Da Dante una lezione di libertà

La libertà di Dante è il rovescio di una servitù e conserva in sé la potenza semantica di un contrario, di un’opposizione, di un rovesciamento


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Libertà va cercando ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.

A parlare è Virgilio, sulla spiaggetta del Purgatorio, rivolgendosi a Catone, l’Uticense, colui che con la sconfitta dei Pompeiani preferisce, seguendo l’etica stoica, il suicidio alla perdita della libertà politica, rappresentata ai suoi occhi dalle vecchie istituzioni repubblicane che verranno completamente riformulate sotto il principato, anticipato da Cesare.

Virgilio, di fronte alla figura di Catone, non trova altre parole per spiegare il senso del viaggio: è come soggiogato dal “veglio” che straordinariamente Dante, nonostante pagano e suicida, decide di porre a guardiano del secondo regno, quello in cui l’anima, uscita dal mare crudele della morte spirituale, sente ridestarsi alla vita e si volge alla conquista di quella libertà morale che per Dante fa tutt’uno con quella politica.

Sarebbe da far leggere e capire profondamente, di questi tempi, il pensiero dantesco sulla libertà, un tema centrale nella Divina Commedia, declinato sì in ambito morale, ma anche politico, perché è la schiavitù morale nei confronti della lupa, l’avidità che mai si sazia, a rendere gli uomini servi abietti dei propri appetiti e di chi può soddisfarli,  a impedir loro di compiere il bene, a indurre i politici a governare solo in vista dell’utile e del potere; l’esito è il crimine, la corruzione, le lotte politiche, la morte, quella dell’anima in primis. Un’anima che muore anche se il corpo è ancora vivo, come dimostra la straordinaria intuizione di Frate Alberigo, che il poeta incontra immerso nel Cocito, il fiume ghiacciato che rappresenta l’assoluta assenza di amore, mentre il suo corpo, abitato da un demone, come un marchingegno guidato da una volontà estranea e diabolica, continua ad agitarsi sulla terra. Quante persone con quegli occhi vuoti, spenti, disabitati avete incontrato? Dove nessuna luce spirituale alberga ancora? Non avete provato un brivido, un trasalimento, nel rendervi conto che in loro l’umanità comune, quel barlume di luminosità che noi definiamo anima, non c’era più? Non vi ci siete ritrovati, oggi, adesso, in questo tempo senza tempo, tempo infernale di reclusione senza fine e senza senso, dove gli occhi spenti affiorano da pezzi di stoffa che coprono soltanto la nostra vergogna?

La libertà. Un discorso complesso in Dante e complesso nell’uomo stesso, a cui, questa possibilità di autodeterminare i propri comportamenti decondizionandosi da spinte interne ed esterne, genera l’angoscia kierkegaardiana della scelta. Una angoscia che non proviamo più, queste sono le regole, a prescindere: giuste o sbagliate che siano, realistiche o inattuabili. La regola rende liberi, come il lavoro nel lager? No, la regola, quando è autoritaria, è il contrario della libertà, non più limitazione all’abuso ma abuso della limitazione. Da cui una angoscia sorda, che scava dentro.

Come si elude l’angoscia? Per molti la strada più facile è consegnarsi a un Padre, un leader carismatico che decida al nostro posto. L’Uomo della Provvidenza? L’Unto dal Signore! Il Tecnico, il Moloc, il Leviatano, Colui che tutto risolve nel nostro interesse. Ma sentiamo Dante. Per il poeta la libertà è veramente il valore che fa da spartiacque tra il cieco buio infernale e il secondo regno.

La libertà di Dante è il rovescio di una servitù; e conserva in sé la potenza semantica di un contrario, di un’opposizione, di un rovesciamento. L’exul immeritus, che ha saputo scegliere l’esilio piuttosto che l’infamia, si rivolge spesso ai suoi concittadini in tali toni “Non vi accorgete…che è la cupidigia che vi domina,…che vi tiene costretti con minacce fallaci e vi imprigiona nella legge del peccato e vi proibisce di ubbidire alle santissime leggi […] l’osservanza delle quali…non solo è dimostrato che non è servitù, ma anzi, a chi guardi con perspicacia, appare chiaro che è la stessa suprema libertà”. Dominare, costringere, imprigionare, proibire: ma sono gli stessi uomini che, spinti dall’avidità (che è figlia deforme della paura)  a imporre a sé e agli altri questa schiavitù. A quella paura si scampa se si valuta la libertà più della vita stessa, e allora si può cantare, giungendo sulla spiaggetta del Purgatorio, il salmo della liberazione, “In exitu Israel de Aegypto”, che celebra l’uscita dalla schiavitù egiziana del popolo eletto e la ricerca di una nuova patria.

O, come il Churchill dell’accordo di Monaco: “Potevano scegliere tra il disonore e la guerra, hanno scelto il disonore e avranno la guerra”. Noi oggi scegliamo tra disonore e prigionia, e la conclusione è la stessa.

Oggi quale valore conserva una libertà condizionata, inscatolata dalla tecnologia che tutto ti porta nella monade, nella capsula – ed è solo l’inizio, il princìpio di un processo a quanto pare irreversibile per il quale non sarà più necessario avventurarsi fuori, respirarsi, contagiarsi di umanità? Da soli insieme a soli e basta, immuni a noi stessi, sospettosi di noi: non è ancora l’Inferno di Dante?

L’io della modernità, messo in crisi dalle topiche freudiane e dalle neuroscienze, non si fida più di sé, della sua capacità di scegliere liberamente tra il bene e il male, non sa neppure distinguere tra i due termini se non in una prospettiva edonistica e narcisistica. Non siamo più certi che, come afferma Marco Lombardo nel canto XIV del Purgatorio, ci è dato lume” a bene e a malizia, e libero voler”. Secondo Dante l’anima, che facilmente si svia attratta da beni fallaci, deve essere guidata da leggi, di istituzioni, di regole, di autorità, che la sostengano sulla retta via. Ma Il problema è che la Storia dimostra che questo stesso corredo di istituzioni e regole collassa sotto la spinta dell’avidità, del male, e, nel tramonto delle antiche certezze, risulta ben difficile all’uomo contemporaneo dirsi cosa vuol dire essere liberi e cosa è il bene o il male “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?” Oggi “chi pon mano” non è più neppure la politica, c’è un potere polverizzato e deresponsabilizzato, rimpallato dai centri decisionali alle oligarchie scientifiche, da queste alle entità sovranazionali che svuotano i sistemi Paese, di modo che, esattamente come nella finanza globalizzata, nelle truffe a cascata, la colpa non sia mai precisamente di nessuno e ricada sul popolo di ingenui, di ignavi. Di responsabili, in certa misura, della propria dannazione: “Sono le regole”, e più non dimandare. L’intuizione del Fiorentino immenso non smette di essere feconda: se oggi, settecento anni dopo, un filosofo della politica come Kenneth Minogue lo riprende pari pari quando osserva che la moralità occidentale è svilita a pura posa con la necessaria conseguenza di una agenda acritica: nelle priorità stabilite altrove, calate dall’alto, si nasconde una abiura dell’agire morale, di cui ci aspettiamo si faccia carico il pubblico potere quanto a emergenze, risposte, soluzioni, metodologie. Non voglio sapere come e cosa fai, ma sono pronto a cederti la mia moralità e la mia libertà pur di non sostenere alcun fardello. Ci siamo.

Tuttavia, Dante non fa sconti: la sua è un’etica della responsabilità, a cui chiama ogni uomo nonostante il mondo sia fatto reo, colpevole. Tutti devono scegliere, perché rimangono imprescindibilmente uomini- E quest’atto di libertà non va fatto una volta sola. Occorre farlo diventare habitus, disciplina interna, finchè essere liberi non coincida semplicemente con l’essere pienamente umani. Forse è per questo che ce lo rendono “pop”, svuotato, cartonizzato; forse è per questo che qualche giornalista tedesco, abbeveratosi alla fonte dei francofortesi marxisti, lo trova indegno, ininfluente: infastidisce l’etica della responsabilità, che per farsi politica, collettiva non può non partire da una dimensione umana, individuale; e va rinnovata ogni giorno della propria vita. Dante ci disturba come ci disturba la coscienza. La quale sa che, uccidendosi, lascerà solo un mar sopra noi richiuso.