Giorni fa ho avuto una discussione con mia figlia Lucia. Non una discussione nel senso di litigio, intendiamoci, io e lei passiamo spesso i dopocena, a volte anche il tempo in cui tutta la famiglia è riunita a tavola per cenare, a parlare animatamente di argomenti di cui a tutti gli altri interessa poco o niente. Noi due che ci scaldiamo per argomenti vari, spesso concernenti la diversa modalità di guardare a qualcosa del mondo delle nostre generazioni, dando vita a vere e proprie tenzoni intellettuali è ormai parte della nostra routine, gli altri le subiscono passivamente, a volte provando a attirare l’attenzione alzando la voce, col risultato che la nostra cucina, che è poi il posto dove ceniamo, siamo del centro Italia avere una cucina abitabile è sempre stato un must per noi. A volte, non saprei quantificare statisticamente di quante volte io stia parlando, le tenzoni intellettuali sfociano in vere e proprie liti, perché Lucia ha una certa tendenza a parlarmi sopra, a rispondere a quel che sto dicendo ancora prima che io finisca di dirlo, quindi andando spesso fuori tema, e io non sono più troppo abituato a un confronto che non metta in campo il timore reverenziale che in genere accompagna ogni mia apparizione pubblica, nel mio campo di lavoro.
Giorni fa, però, non abbiamo affatto litigato. Abbiamo discusso, aprendo un bel dibattito, dibattito che ovviamente non ha portato a nessuna conclusione condivisa o condivisibile, e a un certo punto abbiamo deciso di chiudere il tutto così, di colpo, lei intenzionata a andarsi a vedere una qualche serie in camera, sul PC, io a fare altrettanto in sala, sul divano. Era partito tutto da un mio spunto. Lei sta studiando Lettere Moderne all’Università, per motivi che non fatico a capire si sta molto appassionando di linguistica, al punto che quando non sono io a buttarle lì una qualche provocazione atta a dar vita a questi duelli, in alternativa ci sono quelli con mio figlio Tommaso, sedici anni, ma quelli sono assai più basilari, un giovane maschio che prova a uccidere quello che identifica il maschio alfa del branco, e per farlo ricorre a trucchetti prevedibili, come buttarla in politica, trucchetti ai quali, va detto, il maschio alfa abbocca puntualmente, incazzandosi come una iena, raccontarvelo in terza persona non è per giustificarmi ai vostri occhi, mi è semplicemente venuto così, sono io quel maschio alfa, lo dico agli analfabeti funzionali in ascolto. Dicevo che Lucia, mia figlia, si sta appassionando di linguistica, quindi passiamo spesso l’ora di cena a sentirla spiegarci perché certe cose le diciamo in una determinata maniera e perché in certe zone d’Italia si parli un italiano più corretto che in altre, tipo nelle Marche, dove in fondo siamo nati tutti noi. Siccome la vera passione di mia figlia, a livello intellettuale, è la tematica legata al femminismo e anche a tutto quello che ruota intorno al movimento LGBTQ, argomenti che maneggia con competenza e che approfondisce quotidianamente studiando, leggendo, partecipando a forum e quant’altro, e siccome questa sua passione ci ha spesso portato a discutere, sempre in quella maniera lì, cioè quello dell’utilizzo della schwa e di come la nostra lingua dovrebbe o meno adeguarsi a un cambiamento della nostra società. La schwa, non credo serva spiegarlo ma visto mai, è quella e rovesciata che una parte della società, appunto, e anche una minima porzione di intellettuali, utilizza per opacizzare i generi in quelle parole e in quelle frasi nelle quali ci si rivolge a un plurale generico che normalmente, parlo della normalità della nostra lingua, questo è un punto di queste nostre discussioni, sarebbe al maschile a partire dalla sola presenza di un uomo in un gruppo di persone e sarebbe al maschile anche nel caso di un neutro, così funziona l’italiano, o per indicare persone non binarie, cioè che non si riconoscono nel loro genere. Il fatto che io parli di schwa senza utilizzarla potrebbe già lasciare intendere la mia posizione a riguardo, non fosse che non saprei comunque dove andarla a cercare nella tastiere dal PC con il quale sto scrivendo queste parole e che comunque mai e poi mai potrei ricorre all’asterisco per sostituirla, ho un senso estetico discutibile su tante cose, ma non su questo. Non voglio addentrarmi nelle nostre rispettive tesi, non è questo il punto, l’assenza di un neutro, come in inglese, è un fatto, come è un fatto che l’Accademia della Crusca, come direbbe mia figlia composta di singole persone con singole idee differenti tra loro, si è espressa a riguardo, e a me anche di quel che pensa la Crusca non è che freghi poi chissà quanto, quello che volevo portare alla vostra attenzione, e per farlo ho fatto questo infinitamente lungo giro di parole, è un passaggio di un articolo di Michela Murgia, la scrittrice che più di ogni altra sta cavalcando questa moda, nel suo caso di moda mi sento di poter parlare senza paura di essere smentito, nel quale la scrittrice utilizza la schwa a più riprese, il pezzo è uscito su L’Espresso, arrivando a un certo punto a scrivere una cosa come “agl-schwa addett-schwa”, dove al posto della parola schwa ha usato appunto la neolettera schwa. Trovata questa aberrazione linguistica sui social, riportata da un mio contatto, mi sono sentito in dovere di dire che si trattava di “orrore, senza se e senza ma”. Tempo pochi secondi e sono stato assalito da una pasionaria che ci ha tenuto a farmi sapere che io non sono autorizzato a dire la mia come se fosse un dato oggettivo, e che comunque a un sacco di gente l’utilizzo dello schwa piace, o meglio, lo ritiene buono e giusto. Ora, bypassando l’idea che io abbia detto il contrario, fatto non vero, io non ho detto nulla di generico riguardo l’utilizzo dello schwa, ho parlato di quelle due parole lì, e bypassando sul fatto che io sarò anche irrilevante nel far notare che è un orrore, ma la Crusca, che a me può anche far cagare, ma che viene legittimamente considerata autorevole a riguardo, ha detto che lo schwa è insensato, adducendo a prova il fatto che la lingua cambia dal basso, non perché qualcuno ritenga di dover imporre d’ufficio un cambiamento, il tutto riuscendo ancora una volta a non citare la linguista che di questa campagna è sicuramente la più importante promotrice, Vera Gheno, ma credo che queste siano faccende private loro, ho fatto notare che la parola addetti/e è declinabile al neutro, se si vuole prendere per buona questa faccenda della schwa, basta togliere l’ultima vocale e sostituirla, così non è per la preposizione articolata “agli”, che al femminile non diventa “agle”, ma “alle”. Come dire, se vuoi usare la schwa non puoi applicarla a Agli, perché dovresti intervenire anche sulla g. Di più, siccome la Murgia ha usato il maschile e non il femminile, ha praticato una forzatura, andando quindi a esibire un patriarcato che io, pensa te, andavo a contestare. Ovviamente la pasionaria si è ritirata per deliberare e non è più tornata a commentare, e non perché io le abbia detto “stai zitta” (cit.). Da qui è partita la discussione tra me e mia figlia, con lei che sosteneva la legittimità della schwa, e io che la contrastavo, nello specifico applicata alla cagata scritta dalla Murgia. (la quale, immagino, si indignerebbe pure perché la chiamo “la Murgia” e non “Murgia” e basta, dimostrando il mio asservimento a quel patriarcato che vuole che si applichi l’articolo al cognome di una donna e non di un uomo, uomo che come me da che ha superato la adolescenza si sente rivolgere un “lei”, pronome femminile, senza per questo sentirsi vittima di una qualche forma di discriminazione o che). La discussione è stata lunga e articolata, spesso finendo in vicoli ciechi, ma andando anche a toccare tematiche come la presunta “fluidità” delle nuove generazioni (parlo di gender fluid, anche questo mi è stato ovviamente contestato), come del fatto che, sosteneva Lucia, anche ai miei tempi ci saranno stati tanti gender fluid che, semplicemente, non lo avranno detto per paura di essere discriminati, tesi che onestamente mi vede dubbioso ma possibilista. Arrivati a parlare di persone no binary, che è un po’ un suo cavallo di battaglia, a partire da quando, a sedici anni, una sua compagna di classe ha cominciato a chiedere a compagne e insegnanti di essere chiamata Mattia, non ottenendo un consenso unanime, almeno da parte del corpo insegnanti, siamo arrivati a un punto morto. Ho infatti espresso, e so che nel dichiararlo pubblicamente sto andando a inchiodarmi con le mie stesse mani alla croce, gesto di per sé impossibile, parlassimo di una croce vera e di veri chiodi, delle perplessità rispetto al fatto che chicchessia (guarda te che giro di parole devo fare per non urtare la sensibilità di una persona) possa non identificarsi in un concetto così poco rilevante, ovvio che sto parlando per me, come il genere sessuale. Intendiamoci, le ho detto, non ho nulla contro il fatto che chicchessia mi manifesti la volontà di vedersi rivolgere questo o quel pronome, non mi costa niente, ma come non faticherei a essere chiamato al femminile, ho fatto prima l’esempio sciocco del “lei”, non vedo che problema si debba fare la gente in generale. Ovviamente stavo giocando la carta della provocazione, perché so che viviamo in una società fortemente maschilista, anche nella lingua, e so che la lingua ha in parte agevolato il radicamento del maschilismo, ma non penso, è una mia opinione, che sia la declinazione degli aggettivi o dei pronomi a poter cambiare le cose. Benaltrismo in salsa linguistica? Può essere. Poi, tutta la vita a favore degli Elliot Page e contro chi lo discrimina, ci mancherebbe altro, ma suggerirei, è quel che ho fatto, una scaletta di priorità. Il discorso è poi scivolato sul politicamente corretto, e lì proprio non ci siamo trovati d’accordo, e poi siamo andati a vedere Squid Game o quel che è. Certo, la successiva notizia di Demi Lovato, la popstar e attrice americana, la quale ha affermato di aver avuto contatti con gli extraterresti, e fin qui, bene, ognuno ha le esperienze che si merita, aggiungendo però che dobbiamo smetterla di chiamarli alieni, perché la parola alieno è offensiva, avrebbe potuto consentirmi di chiudere definitivamente la questione di come non proprio tutte le iniziative di inclusione in campo linguistico sono degne di essere sostenute, non tutte le battaglie combattute, ma per mia natura sto sempre dalla parte dei perdenti, figuriamoci se mi piace vincere facile.
Ho citato prima, en passant, dando per assodato che chi leggesse, cioè voi che state leggendo, e se dico voi e non tu è solo per una mera faccenda di arroganza, mi sembra evidente, inutile fingere una falsa modestia che in effetti non ho, dando quindi per assodato che voi che mi state leggendo sappiate perfettamente di chi stia parlando, inutile star lì a dar spiegazioni o ipotizzare che siate biecamente ricorsi a Google, Elliot Page, attore no binary di una certa fama. L’ho fatto perché era perfetto per quel determinato passaggio, e mi avrebbe aiutato a portare avanti il mio discorso senza dover ricorrere a ulteriori deviazioni e digressioni. Siccome si sta parlando di no binary e ho accennato al fatto che a un certo punto il discorso tra me e mia figlia è scivolato sul falso piano del politicamente corretto, potrei tirare in ballo Ricky Gervais e il suo noto monolgo per i Golden Globe, ovviamente mi riferisco ai passaggi su Caitlyn Jenner, immagino che se ora citassi il suo nome pretransizione, detto anche nome morto, Bruce, starei proprio dalle parti del politicamente scorretto, se mai dovessi o volessi citare quel monologo è ovvio che mi troverei a sottolineare come Gervais sia un genio assoluto, e il passaggio sullo stereotipo della donna che non sa guidare in riferimento al noto incidente mortale che ha visto coinvolto Janner, uso il maschile perché all’epoca era ancora un uomo, sia davvero strepitosa, black humour all’ennesima potenza, tutto questo ovviamente non farà parte di questo mio testo scritto, lungi da me il volermi sottoporre a processi sommari o a ulteriori sviluppi delle mie tenzoni intellettuali durante la cena. Ho citato quindi Elliot Page, ma non è di lui che volevo parlarvi, quanto di Kae Tempest, artista che ha al suo attivo raccolte di poesie, un romanzo, testi teatrali e album di rap e spoken word di notevole livello artistico (spero abbiate apprezzato come ne abbia parlato in maniera neutra, come l’essere non binary che richiede l’utilizzo del neutro They in italiano richiede, direbbe mia figlia Lucia). Classe 1985, Kae Tempest ha dimostrato come la poesia sia tutt’altro che faccenda da relegare al passato, come spesso si tende a fare nelle nostre scuole, la sua produzione discografica, a partire dal pluripremiato Let Them Eat Chaos, spoken word, spoken word in odor di rap, degna di stare a fianco di quella di un mostro di talento quale Saul Williams, a sua volta poeta, attore, rapper, rocker, andatevi a recuperare sue opere quali Amethyst Rock Star, The Inevitable Rise and Liberation of Niggy Tardust o MartyrLoserKing per credere.
Saul Williams l’ho visto dal vivo a Arezzo, nel corso di un infuocato Arezzo Wave di venti anni fa esatti, l’ho già raccontato. Kae Tempest no. Ma stando ai video che girano in rete credo proprio che se capitasse da queste parti non mi perderei una sua performance neanche morto (e anche stavolta l’ho sfangato senza ricorrere alla schwa e offendere nessuno). Perché in fondo, se nella musica è evidentemente nel live la sola speranza di sopravvivenza, ce lo dicevamo prima del Covid19, continuiamo a ripetercelo oggi che il Covid19 ancora è tra noi, ma speriamo tutti per poco, forse è nel live, nella performance che è al tempo stesso riproposizione e gesto artistico, la speranza della poesia, genere letterario a lungo considerato nobile e dalla seconda metà del Novecento relegato in una nicchia, a beneficio di pochi e selezionati lettori.