta, era possibile.

Non c’era internet, o era solo accessibile a chi lavorava alla Silicon Valley, quindi toccava leggere le riviste specializzate, su tutti seguivo Guido Chiesa, Alberto Campo e Paolo Ferrari, e i programmi notturni di Radio 2, tipo Planet Rock e Stereodrome, voci quali Luca De Gennaro e Gennaro Iannucilli, e quando capitava di incontrare qualche libro citato negli articoli o nei programmi radio, libri in inglese, lo si poteva ordinare alla Libreria Internazionale sotto le due torri di Bologna, altra via non c’era, niente Amazon, ovviamente.

Così, nei fatti, ho imparato una lingua, l’inglese, che a scuola non avevo studiato a sufficienza, ho fatto il Classico, all’epoca inglese era presente solo nei primi due anni, al Ginnasio, per un numero risibile di ore. Ho iniziato a leggere libri, penso a David Toop, a George Nelson, ma anche a buona parte dei libri sulle Black Panters, che in Italia non erano stati tradotti, o erano stati tradotti troppi anni prima di me, e che difficilmente riuscivo a reperire, l’unica era studiare per conto mio inglese, e provare a capire quel che quei libri dicevano. E nel mentre ascoltavo compulsivamente, provavo a farmi una cultura generale, certo, ma anche una cultura specifica.

Il rap, all’epoca, era musica di nicchia, per appassionati, tanto quanto il punk, l’hardcore, il grunge e gli altri generi trattati dalle riviste specializzate, non certo da quelle mainstream, su Tutto Musica, per dire, sarei stato io il primo a occuparmene con continuità, circa dieci anni dopo, prima di me il nulla o solo poche cose sporadiche e casuali.

Tutti noi, noi che ascoltavamo musica alternativa, io per altro ascoltavo anche musica non alternativa, il pop, il cantautorato, tutto, ci si riconosceva come parte di una sorta di genia a parte. Quando andavo a Bologna, dicevo prima, andavo sempre al Disco d’Oro.

Via Gallera è la parallela di Corso Indipendenza, l’Isola era sorta nel cantiere del Teatro del Sole, teatro il cui ingresso era appunto su quel corso. Per andare all’università, sita in via Zamboni 32, dopo la mitica Piazza Verdi, dove spesso vedevo i protagonisti della scena alternativa bolognese, per altro, allungavo un po’ e passavo di lì.

Quindi prima di arrivare al mio negozio di dischi del cuore passavo davanti al Centro sociale, quello da cui sarebbe partito Stop al Panico, quello che sarebbe finito nei racconti di Antò lo Purk di Silvia Ballestra, ora mia cara amica, nonché vicina di casa, quello da cui sarebbero usciti i Massimo Volume, la cui batterista, Vittoria, era la mia ex compagna di banco alle superiori, e i Sangue Misto, Madonna che nostalgia. Lì davanti, tra punkabbestia, bboy, metallari e quant’altro, c’era una varia natura che mi faceva immaginare, per qualche minuto, il tempo di fare due chiacchiere, di essere altrove. In un altrove dove la gente era più simile a me di quanto in realtà non fosse, io all’epoca avevo i capelli lunghi fino al sedere, quasi, ma in fondo non ho mai dormito una notte in uno squat, non mi sono mai fatto una canna, la birra mi ha sempre fatto abbastanza cagare, solo che sentivo tutto quello a me vicino perché nella mia città, Ancona, di gente che ascoltava la mia stessa musica ce n’era poco, e era decisamente più chiusa verso l’esterno di quanto non fossero quegli squinternati.

Da noi, in Ancona, c’era il gruppo dei dark e dei punk di piazza Cavour, a pochi passi dalla panchina intorno alla quale ci si ritrovava coi miei amici, e c’erano i metallari della Galleria Dorica, ma erano gruppi nei quali io, che di vista li conoscevo tutti, stiamo parlando di provincia, non di metropoli, non ero accetto. Ci parlavo, ci mancherebbe altro, ci passavo del tempo, ma non ero uno di loro. Lì a Bologna, sarà per via dell’università che riversava in città tantissima gente di fuori, era tutto più semplice, anche perché poi la sera me ne tornavo indietro, coi miei vinili, era un impegno che richiedeva un minimo sforzo da parte mia come da parte loro.

Ho iniziato quindi a concentrare parte dei miei studi sul rap americano. Reperendo tutte le informazioni che potevo, ovunque. E mi sono ovviamente appassionato di gangsta rap, quello che in quel periodo è esploso nelle due coste degli Stati Uniti. Da una parte la scena di Los Angeles, i NWA e Ice Cube, Ice-T, Tupac, che non era di Los Angeles ma pur sempre californiano, dall’altra la scena newyorchese, Biggie in testa. Non è di questo che voglio parlarvi, non datemi dell’approssimativo. Voglio però portarvi al momenti in cui, credo su Rockerilla o Rumore, le riviste che più leggevo all’epoca, ho letto la notizia che Ice-T, uno dei rapper che più apprezzavo all’epoca, non certo per la sua raffinatezza, per quello c’erano i Gangstarr, che a discapito del nome, erano assai colti, GURU e Premier erano due veri intellettuali, o gli A Tribe Called Quest, al limite Michael Franti e i Disposable Heroes of Hiphoprisy, i Digable Planet, quanto più per quel modo crudo di raccontare storie, quasi violento, il suo omaggio a Iceberg Slim, autore che stimavo, una volta che ho iniziato a leggere saggi in inglese sono passato anche a leggere romanzi, e non a caso Iceberg Slim, insieme a David Foster Wallace, sarà il jolly che mi giocherò nel colloquio per avere un contratto da consulente editoriale con Mondadori, al lavoro sulla start up della Collana Strade Blu, per la quale incidentalmente avrei anche pubblicato il mio secondo romanzo “aironfric”, anche quello, come i miei primi racconti, molto balestriniano, almeno come stile, scritto in barre e in metrica, letteratura che voleva emulare il ritmo e l’impatto del rap, io il primo italiano a uscire da quelle parti, insomma, Ice-T aveva tutto quello che mi interessava, il flow, lo storytelling, in phisique du role, la storia personale, il talento, e nel 1989, forse ai primi del 1990, leggo questa notizia che mi stupisce, mi spiazza, mi lascia senza parole: Ice-T ha fondato una band, e una band metal, dal nome Body Count.

Il nome del gruppo, va detto, faceva già molto ben pensare, quel riferimento crudo alle sacche nere dentro i quali vengono infilati i cadaveri nelle sparatorie, ma Ice-T rocker, metallaro, proprio non riuscivo a immaginarmelo. Non fossi sempre stato dell’idea che uscire dai generi, mescolarli, fottersene dei canoni e delle gabbie è quasi un dovere morale per chi fa arte, avrei quasi parlato di delusione, pur concedendo al nostro la chance del primo ascolto, dubbioso ma possibilista.

Passano un paio di anni, e, la faccio breve, arriva il primo singolo dei Body Count, Cop Killer, in nomen omen, inno a ammazzare selvaggiamente poliziotti, figlio diretto dell’omicidio altrettanto selvaggio da parte della polizia di Rodney King, con conseguenti scontri in tutte le metropoli americane, arriva il primo album, omonimo, Body Count, in cui il rap e il metal si sposano, ma sicuramente c’è più metal che rap, considerate che erano gli anni del crossover, i primi anni del crossover, l’anno successivo, nel 1993, uscirà un brutto film dal titolo Cuba Libre, la notte del giudizio, che però avrà una delle colonne sonore più fighe di sempre, un mix tra rock alternativo e rap, appunto, con collaborazioni preziosissime tra artisti che amavo e amo alla follia, dall’iniziale connubio tra Helmet e gli House of Pain di Everlast ai Teenage Fanclub coi De La Soul, una specie di sogno per me che adoravo entrambe le band, passando per Living Colour e Run DMC, Slayer e lo stesso Ice-T, Faith No More e Boo Yaa T.R.I.B.E., i Cypress Hill, unica crew presente con due brani, in compagnia rispettivamente di Sonic Youth e Pearl Jam, Biohazard con Onyx, Mudhoney con Sir Mix-A-Lot, Dinosaur Jr e Del Tha Funkee Homosapien e Therapy? con Fatal. Una cosa prima impensabile, ma che in qualche modo rappresentava la via del futuro, l’incarnazione su traccia del sogno di Perry Farrell di inglobare tutta la musica alternativa in una sola realtà, nella sua visione il Festival itinerante Lollapalooza, roba di altissima qualità e mai ascoltata prima, se non si tiene conto di debite eccezioni quali quella supermainstream di Walk This Way degli Aerosmith con i Run DMC o poco altro. Body Count è un pugno in faccia agli ascoltatori, certo, violentissimi, eversivi nei testi, ma lo è anche nei confronti della società, perché Ic-T è molto popolare, e quindi di conseguenza lo sono anche loro, e perché il gangasta rap era sempre stata vista come musica che si rivolgeva solo a un pubblico afroamericano, qui invece il campo d’azione si estende anche ai giovani bianchi. Boom. Arrivano le censure, gli scandali, le richieste di boicottaggio, le persecuzioni, e per me, ovviamente scatta l’amore puro, il secondo in questa vita nei confronti di Ice-T.

Non solo, scatta una forma piuttosto notevole di ammirazione, perché cambiare pelle quando la pelle principale è bella in vista, apprezzata, di successo, è opera sempre rischiosa, e quasi mai gli artisti amano correre rischi, abituati come sono a essere blanditi e adorati. I Body Count, pur non essendo esattamente una band seminale, si presenta come una realtà solida, di tutto rispetto, da poco tempo, del resto, Ice-T ha cominciato anche a dedicare parte del suo tempo anche alla recitazione, col botto, ovviamente, il film New Jack City di Mario Van Peebles è un blockbuster, oltre che una attualizzazione delle istanze del Blaxploitation, come parte delle pellicole di John Singleton, Boyz N the Hood, o dei fratelli Hughes, oltre che qualche excursus di Spike Lee, ampliando ulteriormente il suo campo d’azione, artista rinascimentale sputato in un qualche ghetto metropolitano negli USA. Come Ice-T farà poco altro, sul fronte rap, dedicandosi più alla band e a cinema e la tv.

Confesso, passano gli anni e il mio interesse per il rap scema.

No, non è vero.

Scema il mio interesse per certo rap, quello che si presenta come evoluzione della scena. Continuo a ascoltarlo con costanza, ma più rivolto al passato che al presente.

Sarà che sto invecchiando, sarà che la mia tesi sul rap e i suoi rapporti col movimento afroamericano non l’ho mai discussa, sarà che il rap è arrivato in Italia e, col suo diventare mainstream, fondamentale in questo la doppietta Dentro la scatola/ Mondo Marcio e Bugiardo/ Fabri Fibra, ho iniziato a occuparmi d’altro, ai tempi ho in qualche modo contribuito all’approdare di Mondo Marcio in Emi, coi miei pezzi, e sono stato chiamato dalla Universal a dire la mia sulla scelta dei singoli del primo album su major del mio compaesano, fino a quel momento Mr Simpatia, e il rap è rimasta una scena che ho seguito sempre con più distrazione, forse neanche più è stata una scena, a dirla tutta.

Nei fatti non ho seguito neanche più Ice-T, sia nella sua carriera solista che coi Body Count, confesso. Ho giusto apprezzato, molto, la copertina del suo album solista dal titolo Gangasta Rap, ma solo perché ci posava lui con sua moglie Coco Austin, nudi e a letto, apparentemente dopo un amplesso, e Coco Austin ha un culo che scansate.

Poi leggo che i Body Count, sempre nella medesima formazione con Ice-T come voce, band che avevo in qualche modo dato per dispersa, hanno vinto un Grammy Award con Carnivore, del 2020, come Best Metal Album, e di colpo sono come ripiombato in un’epoca passata, nella quale ero un giovane studioso che si abbeverava a tutte le fonti, cercando di sapere più possibile su tutto, curioso e onnivoro.

Sono tornato, cioè, a un’epoca nella quale il rock e il rap potevano dialogare senza problemi, lo facevano in maniera naturale, studiandosi, oggi diremmo in maniera fluida, e in qualche modo il rock stesso rendeva i giusti tributi a chi, in fondo, il rock ha contribuito a farlo nascere, gli artisti afroamericani, i bluesman su tutti, ma anche artisti quali Little Richard, recentemente scomparso, per dire.

Se infatti nei Novanta, ma già prima negli Ottanta, era tutto un susseguirsi di grandi, grandissime band che si mangiavano la scena, i già citati Living Colour di Vernon Reid, chitarra, e Corey Glover, voce, o i Bad Brains, una delle realtà hardcore più credibili e pure, così come i Fishbone, realtà decisamente più di nicchia, figli legittimi della storia di George Clinton, penso ai suoi Parliament e ai suoi Funkadelic, ma sempre con Sly and the Family Stone ben in mente, quel passaggio lì, l’uscita di Body Count e di Cop Killer, e la successiva uscita della colonna sonora di The Judgment Night, hanno in qualche modo formalizzato, codificato, un nuovo genere, che dal mashup di generi differenti, apparentemente lontanissimi tra loro, derivava.

Un genere che metteva vicine realtà che ai tempi erano di diritto a appannaggio agli appassionati di musica, quelli che leggevano Rumore e Rockerilla, certo, o che frequentavano i negozi di dischi specializzati, il Disco d’Oro di via Gallera, a Bologna, qualcosa che ci faceva riconoscere come qualcosa di diverso dagli altri, con orgoglio, anche se io in quella diversità ero con buona mia pace una anomalia nelle anomalie, uno coi capelli lunghi fino al culo che ascoltava rap, grunge, hardcore, che suonava in una band punk, ma che sapeva a memoria anche tutto il repertorio di Lucio Dalla e di Claudio Baglioni.

So che può suonare strano a leggerlo qui, nero su bianco, ma in questa epoca così strana, apocalittica, sapere che il vecchio Tracy Marrow, questo il nome di Ice-T, è ancora in giro a urlare e rappare parole eversive, lui che non esegue da tempo Cop Killer ai suoi concerti, ho letto, e parlo di quando i concerti ancora si facevano, lui ancora lì, accompagnato dai suoi sodali Body Count, lui che ormai veleggia per i sessantatré anni, mi rasserena, pur sapendo che la parola serenità è quanto di più lontano da quello che Ice-T e i Body Count incarnano, perché è come sapere che qualcosa di quel passato che ci siamo sbrigati a archiviare e, a volte, anche a cancellare, un passato che però oggi, sotto le macerie e i bombardamenti, ci appare ovviamente felice, la nostalgia mica me la sono inventata io oggi. Questo per dire che proprio in questo momento mi sto ascoltando Vivid, dei Living Colour, cui seguirà probabilmente l’ascolto di Give a Monkey a Brain and He’ll Swear He’s the Center of the Universe dei Fishbone, quello di One Nation Under a Groove dei Funkadelic per poi chiudere proprio con Carnivore dei Body Count, agitando i miei capelli ancora lunghi, oltre le spalle, ma decisamente più canuti, e muovendo quello che in una qualsiasi sua vecchia canzone Ice-T avrebbe definito come il mio molle culo bianco.