Mi piace Arnica di Gio Evan, abbattetemi

Nella sua versione incisa, mi è sembrata una canzone assai solida, originale anche per quel modo di cantare così sussurrato, con addirittura un testo intenso


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Questa è l’Italia del futuro, un paese di musichette mentre fuori c’è la morte.

No, non voglio parlare di Mai dire mai (la locura) di Willie Peyote.

Non voglio neanche parlare della mezza querelle di lui che blasta qualche cantante in gara, Francesco Renga, Ermal Meta e Aiello, durante le sue dirette Twitch tenute durante il Festival, e delle sue relative scuse, anche se mi ha fatto davvero molto ridere che nel raccontare la cosa nessuno si sia minimamente calcolato Aiello, forse subconsciamente volendolo punire per come ha cantato male durante la kermesse sanremese, detto di sfuggita io penso che sei vuoi provocare provochi, poi però non chiedi scusa e torni sui tuoi passi, se no passi da uno che non sa bene quel che fa.

Non voglio neanche soffermarmi sulla provenienza di questa citazione, che per inciso è l’intro del brano che Willie Peyote ha portato a Sanremo, lo dico nel caso vi steste chiedendo di che diavolo sto parlando, e che, recitata dalla voce riconoscibilissima di Valerio Aprea, è tratto da Boris, serie tv cult di cui, si è appreso, stanno ora girando la attesissima quarta stagione, seppur in assenza del genio assoluto di Mattia Torre.

No, se ho deciso di partire da qui è perché in qualche modo ho i sensi di colpa, a volte, raramente, e poi passano subito. Ho i sensi di colpa perché in un’epoca come questa mi occupo di un argomento apparentemente effimero e volatile come la musica leggera, e lo faccio spesso soffermandomi su aspetti a loro volta effimeri e volatili, come in queste settimane ho fatto con il Festival della Canzone Italiana di Sanremo.

Però, a parte la faccenda del pane e le rose, della necessità vitale dell’arte, sempre che la musica leggera di cui si parli abbia una qualche connessione con l’arte, c’è pure che chi scrive, e io scrivo, in certi frangenti storici si trova anche a fare in qualche modo intrattenimento, sollevare gli animi o provarci, distrarre dai pensieri torvi e pesanti, alleggerire il carico della mongolfiera mentre il fuoco si spegne e le rocce sottostanti si avvicinano improditoriamente. Comunque i sensi di colpa passano, sono sufficientemente strutturato per reggere al loro assalto, che quelle parole fotografino l’oggi, e non il domani, resta un fatto.

Mi sono trovato spesso in questi anni, anni nei quali ho ripreso a dedicare parte della mia scrittura alla critica musicale, e alla critica musicale in questa forma qui, che credo sia ascrivibile solo a me, una sorta di flusso verbale che introietta nella scrittura stralci, abbondanti, di vita vissuta, culture varie, passa apparentemente di palo in frasca per poi giungere a conclusioni che, volendo, si sarebbero potute raggiungere anche con testi assai più brevi, ma che, questo il mio punto di vista, solo in questa maniera, chiamiamola così, panoramica, possono essere capiti fino in fondo, “io non t’ho conosciuto, t’ho vissuto”, per dirla con le parole di Valerio Mastandrea nel video cult di Supercafone di Piotta, comunque, dicevo, mi sono trovato spesso in questi anni a provare a spiegare, mi vesto attillato di modestia, perché in fondo ho sempre il sospetto di star lanciando perle ai porci, non vogliatemene, so che sentirsi dare dei porci non è carino, è una gaffe, ma io non sono Willie Peyote lo dico e resto fermo sulle mie posizioni, capre, dicevo, mi sono trovato spesso in questi anni a provare a spiegare la differenza che corre tra il gusto personale e il gusto oggettivo, parlando d’arte. E spesso, forse troppo spesso, ognuno ha i suoi cavalli di battaglia, le proprie scorciatoie, dovrei piuttosto ammettere, ho usato un paragone col cibo, per provare, ancora, a rendere il tutto commestibile a tutti i palati.

Riassumo.

Se cresci a panini del McDonald’s, intendendo con questo quello che un tempo veniva chiamato junk food, cucina pret-a-porter, dozzinale, non esattamente salutarissima (e so bene che è un pregiudizio citare proprio quella catena lì, perché nel mentre c’è stata una evoluzione, e ora se vai a McDonald’s ci mangi la Chianina e il formaggio delle Langhe, ma è per intendersi, dai, non siate pignoli, avete perfettamente capito cosa intendo), se cresci a panini del McDonald’s è molto facile che finirai per riuscire a gustarti, cioè a mangiare con gusto, con piacere, solo quel tipo di cucina lì, elementare, con sapori facilmente riconoscibili, per altro uguali in ogni parte del mondo, l’hamburger, il formaggio, l’odiato cetriolino, e se mai ti dovesse capitare di trovarti di fronte a un piatto più elaborato, e comunque assai più sano, non solo faticheresti a mangiarlo, ti troveresti proprio di fronte a qualcosa che di istinto non capisci, rigetti, respingi. Il tutto, magari, sapendo che le patatine fritte con olio bollente lì da giorni, non è esattamente il massimo in fatto di salute, e capendo che la cicoria saltata in padella con scalogno e aglio è assai più salutare, ma dovendo scegliere al volo cosa mangiare, non ce n’è, è alle patatine che correresti con la faccia di chi ritrova il proprio amore che aveva dato per perso anni prima.

La morale di questo mio ricorsivo ragionamento è semplice, per riconoscere il bello (nello specifico il buono, l’oggettivamente buono, cioè ciò che è buono, sano, che fa bene) bisogna applicarsi, educarsi, o rieducarsi, il junk food è più facilmente assimilabile, gustoso se si intende per gusto qualcosa di assai poco raffinato e terra terra, ma fa male.

Poi, è ovvio, se mi trovo davanti un piatto di patatine fritte nell’olio del motore o un piatto di cicoria, è facile che mi getti sulle prime, ma qui sto teorizzando.

La morale di questo discorso, in realtà, è un po’ più complessa, perché nella musica, diciamo nell’arte che si fa intrattenimento, cinema, letteratura, anche, più a fatica, un po’ meno le altre arti, nella musica entra in campo l’emozione, anzi, le emozioni, e le emozioni sono spesso fondamentali nel muovere il nostro gusto, finendo a volte per fare dei danni incredibili.

Mi spiego, poi passo oltre. La critica musicale del Novecento, adorniana, quella cui io, che sono un uomo del Novecento, tendo a dar credito, tiene debitamente fuori le emozioni da questo ragionamento. Esistono le emozioni, e ci mancherebbe altro, le emozioni tendono a influire nel nostro gusto personale, e anche qui ci mancherebbe altro, ma il gusto personale è ben altra cosa dal gusto oggettivo, sintetizzo in una maniera vergognosa, come dire, mi piacciono le patatine fritte cotte con l’olio delle pile elettriche, ma mi piacciono perché mi ricordano che le ho mangiate la prima volta quando ero piccolo e i mie mi hanno portato in vacanza in quel posto dove poi ho visto per la prima volta, etc etc, ma le patatine fritte sono il male, lo devo sapere e se non so è un problema mio, sempre il male restano.

La critica oggi tende invece a dare alle emozioni un peso fondante, anche qui, sto procedendo con la sega elettrica, come Jed Sawyer detto Latherface, ovviamente dando alla parola emozione una profondità di lettura assai più ampia di quanto non accada in genere nella vulgata.

Per intenderci, se si parla di emozioni, specie legate alla musica, immagino che a molti verrà in mente l’amore, quindi l’innamoramento, la malinconia, al limite, la nostalgia, lasciando fuori dalla porta quasi tutto ciò che è invece poco gestibile, quelle passioni disturbanti e disturbate, l’essere conturbati da qualcosa che in teoria non dovremmo neanche prendere in considerazione, a meno che non si voglia poi dover gestire i sensi di colpa, oggi preoccupantemente presenti. La rabbia, quindi, l’invidia, la gelosia, ma non quella sana, che ci fa poi abbracciare con nostro lui o la nostra lei, e tutta quella gamma di emozioni che difficilmente esporremmo in pubblico con orgoglio e vanto. Nei fatti, chiudo l’excursus banalizzato che vi ho esposto non senza vergogna, se a una canzone abbiamo legato sentimenti forti, un momento importante della nostra vita, una persona che in qualche modo ci genera una serie di ricordi, la ameremo alla follia, finendo per considerarla una grande canzone, anche nel caso fosse in realtà una canzone di poco conto, sciatta, dozzinale.

Il primo bacio, una vecchia amicizia, un ricordo di famiglia, tutto può contribuire a dare al nostro gusto personale indicazioni distorte, fallate, il paesaggio visto da un vetro appannato o bagnato di lacrime, quindi assai diverso da come appare a chi quel paesaggio guarda in maniera corretta, senza filtri.

Chiaramente, detta così, ma vi giuro che è altrove che sto andando, seguitemi senza far troppe domande, la faccenda sembra lineare e semplice. Ho dato il primo baci a colei o colui che da allora mi sta a fianco ascoltando, che so?, Never Be The Same Again di Mel C in compagnia della compianta Left Eyes, e quando la ascolto sprofondo nello struggimento emotivo manco stessi ascoltando in una scarsamente illuminata chiesa di Salisburgo una perfetta esecuzione del Requiem di Mozart, tendendo addirittura a pensare che la prima sia superiore alla seconda.

Gusto personale, gusto oggettivo, fine della storia.

Il critico, cioè nello specifico io, starebbe qui a rovinare la festa, a dire: occhio che le patatine intrise d’olio ti ingrossano il fegato, alzano i trigliceridi, intasano le arterie, capra, esci da quel corpo e comincia a rieducarti.

Fine della questione.

Solo che il critico musicale, che sarei appunto io, ha a sua volta gusti personali, e ci mancherebbe pure altro.

Qualcosa, credo, ma non ne sono sicuro, che potrebbe essere paragonato al sesso fatto per passione e non per mestiere dei professionisti del porno, paragone ardito che per altro mi consente di sottolineare ai tanti che mi dicono “beato te che per lavoro ascolti la musica”, sottintendendo, ovviamente, “non come me che faccio…”, aggiungete un qualsiasi altro mestiere che non contempli l’ascolto di canzoni o altro ascrivibile al campo del divertimento o dello spettacolo, quindi escluderei dalla scena i già citati professionisti del porno, ecco, paragone che mi consenti di sottolineare come il mio ascoltare musica tutto il giorno e il mio scriverne non contempla necessariamente piacere, anzi, spesso è quanto di più distante dal piacere, dover ascoltare musica dozzinale è orrendo, fidatevi, immaginatemi come un attore porno che, tornato a casa dopo una sessione di lavoro, sta sul divano con uno scaldotto in pile appoggiato sulle gambe a guardarsi in tv una soap opera datata e trashissima, piangendo a ogni frangente.

Ho scritto tutto questo, tutto quello che avete letto, una sorta di Bignami della critica dal Novecento a oggi, perché oggi vorrei soffermarmi su una questione che col gusto personale ha a che fare, e siccome mi trovo quotidianamente a spiegare a chi si sente in diritto e dovere di venire a commentare i miei articoli che sì, per i suoi gusti personali sarà anche vero che Tizio è Dio, e Caia è l’incarnazione della bellezza in musica, ma nei fatti sono patatine fritte che li sta portando dritti dritti a una angina pectoris in piena regola, mi sembrava necessario, almeno per non sentirmi di colpo il coglione che dopo aver a lungo sbraitato contro la violenza negli stadi viene di colpo beccato mentre si lancia pietre coi tifosi avversari davanti allo stadio, provare a inscrivere il tutto dentro un quadro il più possibile preciso e coerente.

Succede questo. Anche qui, ne ho parlato talmente tanto che procederò col tosaerba, senza soffermarmi con pinzette e pennellini, da un anno siamo sotto pandemia, reclusi con più o meno rigore e continuità. Nel mio caso essere isolato è una faccenda discutibile, vivo in casa con altre sei persone, la mia famiglia, e prima della pandemia facevo del mio stare a casa, isolato, la mia cifra riconoscibilissima, ero “quello che non c’è mai”, ma ovviamente essere costretti a fare qualcosa è assai diverso dal volerla fare per scelta. Il mondo nel quale lavoro, nel quale ho scelto di lavorare ha rallentato, si è fermato, è entrato in agonia, forse è morto definitivamente, o comunque è in coma. Non ci sono grandi prospettive future, almeno a medio termine, e la mancanza di progettualità pesa come un macigno, almeno per me che per scelta da anni vivo proprio così, cambiando spesso forma per dar vita a progetti nuovi, spostarmi da un contesto all’altro, sempre nel medesimo ambito.

Ora ho tre aggravanti, a rendere il tutto ancora più ostico , insopportabile.

Sono a dieta, i miei quattro figli sono tutti in DAD e quattro piani sotto casa mia sono appena iniziati i lavori di ristrutturazione, con conseguenti lavori assordanti a rendere le voci dei professori e delle maestre una sorta di concerto futurista tutto clangori e sbuffi assolutamente insopportabile. Per la cronaca, già che ci siamo, io sono a dieta da due anni e tre mesi, ma gli ultimi mesi mi hanno visto vacillare, e il peso è tornato veloce come certi ricordi quando ascoltiamo certe canzoni, maledetti lipidi.

Sia come sia mi sento fragile, nervoso, vulnerabile, e per me essere queste cose, toh, togliamo il nervoso che è caratteristica primaria della mia personalità, è difficile da metabolizzare e gestire. Per questo ieri è successa una cosa, e questa è la cosa che volevo raccontarvi, e per raccontarvi la quale ho dovuto prendere tutta questa lunga, lunghissima rincorsa.

Incuriosito dal non aver assolutamente capito cosa fosse successo sul palco dell’Ariston per i tre minuti scarsi delle sue singole esibizioni, né di che tipo di canzone si trattasse, la sua voce dal vivo mi impediva di cogliere la melodia, sempre che di melodia si potesse parlare, né di intendere le parole, quindi capire l’argomento trattato nel testo, sono andato a sentirmi la versione incisa di Arnica di Gio Evan.

Sapete già, ne ho scritto in maniera piuttosto esplicita, i miei severi dubbi sul suo essere stato incluso nel cast dei BIG di Sanremo, l’unico motivo per cui io e buona parte della nazione ne avevamo sentito parlare era la famosa poesia usata dalla Isoardi per farci sapere che si era mollata da Salvini, non esattamente un vanto, e la sua sola canzone che avessi sentito fino a Sanremo, fino a ieri l’unica che avessi proprio mai sentito, ripeto, a Sanremo era una cosa incomprensibile, era tale Glenn Miller, sparata a ripetizione da RTL 102,5, una cosa di cui non andrei esattamente fiero, il sapere che fosse anche un poeta, ma il poeta che ha scritto i versi banalotti citati dalla Isoardi, non è che mi avesse invogliato molto a approfondire, men che meno la cover de Gli Anni eseguita la sera festivaliera del giovedì, in compagnia dei concorrenti di The Voice Senior, qualcosa che utilizzerei in maniera sistematica per indicare cosa intenda io per il concetto di imbarazzo.

Non sapete, invece, che la parola Arnica è per me qualcosa di fastidioso come, credo, neanche un dito in culo (e no, non sono tra quanti amino farsi infilare un dito in culo).

Il motivo è personale, dell’Arnica, non del dito in culo, e dipende dal fatto che, diventato padre ormai venti anni fa, ho iniziato a confrontarmi con altri adulti che, di volta in volta, erano i genitori dei compagni di scuola materna, elementari e medie, poi il familiarizzare con gli altri genitori è tabù,  su argomenti che esulavano la scuola, sconfinando ovviamente nella farmaceutica. Se interagisci con altri adulti prevalentemente in eventi che hanno a che fare con l’aspetto ricreativo dei tuo figli, feste di compleanno, gite fuoriporta delle classi, giochi della gioventù, è praticamente impensabile ciò non accada. Bene, non è mancata volta che uno dei miei figli si facesse male, e chiunque abbia un figlio o abbia memoria di quando era un figlio piccolo ben sa con che frequenza ciò accada, non è mancata volta che ci sia stata una caduta, un contatto maldestro, una distorsione, non dico una fattura, ma poco ci manca, che qualcuno non se ne sia uscito con: “devi metterci dell’Arnica”, manco fosse l’Acqua di Lourdes per certi anziani o il Balsamo di Tigre per certi deficienti. Mettici l’Arnica, nel tempo, è diventato quasi un mantra.

Considerate che, fino a che non sono diventato padre, e padre di una figlia, la mia primogenita è una donna, che ha iniziato a frequentare altri bambini, con conseguente frequentazione da parte nostra dei loro genitori, io non avessi mai sentito neanche vagamente nominare l’Arnica. Al punto che, inizialmente, pensavo fosse un rimedio ancestrale e locale, autoctono, qualcosa di vagamente primitivo, tipo la cassoeula, che vada messo agli atti, mi fa cagare. Ovviamente, spinto da tanto entusiasmo, e per quel gusto antropologico che mi spinge a sperimentare quel che i luoghi in cui capito sembrano sbattermi in faccia con tanta evidenza, io psicogeografo ante litteram che proprio alla città di Milano ho legato la mia epifania, ho comprato l’Arnica, non ricordo in occasione di quale contusione di Lucia, la mia primogenita, e ho scoperto trattasi di una sorta di Lasonil, questo usavano i miei ai miei tempi, quasi settimanalmente, un Lasonil naturale e che sta al Lasonil quanto le palline omeopatiche stanno agli antibiotici, in caso di infezione.

Non serve a un cazzo.

Non solo, unge come l’olio della patatine fritte di cui sopra e non serve a un cazzo, in sostanza è una sorta di punizione divina per chi non ha vegliato abbastanza sulla salvaguardia dei propri figli, credo.

Figuratevi quindi con che predisposizione d’animo mi sono posto, la DAD che strepita dal resto della casa, i lavori dei martelli pneumatici che arrivano da sotto, la pancia che brontola per il mio non mangiare, lo zero assoluto sul fronte lavorativo lì, come monito del “devi morire” di savonaroliana memoria, a ascoltare un tizio che si è presentato sul palco dell’Ariston a mio modo di vedere indebitamente, presentato per di più in calzoni corti e giacche fluo, sussurrando, tale è la sua afonia, parole che non ho capito su melodie che non ho percepito, che per di più canta, si fa per dire, una canzone che si intitola Arnica. Sulla carta, non ce n’è, meglio il dito in culo.

Invece, e qui appunto credo entri in campo il gusto personale, misto a quella fragilità e vulnerabilità di cui sopra, Arnica, nella sua versione incisa, mi è sembrata una canzone assai solida, originale anche per quel suo modo di cantare così sussurrato, con addirittura un testo intenso. So che mettere così tanto le mani avanti risulterà una sorta di coda di paglia, ma è un fatto che la cosa mi abbia sorpreso e non poco, di fatto Arnica è un ritratto generazionale, non della mia generazione, quindi non è che, tipo Gli anni di cui sopra, ci siano poi così tanti appigli emotivi che mi abbiano tradito, la storia di un uomo che è di fronte ai suoi ipotetici fallimenti, alle sue cicatrici, sempre e comunque alla voglia e la necessità di andare avanti.

Il ritornello, anche se si tratta forse più della coda del ritornello, mi sembra arrivi due sole volte in tutta la canzone, che a Sanremo si traduceva in lui, Gio Evan, che si contorceva sul palco facendo supercazzole incomprensibili, e che anche nella versione incisa non è esattamente un tutorial su come si respiri e emetta note usando correttamente il diaframma, oltre che un corso di dizione, è un momento emotivamente molto forte, che quasi mi commuove. So che esporre in pubblico le proprie debolezze è strada percorsa da tanti prima di me, e che nel mio caso, immagino, verrà interpretato come un vezzo, un voler tirare ulteriormente gli elastici della fionda così che, la prossima volta che lancerò il sasso, arriverà ancora più forte, facendo ancora più male, ma dico sinceramente che al momento la canzone che sto ascoltando con più continuità è Arnica di Gio Evan.

Che tutto questo venga messo agli atti come prova evidente che le diete fanno male, che la DAD fa danni psicologici assai più pesanti di quanto lo psicologo Ammanniti possa aver lasciato intendere fin qui e che ai lavori di ristrutturazione dei miei futuri vicini risponderò colpo su colpo sparando di sabato mattina presto i Napalm Death dal mio stereo a massimo volume.

E poi dire cosa quanto ha fatto male, eppure non riesco a rinunciare. Arnica merda.