La ribellione dei Maneskin non è nient’altro che una posa simpatica di spavalderia da ragazzini

La mia impressione è che con la questione della censura si sia voluto dare un motivo in più per poter parlare di loro a ridosso dell’uscita dell' album


INTERAZIONI: 1674

Quando per la prima volta sono arrivato a Bologna, per il concerto degli U2 a Modena, nel trionfale tour di The Joshua Tree sono rimasto molto colpito dalla bellezza del capoluogo emiliano. Quei portici infiniti, i drappi rossi alle finestre, il pavè in terra, le due torri, piazza Grande, che in realtà si chiama Piazza Maggiore, tutto mi sembrava molto affascinante. Un paio di anni dopo ci sarei tornato, anzi, da un paio di anni dopo ci sarei tornato con una certa frequenza, perché è a Bologna che ho studiato, o almeno è all’Università di Bologna che mi sono iscritto, questo senza essere mai andato a vivere lì. Ci andavo almeno un paio di volte al mese, per frequentare la biblioteca di Storia Moderna, per iscrivermi agli esami, per reperire libri che, in epoca pre-Amazon, mi sarebbe stato impossibile trovare nella mia città, Ancona. In seguito Marina, allora mia fidanzata e ora mia moglie, ci si è trasferita per qualche mese per un master, al punto che entrambi eravamo convinti quella sarebbe stata la nostra città. Convinzione finita nel cesso, dal momento che viviamo da ventiquattro anni a Milano. Succede.

Comunque, una delle prime storie che mi hanno raccontato su Bologna, proprio in quella mia prima visita cittadina, io e il mio amico Luca a dormire in un appartamento di via Saragozza, verso la periferia, sotto i portici di San Luca, dove abitava un altro nostro amico, Paolo, studente universitario di stanza in città, è quella relativa alla statua di Nettuno che sormonta l’omonima fontana, proprio nei pressi di Piazza Maggiore.

Si dice, mi ha spiegato Paolo, che la statua inizialmente dovesse guardare verso la cattedrale di San Petronio, vado a memoria quindi volendo mi potrei anche sbagliare, potrebbe essere che doveva guardare verso l’episcopio, poco conta, ma che il suo essere nuda, Nettuno è il Dio del mare, non è che se ne andasse in giro con muta da bus, aveva fatto scattare l’immediata censura da parte dell’arcivescovado. Niente Nettuno che mostra le pudenda verso chi le pudenda non le vuole vedere e soprattutto verso che il mostrare le pudenda sarebbe sembrato a tutti un atto di scherno, di offesa, di vilipendio. Così, questa la leggenda, all’artista destinato a creare il Nettuno, Giambologna il suo nome, venne imposto di girare Nettuno di lato, meglio una chiappa che un pisello, questo il sottotesto. Solo che, questo mi ha fatto notare divertito Paolo, cui immagino qualcuno a sua volta aveva fatto notare la cosa, un classico per chi arriva a Bologna come un classico per chi arriva a Milano è farsi un giro sulle palle del toro che si trova in un certo punto della pavimentazione della Galleria a fianco a Piazza Duomo, gesto che si dice porti fortuna, ogni città immagino ha le sue usanze bizzarre, solo che, questo mi ha fatto notare Paolo, l’artista ha trovato comunque un modo per beffare gli alti prelati, forse anche peggiore che il mostrare le pudenda del Nettuno per come sarebbero apparse senza che fosse incorso nella censura. Infatti la mano sinistra di Nettuno, questo il cuore della leggenda, il pollice della mano sinistra, a essere precisi, decisamente sproporzionato rispetto al resto del corpo, se visto dalle scale della Sala Borsa di Bologna, dalla giusta prospettiva, esattamente quella giusta prospettiva lì, sembra un bel cazzo dritto che spunta da dietro il fianco di Nettuno, un modo non solo per irridere la censura, ma per beffeggiarla nei secoli a venire, al punto che ancora oggi la cosa viene raccontata con divertimento a chi passa da Bologna.

Evidentemente la censura ha ispirato particolarmente Giambologna, al punto da indurlo a ideare un dettaglio che è diventato leggendario. Succede spesso, questo, cioè che gli artisti, di fronte a una censura, decidano di reagire prendendosi gioco dei censori, un dittatore che diventa un personaggio particolarmente brutto e goffo di un dipinto, il volto di un papa che finisce sul corpo di un diavolo, un potente che finisce stigmatizzato e ridicoleggiato dentro un romanzo, seppur camuffato, a volte in maniera anche più potente di quanto la censura non avesse provato a arginare prima.

Il sottotesto di questo simpatico aneddoto è che la censura, specie quella ottusa mossa da bigottismo e ragioni vacue, è da schernire e beffeggiare, bene fanno gli artisti che non si piegano e procedono aggirando il problema.

Certo, non sempre questo è possibile, tanti e tanti sono i casi di opere d’arte messe al bando perché considerate inopportune, blasfeme, irrispettose nei confronti di un reale, volgari, contro il comune senso del pudore, e tanti sono gli artisti che hanno faticato per vedere le proprie opere riconosciute come tali, dai libri alla pittura, passando per un po’ tutte le forme d’arte, dal cinema alla scultura.

Giorni fa ho parlato di come la provocazione, anche quella considerata magari a ragione estrema sia parte integrante dell’arte, inutile che io ci torni su ripetendo quanto già detto. Vero è che ci sono generi che sulla provocazione basano parte del proprio immaginario e della loro poetica, pensare che la censura possa o debba provare a arginarne lo spirito è riprovevole, pensare che a farlo siano di loro spontanea volontà gli artisti stessi, se possibile, anche peggio.

Sappiamo tutti cosa accadde quanto, ormai una vita fa, la signora Tipper Gore, moglie di quell’Al che per un po’ provò a contrastare la ascesa politica di George W. Bush jr, diede vita a una vera e propria campagna censoria atta a contrastare, a suo dire, i testi volgari delle canzoni che traviavano i ragazzini, specie quelle degli artisti rap e rock. Sappiamo cosa comportò il famoso bollino nero con su scritto Parental Advisory Explicit Lyrics, nato con l’idea di bloccare la diffusione di quei dischi e ben presto divenuta vera e propria spinta promozionale, al punto che gli artisti stessi chiedevano esplicitamente alle case discografiche di apporli ai loro lavori, come garanzia di interesse da parte del pubblico più giovane.

Un po’ come la scritta Vietato ai minori per certi film, indice che la pellicola in questione mostrava scene di sesso o di violenza, assolutamente appetibili.

Da che mondo e mondo non c’è niente come vietare qualcosa per renderlo interessante, ricercato, degno di attenzione. La autoproclamazione di ribellione, quindi, potrebbe essere letta come un tentativo spiccio di andare in quella direzione, imboccare un viale alberato e a tre corsi raccontando agli altri di essere nel mezzo delle sabbie mobili, tigri e leoni pronti a sbranarci.

Vi racconto un piccolo episodio personale, pertinente. Tanti anni fa, nel 2005, con Giuseppe Genna ho scritto un libro dal titolo Costantino e l’Impero. Non era un saggio storico sull’imperatore romano, ovviamente, sebbene io abbia studiato presso Storia Moderna di Bologna non mi sono mai occupato di questi argomenti, e lo stesso vale per Genna. Era la biografia, così l’abbiamo venduta, pur lavorando non poco di generosità, di Costantino Vitagliano, all’epoca probabilmente uno degli uomini più famosi di Italia, prototipo dei tronisti di Uomini e Donne di Maria De Filippi. Nello scrivere questo libro, io arrivavo dal successo clamoroso della mia prima biografia su Vasco Rossi, il libro Vasco chi?, Genna era uno degli autori di thriller più noti del paese, il suo Nel nome di Ishmael era stato tradotto in mezzo mondo, volevamo non tanto scrivere realmente una biografia di un ragazzo che, a ben vedere, poco aveva di interessante da raccontare, quanto provare a descrivere, con toni narrativi e anche piuttosto irriverenti, uno scenario che solo qualche anno dopo sarebbe emerso in tutto il suo squallore. Parlo del mondo delle Olgettine, dei Lele Mora, quel sottobosco televisivo che aveva sconfinato nel mondo  della politica, complici le cene eleganti a casa Berlusconi. Ne venne fuori un’opera spuria, venduta come biografia e in quanto biografia rigettata, e solo in un secondo momento metabolizzata come ricerca antropologica, complice Gad Lerner, che ne parlò in Tv, e due articoli particolarmente ficcanti di Loredana Lipperini su Repubblica e Carla Benedetti su L’Espresso. Nel presentare quel tomo, io e Genna, entrambi imbevuti di spirito avant-pop, come usava all’epoca, chiedemmo e ottenemmo di poter fare la nostra sola presentazione dentro l’Ipermercato di Voghera, la casalinga di Voghera era stata eletta da Alberto Arbasino come emblema della medietà culturale, e di far passare la comunicazione attraverso due copertine, chieste e ottenute, rispettivamente su Eva3000 e Gente. Nostra idea era di invadere il pop con un prodotto alto, provando a spiazzare i lettori, ottenendo il risultato di essere schifati da chi del pop era vero fan, e non essere capiti da chi invece avrebbe potuto essere fan nostro. Unica cosa che non ottenemmo, e cui invece puntavamo con tutti noi stessi, premetto il sottotitolo del libro era “Biografia non autorizzata del Divo nel Paese delle Meraviglie”, e in Italia nessuna biografia può o deve essere autorizzata, perché la nostra giurisprudenza non lo richiede né prevede, era di venire querelati dallo stesso Costantino Vitagliano o da Lele Mora. Per questo, lo dico senza paura di smentita, avevamo molto calcato la mano nel parlarne, perché io e Genna sapevamo bene che essere censurati in qualche modo, essere addirittura portati in tribunale, magari, ci avrebbe consentito non solo di far circolare molto il libro, ma di aver modo poi di parlarne, di spiegarlo, facendolo brillare per quel che era, una fotografia del nostro paese in decadenza. La querela ovviamente non arrivò, perché evidentemente Costantino e Mora ben sapevano le stesse cose che sapevamo noi, e non hanno voluto fornirci la spinta promozionale che stavamo cercando.

Chiuso l’aneddoto, triste, personale e finale, resta che la censura è, da che mondo è mondo, un ottimo trampolino di lancio, ve lo dice uno che viene attaccato quotidianamente, fino a ieri il mio profilo Facebook è stato bloccato perché qualche fan della Pausini mi ha segnalato e il social di Zuckerberg censurato.

Tutto normale, dirà qualcuno, magari distorto, perché pensare che andare contro il senso del pudore, essere volgari o violenti, essere politicamente scorretti possa in qualche modo pagare è qualcosa che mette a disagio, ma nulla di sorprendente, ripeto.

Certo, ci sarebbe la questione dell’opera d’arte come opera d’arte, quindi come valore supremo per l’artista, che ovviamente è disposto a difenderla col coltello letteralmente tra i denti da chiunque la voglia imbavagliare o imbragare, a costo di finire in carcere, un tempo agli artisti censurati succedeva anche questo, e tutt’oggi succede così in alcune lande, si pensi, per dire, alle Pussy Riot che vanno in Siberia a spaccare pietre per aver attaccato Putin, ma il punto è forse tutto nella parola “arte”, non sempre presente quando si parla di censura.

Pensate alla Morte della Vergine di Caravaggio, parliamo di un dipinto che risale al 1604, per intendersi, il committente lo rifiutò, perché trovò sconveniente la troppo terrena la figura della Madonna, il colorito della pelle, il ventre gonfio, le caviglie, scandalo, lasciate scoperte. Nei fatti il dipinto è parte della Storia dell’Arte, e il fatto che Caravaggio si sia ispirato al corpo di una prostituta ritrovato nel Tevere è parte della leggenda che aleggia da sempre intorno al controverso artista lombardo, indiscutibilmente uno dei più grandi di tutti i tempi. O pensate alle rappresentazioni teatrali della Societas Raffaello Sanzio, con quei corpi nudi di donne obese, focomeliche, qualcosa che richiama alla memoria l’opera di Marc Quinn, penso alla Allison Lapper Pregnant, una statua in marmo di carrara della modella focomelica il cui nome dà il titolo all’opera, o alla Seconda soluzione di immortalità (l’Universo è immobile) di Gino de Dominicis, col ragazzo affetto dalla sindrome di down esposto alla biennale di Venezia nel 1972, seduto immobile tra le altre opere, se qualcuno di loro si fosse chiesto che effetto la censura avrebbe potuto avere sulla propria opera e conseguentemente sulla propria carriera, presumibilmente nessuna di queste opere avrebbe mai visto la luce, e sicuramente nessuno degli artisti citati è tornato sui suoi passi una volta che la censura si è mossa, più o meno istituzionalmente. Poi, chiaro, si potrebbe aprire dibattito sul fatto che magari in alcuni casi, penso proprio a de Dominicis, o a alcune opere di Cattelan, a partire dai tre bambini impiccati a porta Ticinese, istallazione avvenuta durante la giunta Albertini, l’idea di scatenare la censura fosse parte integrante dell’opera, ma anche lì, se è la censura che vuoi provocare, in genere, lo fai fino in fondo, non è che Cattelan, aspramente criticato per aver rappresentato Papa Giovanni Paolo II schiacciato da un meteorite si sia affrettato a sostituirlo con un personaggio di finzione, o magari un dittatore. È la censura, baby.

Chi decide di provocare, fosse anche perché parte di un canone che decide di interpretare, sa che una volta iniziato deve andare fino in fondo, pena il vedere sgretolarsi la concettualità della propria opera, sempre che di opera d’arte si tratti, e che la provocazione non sia una semplice mano di smalto passataci sopra tanto per rendere il tutto più appetitoso per un pubblico di bocca buona.

Poi però ci sono esempi che dimostrano come a volte essere “ribelli” sia semplicemente una posa, che andare controcorrente non sia una modalità d’azione, quanto un abito da indossare e esibire, al primo dito alzato e sguardo di questura ecco che ci si rimangia tutte le istanze provocatorie e si torna zitti e buoni dietro i banchi di scuola, pena una nota da far firmare dai genitori.

Non credo sia sfuggito a nessuno che negli ultimi giorni si è parlato e sparlato, a proposito e a sproposito, quindi, di come i Maneskin, freschi vincitori del Festival della Canzone Italiana di Sanremo con il brano Zitti e buoni, e quindi di diritto partecipanti alla prossima edizione di Eurovision Song Contest, abbiano dovuto mettere mani sul testo e la durata del brano in questione, nel primo caso per mere faccende di censura, nel secondo di tempistiche regolamentate rigidamente. Niente di strano, c’è un regolamento, se vuoi partecipare devi sottoscriverlo e rispettarlo.

Quindi il brano è diventato di tre minuti, non un secondo di più, e il testo ha visto uscire due parole, proprio quello che magari avevano fatto storcere il naso a qualche benpensate, “coglioni” e “cazzo”.

La cosa, ovviamente, non ha mancato di alimentare polemiche, il pane dei nostri giorni social, e in alcuni casi anche di aver fatto sorridere parecchio. Io, personalmente, appartengo alla seconda categoria in questione, quanti ne hanno sorriso, forse anche riso proprio.

La cosa in sé non avrebbe sortito nessuna reazione, non fosse che si è voluto dar risalto alla cosa, e che i Maneskin, saggiamente, hanno cavalcato la cosa per continuare a stare in trend topic proprio a ridosso dell’uscita del loro album, anche il fatto che non sia la canzone vincitrice di Sanremo la più ascoltata di questi giorni, vedi alla voce Colapesce e Dimartino e Madame, non è un segreto. È il marketing, baby.

Mi spiego.

La notizia che Zitti e buoni, canzone, non dimentichiamolo, che è un grido di ribellione verso che ha sempre voluto mettere a tacere lo spirito ribelle dei nostri, queste, più o meno, le parole che hanno usato per descriverla i diretti interessati, dovesse essere censurata non è certo partita da un insider, ma dalla casa discografica e il loro ufficio stampa. Come dire, questo è il mio pane, prendetene tutti, tanto per giocare con la censura.

Ovvio che in molti si scatenassero nel criticarli, sei uno che si spaccia per rockettaro, il kajal, i vestitini color carne, il rock, questa la polemica della settimana scorsa, uno che lecca pali calzando scarpe da donna tacco dodici e a torso nudo sul palco di X Factor, la bassista del gruppo che si mostra, ancora adolescente, a tette di fuori sulla cartellonistica che per loro ha pensato non uno di passaggio, ma Oliviero Toscani, che in quanto a scatenare polemiche è un numero uno assoluto, Damiano, sempre lui, che appare sui social in minigonna, sempre a torso nudo, come a voler fare proprie le istanze della fluidità sessuale, però al primo dito alzato togli le parolacce dal testo, quelle stesse parolacce che nel testo ha infilato così, proprio per scandalizzare il pubblico in età da Carta Argento di Rai1, non credo ci fosse alternativa possibile.

Il fatto che il brano si chiami Zitti e buoni, poi, parlo per me, che di parole sono appassionato, brano che per altro vince il Sanremo in era Covid dopo che a vincerlo era stato Diodato con Fai rumore, come in una sorta di metadiscorso pandemico, regala al tutto un tocco surreale.

Cioè, scrivi una canzone che vuole essere un inno alla ribellione, ti dichiari “fuori di testa” per tutto il ritornello, la intitoli Zitti e buoni e finisci per addolcirla per andare a partecipare a un programma musicale che ha fatto della provocazione una sua componente non da ridere, ricordiamo la vittoria di Conchita Wurts, vestita in lungo e con la barba, pronto a spuntare la matita pur di essere della partita.

Ripeto, l’impressione, radicata e radicale, è che si sia voluto dare un altro motivo per discutere sul gruppo, scelta in caso perfettamente riuscita. Quel che però, lo confesso, mi ha fatto proprio ridere, ma tanto, è che i ragazzi, sono giovanissimi, hanno nomi improbabili, fanno oggettivamente simpatia, anche per quel loro credersi e spacciarsi per spavaldi, abbiano proferito in conferenza stampa la frase “siamo ribelli, non siamo stupidi”, riguardo la loro scelta di tagliare il testo pur di essere parte della competizione.

Perché è evidente che dichiararsi ribelli nel momento in cui ti stai semplicemente adeguando a un regolamento che, diciamocelo, è ridicolo, fa ridere e basta, come se bastasse dirsi superdotati per ritrovarsi di colpo trenta centimetri di cazzo nelle mutande.

La ribellione dei Maneskin, l’ho pensato sin dal loro apparire a X Factor, ne ho prova provata ora, è una posa, simpatica, perché la spavalderia dei ragazzini la trovo sempre simpatica, anche quando è oggettivamente antipatica, ma una posa  e niente più. Una posa furba, perché nei fatti tutti, me compreso, stanno seguendo una trollata che aveva, credo, il solo scopo di far parlare dell’uscita del loro nuovo album, il cui titolo non cito perché va bene tutto, ma proprio passare da coglioni a cinquantuno anni no, ma pur sempre una posa, nulla a che fare con la ribellione. E il fatto che a veicolarla siano dei ragazzini, questa la difesa di ufficio di molti addetti ai lavori, è un finto problema, perché è evidente che se i ragazzini sono ingranaggio importante della macchina è della macchina che ci si occupa, non dei ragazzini, si parla di opere, non di persone, non dimentichiamolo, e le opere sono frutto di un manipolo di ragazzini addomesticati che pensano che basti dirsi ribelli per essere ribelli, mentendo.

A meno che, su quel palco, alla Giambologna, i Maneskin non decidano di ripristinare il corso naturale degli eventi, che so, tirando fuori gli attributi, fisicamente, come Jim Morrison sul palco di Miami, o facendo qualcosa di ben più scandaloso. Il che, immagino, appagherebbe le Mammeskin o Milfskin che dir si voglia, una fanbase di signore adulte che dicono a Damiano cose che, li ripeterò fino in punto di morte, se un uomo le dicesse a una ragazzina verrebbe giustamente arrestato e condannato al pubblico vilipendio, invece fatto da una donna matura a un ragazzino va bene, nessuno ha nulla da eccepire. Comunque resta che o i Maneskin ci sorprenderanno scandalizzando davvero, o li avremo tanati una volta per sempre.

Mi tocca nuovamente citare il mai abbastanza compianto Freak Antoni e i suoi Skiantos, siamo di fronte al protagonista dell’immortale canzone “Sono un ribelle mamma”. Credo che una strofa come questa,  Ci vediamo, torna pure a letto/ Domani arrivo, ok, te lo prometto/ E per favore stira la maglietta/ C’è un concerto, mi serve quella rotta”, come il seguente “Ricorda di comprarmi dei calzini/ Fai mettere le borchie ai pantaloni/ Ho il pullover e la giacca di pelle/ No, non ho freddo e sono un ribelle” dicano davvero tutto quello che su questa vicenda c’è da dire. Ovviamente, però, avendo citato Freak Antoni, e avendo parlato di arte e di provocazione, non posso che chiudere nel solo modo che questa discussione merita, altri non ne vedo, “Largo all’avanguardia, pubblico di merda”.