Il mio Fight Club a difesa di Frank Zappa e Carmelo Bene

Non ho il fisico per il Fight Club allora mi butto in combattimenti verbali con persone più o meno conosciute sui social provando a difendere i grandi artisti


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Verso la fine degli anni Novanta, direi a occhio nel 1998, la Mondadori mi affidò la traduzione di un romanzo, Survivor di Chuck Palahniuk. In realtà avrebbero voluto, avremmo voluto, avere per le mani un altro romanzo del medesimo autore, ma ci era arrivata prima la micro-casa editrice di una nota marca di sigarette, che nel giro di qualche anno pubblicò una manciata di libri e poi, come in certe storie di capitalismo estremo, venne comprata dalla Mondadori stessa al solo scopo di prendere proprio quel titolo.

Il motivo per cui Chuck Palahniuk, autore geniale difficilissimo da tradurre, Survivor aveva un modo tutto suo di procedere, sgrammaticato in modo molto poetico, con tutta una serie di indicazioni bizzarre su come risolvere piccoli problemi casalinghi, tipo come tappare il foro di un proiettile su una parete, o pulire una macchia di sangue, era che lui, Palahniuk, aveva appunto scritto quel Fight Club che di lì a poco sarebbe diventato un film di grande successo per la regia di David Fincher, quello di Seven, e l’interpretazione magistrale di Edward Norton e Brad Pitt, nel ruolo di Steven Tyler, non voglio spoilerarvi la trama, seppur si tratti di un classico di oltre venti anni fa.

Lo tradussi nel corso del 1999, ricordo, con in mezzo matrimonio e viaggio di Nozze, nonché un problema piuttosto serio al PC, che mi cancellò parte del lavoro, e lo tradussi in compagnia di Giovanna Capogrossi, con cui all’epoca a volte dividevo questi tipi di lavori.

Uscì per Strade Blu, collana all’epoca ancora alternativa in seno alla Mondadori che proprio negli stessi mesi avrebbe pubblicato il mio secondo romanzo, “aironfric”, ma è di Fight Club che vorrei parlare. Era una storia a suo modo piuttosto sovversiva, altamente anticapitalistica, di lotta e resistenza a una forma di omogenizzazione culturale cui l’uomo occidentale è sottoposto costantemente, giorno dopo giorno. Uno dei passaggi più noti, almeno del libro, nel film ce ne sono davvero molti, è quello in cui il protagonista, Ed Norton, ci parla di come Ikea, il colosso svedese che ben conosciamo, ha plasmato i nostri gusti, invadendo le nostre case e le nostre vite.

Io ero arrivato da poco a Milano, un paio di anni prima, e casa mia aveva mobili Ikea. A Milano ce n’erano già tre, di Ikea, a memoria. Dalle mie parti, nelle Marche, invece, non ce n’era neanche una. La più vicina era quella di Bologna, e quindi dire “vicina” è ovviamente lasciarsi andare a facili entusiasmi. Nessuno comprava mobili Ikea da quelle parti, nessuno quasi sapeva cosa fosse. Al limite, se si pensava a qualcosa di economico, c’era il Mercatone Zeta, ora scomparso, che però più che economico era di scarsa qualità, i mobili costavano poco non perché fossero poi da montare e venduti in quantità industriali in tutto il mondo, ma perché erano fatti di materiali di scarsa qualità, si rompevano con grande frequenza e, in questo sì il paragone con Ikea poteva reggere, poi era difficile aggiustarli, brugole maledette.

La cosa che però ovviamente di Fight Club colpiva anche il lettore o spettatore distratto, era quella faccenda di andare nei retro dei bar, nei garage a silo, mettersi in canottiera o a torso nudo, e prendersi a mazzate con sconosciuti, a farsi davvero male.

La prima regola del Fight Club è: nessuno parla del Fight Club.

La seconda regola del Fight Club è: nessuno parla del Fight Club.

Poi, ovvio, l’idea che la City, una qualsiasi City, a Milano dovrei parlare della zona di Piazza Affari, salti in aria mentre in sottofondo si stagliano le note dolenti di Where is My Mind dei Pixies ha fatto il resto, come il fermo immagine del cazzo di Brad Pitt, ma questa è altra faccenda.

Il picchiarsi selvaggiamente con sconosciuti, a farsi male, poi rimettersi i propri abiti, salire in auto e tornare a casa, alla vita di tutti i giorni. Provo a partire da qui, lasciando Chuck, ormai altamente bollito, e Tyler Durden, al proprio destino.

Anni fa ho avuto una lite abbastanza furibonda sui social con un sedicente collega, di cui non farò nome, perché come direbbe Albanese “se ti sputo ti profumo”, ma se volete figurarvelo mentalmente pensate a un tipo buffo coi calzetti di Topolino e la faccia di quello cui alle medie infilavano la testa nel cesso durante la ricreazione, per altro a ragione.

Non ricordo ovviamente su che tema ci siamo scontrati, ma non faticherei a ipotizzarlo. Era il giorno, questo invece lo ricordo benissimo, della presentazione dell’album Pop-Up di Luca Carboni, quindi parliamo del 2015. Lui, Topolino, sosteneva io fossi un polemista, pensando, nel dirmi questo, di ferirmi. Nei fatti voleva dire che ero solo un polemista, è ovvio, cioè che dietro il mio scombinare costantemente le carte nel tavolo del sistema, tavolo che lui spesso si trovava molto spesso a apparecchiare, i giorni a bordo piscina erano ancora lì dal venire, non ci fosse nessun tipo di sostanza, io sarei stato il “villain” della storia, il “giullare”, tanto quanto lui un cortigiano.

Ho ovviamente rimandato la discussione a quell’appuntamento successivo, forse in maniera un po’ veemente, tipo “vediamo se poi le stesse cose me le dici in faccia, ci vediamo tra poco lì”, ma nei fatti, credo per la prima volta in vita sua, si è presentato tardi, lasciando che la poltroncina in prima fila a lui assegnata, è uno di quelli cui gli uffici stampa lasciano sempre la prima fila, della serie “a apparecchiare tavole ci si trova sempre benvoluti”, e finita la conferenza si è apprestato a andarsene, saltando clamorosamente il buffet, di cui è cintura nera con tanto di medaglia olimpica.

Non è dei benefici che leccare il culo a discografici e uffici stampa, per non dire artisti, può comportare che voglio soffermarmi, su questo spero prima o poi il tipo in questione tiri fuori un saggio, ha sicuramente molto da dire a riguardo, e con lui i suoi amichetti, mi interessa la faccenda del “polemista”.

Sì, sono un polemista.

Sono anche un polemista.

Lo sono in almeno un paio di ambiti, per motivi diversi. Lo sono nel mio settore, quello della critica musicale, e per traslato del giornalismo musicale, perché credo di essere tornato a scrivere di musica in un’epoca di grande decadenza, una crisi profonda del sistema che lo stare a quattro zampe di miei sedicenti colleghi ha alimentato e supportato, e credo che di fronte a certe storture non sia possibile aggiustare la macchina, ormai marcia, tocchi proprio distruggerla con una palla da demolizione, e semmai, sgomberate le macerie, provare a ricostruire, nella speranza che si ancora possibile farlo.

Questo discorso, ovviamente, era quello che animava il mio modo di scrivere, di muovermi, di apparire.

Un guastatore, direbbero quelli che scrivono di guerra e di spionaggio, uno che si insinua tra le linee nemiche e si fa saltare in area, o meglio, che fa saltare in aria il fortino nemico, provando a fare strada per quanti verranno.

Questo, ovviamente, è un darne una lettura del tutto ingenua, naif. Perché è ovvio, non voglio giocare la carta di quello che non sa che a stare dentro certi meccanismi si finisce per diventarne parte, che il mio essere “polemista” è stato presto inglobato dal sistema, esattamente quando il sistema, proviamo a figurarcelo come un essere senziente, come certi mostri dei film di Fantascienza, ha capito che c’ero, ero riconoscibile, avevo un pubblico che mi seguiva, avevo artisti che mi davano credito e quindi credibilità, non ha potuto far altro che accettarmi e provare a tirarmi dalla sua parte, vedi alla voce proposte in programmi radio e tv, ruoli in giurie e affini.

Questo, magari, potrebbe essere la lettura intelligente di quello che Topolino aveva provato a dirmi, salvo poi scappare più come un coniglio che come un topo, essere il giullare tanto quanto lui era una cortigiana.

Solo che, provo a riprendere il filo del mio discorso, il giullare è in fondo quello che nella corte dice che “il re è nudo”, giocando di ironia, in sostanza, smaschera i mali, non si limita a farsi sbattere dal potente di turno, lì buttato sul tavolo a quattro di spade, al solo fine di provocargli piacere.

Per questo, credo, ho così spesso dovuto cambiare corte, vedi alla voce giornale, perché i re a furia di sentirsi dire che sono nudi finiscono per spazientirsi, provano a avvelenarti, a darti in pasto ai cani, allora se vuoi continuare a rimanere libero non puoi che muoverti a zig-zag, stando sempre ben sotto la luce dei riflettori, l’essere visibili è forse la sola forma di “protezione” che il sistema prevede per i giullari, nessuno farebbe del male a qualcuno che è visibile, e provando a fare il proprio sempre e comunque. Sono un critico musicale libero, e per essere libero ho scelto di incarnare anche il ruolo di polemista, di guastatore, così da avere una grande visibilità che da una parte mi aiuta a sgomberare il campo dalle brutture che quel campo invadono e infestano, dall’altra mi consente di essere talmente visibile da poter essere sicuro di non incappare in imboscate e di dare lustro a quanti quella luce la meritano, le nuove costruzioni che a mio modo di vedere devono sorgere al posto delle storture e le brutture.

Altro ambito nel quale svolgo il mio ruolo di polemista è sui social, dove sin da subito, intendendo con “sin da subito” appena ho ripreso a scrivere con continuità di musica, nel 2014, ormai sette anni fa, ho capito che stavolta la partita si sarebbe svolta in maniera assai diversa che in precedenza, quando cioè scrivevo per la carta stampata.

Se infatti allora il rapporto coi lettori era assai filtrato dal tempo e dai mezzi, io scrivevo per un mensile, Tutto Musica, molto letto ma che per leggere si doveva andare a comprarlo in edicola, e se si aveva qualcosa da ridire su quanto avevo scritto toccava scrivere una lettera di carta, metterla dentro una busta, apporci un francobollo, metterla dentro una apposita cassetta della posta, aspettare che mi arrivasse e, forse, leggerla pubblicata un mese dopo nella sezione Posta del giornale, ovviamente con una mia risposta a tono, ora succedeva che un minuto dopo che il mio pezzo era uscito, toh, qualche minuto dopo, il tempo che fosse letto, e qualcuno si prendeva la briga di mandarmi a quel paese, per altro, non dovendo “sperare” che qualcuno decidesse di sceglierla nel mazzo delle lettere arrivate in redazione, potendosi permettere un linguaggio volgare, i social non hanno esattamente filtri pesanti.

A questa modalità, l’ho raccontato più volte, non si sono mai sottratti neanche gli artisti, anzi, spesso sono stati proprio gli artisti a guidare le armate della notte, sottoponendomi a shit storming anche quando le shit storming non avevano già un nome che le identificasse, tanta merda sputatami addosso da gente che è convinta che solo per il fatto di poter parlare la propria parola abbia un peso, l’uno vale uno internettiano scambiato per un diritto nei fatti tutto da dimostrare.

Così mi sono trovato spessissimo a polemizzare coi “passanti”, i commentatori da social, incrociando le spade con gente che si nasconde dietro nick name, o che invece magari usa il proprio nome ma spesso, se non sempre, dimostra che il dire che l’analfabetismo funzionale è una piaga dei nostri tempi non è affatto una esagerazione. Negli anni mi sono anche trovato a dover aprire profili di riserva, perché spesso i fanclub si organizzano per segnalare in massa le mie pagine, con conseguente blocco da parte dei social, ultimo settimana scorsa, per mano dei fan della Pausini.

Chi mi conosce di persona, intendo i miei amici e conoscenti, anche i miei parenti, genitori compresi, fatica a capire questo mio aspetto. Non perché l’essere polemico non sia parte del mio carattere, è vero che lo faccio per lavoro, ma è pur vero che dovesse essere qualcosa che mi viene innaturale probabilmente col tempo avrei cambiato strada, ma perché pensa, magari anche legittimamente, che sia una cosa “seria”. Non parlo del mio entrare nel sistema e fare casino, provare a guastare, devastare, fare il Jep Gambardella che vuole rovinare la festa, quello è davvero una cosa che faccio con estrema professionalità, quanto il picchiarmi come un fabbro con gente che neanche conosco, spesso ottusi nel ripetere a macchinetta sempre le stesse frasi, “un critico che non accetta le critiche”, “chi sa fare fa, chi non sa fare critica”, “questa è la tua opinione personale”, e qui sto citando i commenti di quelli che comunque si esprimono in un italiano base, una minima parte, quasi da abbracciare con calore prima di mandarli giustamente a fare in culo, insomma, il mio mettermi a torso nudo nel retro del bar di Facebook a fare Fight Club con gente che nel mentre vive le proprie vite altrove, usando con me un linguaggio che, di persona, non userebbe neanche sotto droghe pesanti, anzi, che se mai gli capitasse di incontrarmi, mi è successo chissà quante volte, mi avvicinerebbe dicendomi “io e te ci siamo mandati a quel paese tempo fa sui social, ma sei un grande, ti va di farti un selfie con me?”.

Ecco, sia chiaro a tutti che non c’è stato un solo giorno in vita mia che, dopo avere passato magari qualche ora a rispondere per le rime a minus habens che, oltre a dimostrare di essere minus habens per i propri gusti discutibili in fatto di musica e per non essere in grado di scrivere frasi di senso corrente, io sia andato a dormire turbato, o peggio non ci abbia dormito. Non dormo quasi mai, insonne cronico, ma non certo per questo.

Mandarmi a cagare con la gente sui social mi rilassa, è una sorta di Fight Club che neanche lascia lividi e ferite.

Cerco sempre di spiegarlo a chi mi dimostra apprensione, e capisco sia difficile da comprendere, ma è così. Sono cretini che passano sui social, non persone reali. O meglio, sono reali, non sono tra quanti distinguono tra virtuale e reale, ma so che quel che si dice e come lo si dice sui social va filtrato e letto per quel che è, come chi volesse leggere il linguaggio usato negli stadi dagli ultras interpretandoli con lo stesso metro con cui giudica un qualsiasi discorso in altro ambito, per intendersi.

Ecco, sono uno che fa Fight Club con gente che fa Fight Club non sapendolo, e prendendosi estremamente sul serio, ma a me non fanno nulla. Sono un ultras che sa di essere un ultras ma che è circondato da gente che pensa di essere solo ultras, almeno nel momento che prova a colpirmi sparandomi contro razzi terra aria, ma sono razzi spuntati, finti.

So che fa uscire una immagine di me magari non esattamente signorile, anche enfaticamente maschia, una immagine quindi popolana e volgare di cui farsi vanto, e al tempo stesso mi fa passare per più duro di quanto in effetti non sono, forse anche come un matto che mena le mani, quello con la mazza da baseball coperta di filo spinato delle foto promozionali, per dirla coi Maneskin, quello fuori di testa, immagine che per altro contrasta parecchio, sui social, con quello che scrivo e mostro della mia vita privata, mica sarà un caso che i miei profili privati hanno lo stesso numero di followers delle mie pagine pubbliche, alla gente sembra interessare quasi più le dediche romantiche che faccio a mia moglie degli strali che lancio al Big di turno, o forse è proprio quel contrasto che intriga loro, vallo a capire.

Dovendo parlare, lo farò nei prossimi giorni, di Brand Identity, è indubbio che essere costantemente nell’arena, spesso solo contro tutti, ha contribuito a creare il mio personaggio, non fingo di non saperlo, ma diciamo che confondere forma e sostanza è un errore da matita rossa, o meglio, lo è pensare che la forma sia slegata alla sostanza, che invece è sempre lì, sotto gli occhi di tutti.

In questa panoramica, ripeto, io sto qui a torso nudo che saltello nel retro di un bar, provate a figurarmi così, i chili in eccesso, i capelli lunghi che mi scendono fino a metà schiena, le mani fasciate malamente, ci sono quelli che, poverini, credono di assestare colpi mortali solo perché ricorrono al citazionismo da Google.

Quelli, cioè, che arrivano a criticarmi pensando di farmi male, e temo che in cuor loro vorrebbero farmi male davvero, usando la cultura pret-a-porter per assestare i colpi definitivi, finendo, invece, per incarnare il perfetto cliché di chi parla d’amore citando le frasi rubate nei bigliettini dei Baci Perugina.

Arrivano con cadenza settimanale, per altro convinti di essere originali, il che li ammanta di simpatia ai miei occhi, perché è come chi è convinto di tirare fuori la carta vincente, stupire i presenti con una novità assoluta, e poi ti dice quello che hai già sentito miliardi di volte, con le stesse parole, senza apportare alcuna novità. I più naif, è ovvio, sono quelli che ricorrono non ai classici e già citati, “chi sa fare fa, chi non sa fare critica”, per altro finendo di diritto nella seconda categoria, lì a criticare chi, invece, fa, perché magari non si sarà notato, ma le mie critiche non sono scritte sui social, sono linkate sui social in quanto pubblicate da editori che mi pagano per scriverle, o contenute in libri pubblicati da editori che mi pagano per scriverle, vaglielo a far capire, ai citazionisti un tot al chilo, quanto quelli che si fanno grossi del citare nomi ingombranti, altissimi, che è un po’ come andare a fare una rissa con al fianco quello grosso che mena forte.

Nello specifico due sono le citazioni più ricorrenti, gli amici grossi con cui i commentatori che si credono colti vogliono venire a picchiarsi con me: Frank Zappa e il suo discorso sullo scrivere di musica e il ballare di architettura, per altro frase non sua, va beh, e Carmelo Bene col suo noto scazzo col critico Guido Davico Bonino, lo potete serenamente trovare su Youtube, qui, o le note esternazioni tratte dalle prove del Don Chisciotte, con quella frase diventata a sua volta iconica come quella di Zappa, “per capire un poeta o un artista, a meno che non sia solo un attore, ci vuole un altro poeta o un altro artista”, frase che intendeva evidentemente tagliar fuori i critici.

Tutto condivisibilissimo, sono a mia volta un artista, scrivo libri, romanzi, memoir, scrivo monologhi per il teatro, scrivo canzoni, figuriamoci se non condivido tutto, ma credo che ci sia un solo lievissimo problema nel momento in cui Fragolina87 posta una di queste frasi, come nel momento in cui le posti un qualsiasi Pinco Pallino, è che se sei Frank Zappa e hai il talento di Frank Zappa, il repertorio di Frank Zappa, così come se sei Carmelo Bene, il talento di Carmelo Bene, il repertorio di Carmelo Bene, ecco, in quel caso ti si può credere nel momento in cui dici qualsiasi cosa, ne hai la statura, ne hai in qualche modo diritto, ma se nella vita il massimo di artistico che hai fatto o studiato è quel biglietto di auguri per Natale che per altro hai impiegato un’ora buona a scrivere, ecco, in quel caso, no, non hai proprio diritto di aprire bocca. Non a questo riguardo. Perché non hai il talento a supporto di queste parole, che altrimenti risultano vacue, e perché non hai le competenze per difendere questa affermazione, parli evidentemente di una materia che non conosci, facendo giustamente tue le parole di chi, invece, quelle materie le ha praticate e anche in maniera eccelsa. Provi a menare usando le mani e le braccia di qualcun altro, in pratica, ma meni colpi a vuoto, e finisci ovviamente per farti molto molto male.

Chiarito questo, resta che la frase affibbiata a Zappa è una mera boutade, che lascia ovviamente il tempo che trova, non a caso non è stato Zappa a pronunciarla, perché negare il potere della parola, potere che per altro è una delle caratteristiche primarie dell’uomo, sarebbe una sorta di controsenso in termini, perché a quel punto anche il solo pronunciare una qualsiasi frase, anche “parlare di musica è come ballare di architettura”, diventerebbe inutile, puro vezzo, mentre quella di Bene è parte del suo modo di intendere l’arte, e la sua arte nello specifico, a tal riguardo andatevi a vedere i video degli scontri pubblici con Vittorio Gassman, il suo ritenersi un poeta e uomo di teatro, assai distante da chi, come Gassman, sarebbe un attore, un veicolatore di parole più che un artista. Visione sicuramente affascinante, specie se pronunciata dalla sua voce monotana, con quei gesti meccanici e sguardi spiritati che sempre lo hanno caratterizzato, ma ovviamente del tutto scollati dal reale, un concetto di critica vista come altro da quel che è, il passaggio in cui dice che lui vive il teatro e per il teatro ventiquattr’ore al giorno mentre i critici dalle ventidue a mezzanotte, durante gli spettacoli è ovviamente una provocazione sterile, che prova a disconoscere il valore che la critica ha in sé, il fornire non solo gli strumenti al pubblico per decifrare quello che hanno di fronte, ma uno strumento di confronto proprio con gli artisti, che trovano nei critici figure preparate professionalmente, imbevute nella stessa cultura, e magari la cultura parlando di pop può anche essere lasciata in panchina, che possono fornire indicazioni altrimenti assenti, l’ego a farla da padrona indisturbato.