A forza di sputare sui reality non ci siamo accorti che il reality siamo noi

Marcare un confine tra verità e intento, tra oggettività e iperrealtà diventa sempre più aleatorio e forse vano


INTERAZIONI: 582

A forza di sputare sui reality come epitome dell’iperrealtà falsa non ci siamo accorti che il reality, o in reality, siamo noi. Ne accenna Aldo Grasso sul Corriere, la faccenda è meno innocente di quanto appaia e merita qualche riflessione. C’è un indefinibile personaggio televisivo, questo Andrea Scanzi, che in preda a delirio autocelebrativo racconta a tutti di essersi vaccinato in circostanze arzigogolate, ma per tutelare i genitori; poi, sempre sull’onda della narrazione di sé, si filma in un centro estetico a Merano per dire: vi sto sui coglioni perché sono famoso. Ne nasce un puttanaio allucinato del quale si capisce solo una cosa: che finirà all’italiana, con l’arroganza che lascia il posto al vittimismo, il ravvedimento narcisistico e magari la mamma coraggio che difende il suo pulcino.

Una ex di Scanzi, Selvaggia Lucarelli, dalle stesse attitudini sull’egolatrico aggressivo, passata dal trangugiare involtini che irridevano la pandemia all’ossessione per chi non vive come a Chernobyl, intrattiene sui suoi amori tossici e intanto ne approfitta per fare pubblicità ad alcuni suoi libretti sugli amori tossici; forse per convincere i miscredenti di essere giornalista vera, non solo una che alza le palette ai varietà del sabato, pubblica un’inchiestina, di quelle che uno fiuta subito l’imbeccata, su una politica disperatamente sovraesposta, la Laura Boldrini Giovanna d’Arco, anzi d’Arca, paladina delle femmine che a quanto risulta strizzerebbe le femmine-schiave: roba un po’ mortificante, colf e assistenti che si lamentano per questioni di corvée da comari, venivano spedite a fare incetta di trucchi o in lavanderia: l’interessata, come scrive Dagospia, “smentisce ma non spiega”: altro cafarnao autoreferenziale.


Poi c’è il faccendiere in odor di fotografo dei vip, il Corona con tre condanne definitive per una marea di reati, che rivendica una curiosa impunita e si filma intento in autoflagellazioni truculente: al che scatta il dibattito, se possibile ancora più trucido. Tutti i salmi finiscono in gossip e non si salva niente, non la cronaca nera né quella sportiva, l’allenatore Prandelli, che non ne ha imbroccata una in mezzo mondo dove ha allenato, annuncia urbi et orbi l’addio al calcio con toni talmente melensi da far inorridire il vecchio Edmondo de Amicis. La stessa emergenza che ci strangola da un anno, uno stato di arresto che lascia la gente alienata, con manie suicide, con accessi di autolesionismo, diventa di giorno in giorno più reality, più pop se vogliamo usare un termine affettuoso: generali, figure istituzionali al massimo grado che si fanno riprendere mentre si vaccinano, canotte, panze, tette strabordanti, facce stravolte sui lettini. Ma lo fanno, dicono, “per dare l’esempio”.


Marcare un confine tra verità e intento, tra oggettività e iperrealtà diventa sempre più aleatorio e forse vano. La lettura più agevole, più superficiale è anche quella più scontata, siamo figli dei tempi e questi sono tempi di proiezione, non esisti se non appari e non appari se non la spari sempre più grossa. Ma che resta quando tutto, dal potere politico a quello mediatico, dallo sport alla società dello spettacolo (a Sanremo in mancanza di canzoni hanno imperato i costumi, i travestimenti infantili) rotola oltre l’iperrealtà? Almeno nei format televisivi la faccenda è sufficientemente chiara: all’Isola dei Famosi c’è una pletora di sedicenti o aspiranti famosi che si avviliscono in un contesto esotico, sottoponendosi a prove escogitate da un gruppo di autori ma regolarmente oscillanti fra lo squallido e il pecoreccio; lo fanno per soldi, gli scrupoli di decenza o di coscienza non sono contemplati, è il loro mondo e un altro non lo conoscono. Il problema sorge quando non esiste più il mondo reale, quando la vita comune, di tutti, è risucchiata in un immenso reality per cui tutto si pubblicizza, malattie, deviazioni, delitti, miserie. E già i giornali, nel raccogliere questa paccottiglia umana, sembrano un po’ tutti il rotocalco pruriginoso “Cronaca Vera” degli anni ’70, dove uno non sapeva mai se quanto strillato in copertina fosse vero o inventato di sana pianta. Ma il più delle volte era vero, perché gli uomini sono dei pazzi e non esiste vaccino che li faccia rinsavire.


La tecnologia, benedetta maledetta, c’entra ma fino a un certo punto: non è lei a cambiare gli uomini, al più li esalta, li disinibisce nelle pulsioni elementari ma quelle pulsioni covavano fin dal principio, come sa bene chi certi personaggi li ha visti venir fuori dalla loro pochezza, unita ad una mostruosa ambizione. Poi, ogni tanto, a mò di vaccino prendono uno un po’ ingessato, un banchiere, un tecnocrate e, per smaltire l’orgia di esibizionismo fatuo, lo mettono al comando con la seguente spiegazione: è uno sobrio. Ma la sobrietà dura poco, il potere televisivo corrode, presto anche il tecnico si scioglie, comincia, come si dice, a “comunicare” e la sua comunicazione si fa sempre più disastrosa anche perché improntata a promesse pregne di menzogne. Allora prendono il sobrio, degradato a pop, e lo sostituiscono.
C’è una suora, suor Anna Monia Altieri, che da principio si è affacciata alla ribalta mediatica, goffa, coi sandali da suora, un po’ fuori luogo; in breve ha preso sicurezza, ha sostituito i sandali con un paio di vezzose ballerine e adesso pontifica e sceglie i tempi giusti, è diventata padrona del mezzo, è diventata una suora pop. Presto la vedremo raccontare di sé, della sua vocazione, dei suoi turbamenti, delle estasi e degli inferni, “per dare l’esempio”. E magari finirà anche lei in qualche Isola dei più o meno famosi. Intanto il lockdown continua, implacabile, unica cosa davvero reale, tangibile, inevitabile.