I Maneskin mi stanno salvando la vita, ma non lo sanno!

Lunga vita ai vincitori di Sanremo, ai loro venti anni, alla loro voglia di fare casino, ma solo perché parlarne (nel bene e nel male) mi distrae dal disastro che sta tornando a galla


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Sanremo, o meglio la vittoria dei Maneskin a Sanremo ha fatto anche qualcosa di buono. Almeno per me. Sto infatti passando le ore a confrontarmi, più o meno civilmente, sui social, con gente che sostiene la tesi che grazie a loro a breve il rock tornerà di gran moda, con tutte le sfumature del caso, da chi pensa che la trap con questa vittoria abbia subito il colpo fatale, avendo ormai metabolizzato la credenza che qualsiasi musica non suonata non sia necessariamente musica, per buona parte della trap il discorso è in effetti valido, e che chi usa le macchine invece degli strumenti non ha studiato e non sa nulla di musica, emerita puttanata, a chi, invece, pensa che se anche un solo ragazzino andrà a comprarsi in un negozio di strumenti una chitarra e inizierà a studiarla sarà un ottimo risultato.
Ora, a parte la tenerezza di pensare che un ragazzino la chitarra se la andrebbe a comprare in un negozio di strumenti, e non a cinquanta euro su Amazon, direi che stare a parlare di questo è un gran risultato.
No, non perché sia argomento in qualche modo di primaria importanza, che abbia un qualche sottotesto culturale, che nasconda in sé le istanze della contemporaneità, sull’importanza di tornare a suonare, le chitarre, le cantine, lo stare insieme a scambiarsi note e sudore ho scritto, anche qui, talmente tante parole che credo ci si potrebbe fare su un libro a sé, ma perché almeno, per qualche altro giorno, si parlerà di cazzate e non di Covid, di zone rosse, di DPCM e affini. Anche perché, mannaggia, nel mentre è tornata la DAD, sono stato sfrattato dalla sala, dove da un anno lavoro visto che nello studio ci si è piazzata mia moglie in smart working, dove ora fa DAD mia figlia Chiara, gli altri tre figli nelle camere e in cucina, e soprattutto dalle finestre, chiuse, il rumore del traffico, siamo al settimo piano e più che rumore dovrei dire brusio lontano, è stato sostituito dagli strilli delle sirene della ambulanze, tornati piuttosto frequenti, come a marzo scorso.
Ben venga quindi il parlare di Maneskin, di rock, di chitarre, di musica suonata vs musica fatta col PC. Di più, ben venga di parlare di cosa sia il rock, così, a brutto muso, manco fossimo Adriano Celentano in uno di quei suoi tormentati e tormentanti monologhi, lentissimi.
Questa faccenda del rock, il rock dei Maneskin, che è come dire questa faccenda di Briga che gioca nella nazionale cantanti e del calcio brasiliano degli anni Settanta, è un ottimo palliativo, un modo neanche troppo complicato di concentrare l’attenzione su un argomento futile per distrarsi.
Futile, poi, si fa per dire.
Perché in fondo è un argomento interessante, che andrebbe affrontato seriamente. Seriamente per quel che può essere serio parlare di rock e di musica oggi, sia chiaro.
Solo che nel farne polemica sui social, ripeto, al solo scopo di distrarmi e non cadere in depressione post sanremese e soprattutto depressione da DAD, sono incappato in uno stuolo di miei coetanei, magari qualcuno più giovane, qualcuno più vecchio, che ritiene, e lo ritiene seriamente, convintamente, non per distrarsi dalla realtà, come faccio io, non per fingere una normalità che evidentemente ormai è sempre più questa cosa qui che quella che vivevamo un tempo, Sanremo è sempre stata chiacchiere da bar, ora lo è da social, che la vittoria dei Maneskin sia un ritorno del rock, e, pensa te, che questo ritorno del rock, Ernesto Assante, sempre lui, ha addirittura parlato di “rivoluzione rock” su Repubblica, chi lo conosce e lo frequenta lo aiuti, fatelo per chi lo stimava se non per lui, in qualche modo spingerà milioni di ragazzini a andare a saccheggiare la discoteca di famiglia per ascoltare Led Zeppelin e Deep Purple.
Qualcuno, come accennavo, più cauto e romantico, ha ipotizzato che già tanto sarebbe se anche solo un ragazzino si incuriosisse al rock e comprasse una chitarra sarebbe un ottimo risultato. Come dire, salta in aria un grattacielo pieno di abitazioni, non ne resta che macerie e polvere, ma se su quelle macerie nascerà un fiore, beh, forse ne è valsa la pena.
No, forse ho esagerato, stiamo pur sempre parlando di canzonette, come se un ragazzo con disturbi alimentari venisse finalmente indotto a mangiare dall’incontrare sulla sua strada un McDonald’s, e di colpo volessimo sdoganare il junk food e quanto di male il junk food ha fatto per decenni non solo alla nostra salute ma al nostro approccio all’alimentazione.
A me, personalmente, piace credere che il mondo sarebbe un posto migliore senza certa musica inutile e fastidiosa, sintomo di un analfabetismo dilagante, e a sua volta virus in grado di far propagare il medesimo virus dell’analfabetismo dilagante, di ritorno, funzionale e non, pur sacrificando la felicità del ragazzino lì a suonare la sua chitarra nuova.
Magari anche la nostra futura, di felicità, perché il ragazzino in questione potrebbe diventare un bravo musicista, potrebbe essere un artista in potenza che aspetta solo di ascoltare i Maneskin in tv per andarsi a comprare una chitarra e diventare un artista in atto.
Ecco, anche fosse un nuovo Battisti, per intendersi. Preferire rinunciare a questa ipotesi, perché la musica dei Maneskin è una realtà, quella solo una vana ipotesi, senza nessuna evidenza che quella ipotesi possa in effetti diventare un fatto.
Preferirei, in sostanza, un mondo senza junk music.
Anche a costo di rinunciare a qualche futuro artista.
Perché, questo il punto, credo che a furia di mangiare male si finisca per riuscire solo a mangiare male, i gusti veri, sani, forti, quelli presenti in natura, per intendersi, troppo difficili da comprendere, troppo lo sforzo per affrontarli.
Con la cultura, nelle sue varie sfaccettature succede lo stesso.
Se ascolti troppa musica scadente, quando ti si dovesse parare di fronte una composizione tanto tanto un filo più complessa, finiremmo per non capirla, e comunque per non apprezzarla, lo sforzo di fermarsi e provarci sarebbe sfiancante.
Guardate cosa Berlusconi ci ha fatto con le sue televisioni private, a botta di tette di Tinì Cansino e discorsi orridi intorno al nulla di Uomini e donne, ci ha sostanzialmente lobotomizzato, col colpo finale e fatale, per altro autoinfertosi, perché lì che la sua vita politica ha subito la ferita mortale, che a furia di averci convinto coi reality che anche il primo stronzo può diventare famoso, pure in assenza di un qualsiasi talento, solo per il fatto di esserci e di dire qualcosa di estroso, ha come calcificato il concetto già fatto circolare endemicamente dalla rete che uno vale uno. Tutti possono fare tutto, chi se ne frega se sappiano farlo e abbiano poi qualcosa da dire.
A proposito del dire, discorso a latere, quello dei testi, da una parte l’impoverimento del lessico e dei contenuti della canzoni ha letteralmente analfabetizzato l’ascoltatore, che ora è avvezzo solo a ascoltare canzoni con un linguaggio sciatto e che non richieda nessuno sforzo di comprensione, dall’altro ha introdotto nel nostro lessico familiare dei vocaboli e di conseguenza dei pensieri che hanno a loro volta contribuito a impoverire il nostro modo di pensare e di sentire, nel senso di sentimento.
Se sento tutti i giorni testi che oggettificano le donne, e le trattano come subalterne, finirò per pensare così anche io, perché è vero che l’imprinting familiare fa molto, moltissimo, ma è pur vero che è negli artisti che scegliamo come nostri esempi durante l’adolescenza che proviamo a fare quell’operazione meglio nota come “uccidi i tuoi genitori”, non volendo ovviamente con questo tirare in ballo Pietro Maso e simili.
Certo, poi si potrebbe dire che da che mondo è mondo il discorso della musica dei giovani non piace alle generazioni precedenti, innescando una sorta di loop, ma qui sto provando a andare oltre, anche perché la musica dei Maneskin è musica che vuole iscriversi nel club dei rocchettari, quindi dentro una musica che già per noi nati alla fine degli anni Sessanta era stata codificata, non dico vecchia, ma sicuramente non nuova. Di più, loro, i Maneskin, non è che si siano presentati sulle scene, quelle di X Factor, prima, di Sanremo, ora, proponendo una loro versione del rock, ma rifacendosi, e quindi in qualche modo dichiarandosi eredi, di quel rock classico, chitarrone distorte e riff potenti, giri di basso indiavolati, colpi sui tamburi ossessivi e violenti, una voce roca al limite della patologia foniatrica, il tutto condito da certe pose da rocker già viste e straviste, ma che in Italia è sempre vista come roba nuova, pensiamo ai piccoli intermezzi da Tale e Quale Show di Achille Lauro per farcene un’idea.
Tutta roba derivativa, verrebbe da dire, alla Greta Von Fleet, non fosse che in realtà più che derivativa appare posticcia, simulata, come uno che decide di vestirsi da Zorro e poi, di colpo, pensa di essere davvero Don Diego de la Vega, o almeno il Don Diego de la Vega con costume nero e mascherina a coprirne il viso. Normale che si faccia riferimento al rock per come lo conosciamo, quello datato, pensando a loro, perché loro a quello dichiarano di appartenere.
Non ne sono nuova propaggine, ma semmai nuova ristampa, e quindi i paragoni sono loro stessi a invitarci a farli e i paragoni sono impietosi. Non sono rock, per loro stessa ammissione.
O meglio, come certi serial killer delle serie Tv americane, penso a Criminal Minds, si sono voluti far prendere, la scritta sulla scena del crimine lasciata col sangue su una parete parlava chiaro: Fermateci.
Dopo ci torno su. Promesso.
Per altro, va detto, trovo particolarmente singolare che nell’anno dell’invasione degli Ultracorpi, il cast di Sanremo pieno zeppo di nomi e volti sconosciuti al grande pubblico, l’ondata, no, scusate, ondata, come positivo, non si può più dire senza evocare qualcosa di orribile in agguato, tipo Apocalisse, la ventata del nuovo pronto a sconvolgere un meccanismo trito e ritrito, il Festival stesso. Che anche qui, fa piuttosto ridere che a parlare di rinnovamento sia uno che sta per condurre il Festival di Sanremo, giunto alla settantunesima edizione, e che per condurlo si è attaccato con tutte le forze alla necessità imprescindibile di farlo sempre e comunque, perché “la gente vuole Sanremo per essere nella normalità”, poco conta che i numeri risicati di ascolti gli abbia poi fatto cambiare il tiro, “la gente non guarda Sanremo perché è arrabbiata, magari ha perso il lavoro, sta male, e non ha voglia di guardare uno spettacolo leggero”, e fa anche ridere che a parlarne sia uno che nella sua lunga carriera televisiva ha sempre e solo incarnato quanto di più classico e stantio esista, il bravo presentatore di quiz e di varietà, roba che tutti ci auguriamo Netlfix spazzi via in maniera anche violenta.
Comunque, va detto, trovo particolarmente singolare che nell’anno dell’invasione degli Ultracorpi, il cast di Sanremo pieno zeppo di nomi e volti sconosciuti al grande pubblico, la ventata del nuovo pronta a sconvolgere un meccanismo trito e ritrito, il Festival stesso, a finire tra i primi tre posti siano stati nell’ordine, una band nata e costruita dentro un talent show, una coppia posticcia messa insieme tra una vincitrice del medesimo talent e uno degli ex giudici, e un cantante che si è fatto conoscere attraverso il Festival, prima tra i giovani e poi tra i BIG, un terzo posto e poi un primo posto in coppia con Fabrizio Moro, nell’ordine, quindi, Maneskin, Francesca Michielin e Fedez e Ermal Meta.
Come dire, nell’anno degli outsider vincono i classici, i televisivi, quelli “normali”. Del resto, il progetto Maneskin è davvero emblematico di questo. Vincitori morali di un’edizione di X Factor vinta da stocazzo, hanno poi fatto la gavetta che non avevano fatto prima, arrivando infine a Sanremo, portati a Sanremo dalla Sony, la major che ha in gestione il marchio e il programma X Factor, con ospiti della serata delle cover Manuel Agnelli, loro giudice a X Factor, recentemente tornato sui suoi passi, e quindi a incarnare quel ruolo, dopo averci proditoriamente cagato su volendosene allontanare, con una produzione curata da Fabrizo Ferraguzzo, che di X Factor è incredibilmente, chi lo conosce capisce di cosa parlo, direttore artistico.
Mancava giusto Cattelan a fare un cameo da qualche parte e sarebbe stata la perfetta cristallizzazione del mashup tra quei due mondi.
Un artista talent che vince a Sanremo. Solo che quando l’aveva fatto gente come Scanu e Marco Carta, va detto, tutti avevano gridato allo scandalo, al punto di cambiare il regolamento di voto per dare più peso a Sala Stampa e Giuria di Qualità, finché c’è stata, mentre stavolta sembra che tutti stiano lì a giubilare per la vittoria di questi ragazzini così rock, Ernesto Assante spero nel mentre abbia ricevuto le cure necessarie.
Certo, lì c’erano “a far l’amore in tutti i luoghi e in tutti i laghi” e il grande nulla, perché di Carta non è rimasto neanche il nulla, mentre qui, questo ritiene la vulgata, c’è il rock, di qui il grande entusiasmo di tutti, dai giornalisti al pubblico sui social.
Mettiamoci pure che sapere che ha perso Fedez, nonostante la moglie abbia implorato di votarlo, ha il suo peso, ma l’entusiasmo, nei fatti, si palesa in altra veste, ha vinto il rock, il ritorno del rock, i ragazzi che suonano in cantina, i ragazzi che torneranno a suonare in cantina, le chitarre vendute, la trap suca, insomma, ci siamo capiti.
Torno a parlare del rock, lo avevo promesso.
Il rock, quindi. E so che sto davvero rendendo alla perfezione il nome di una delle mie band di riferimento di tutti i tempi, i Butthole Surfers, ma ripeto, lasciatemi distrarre e distrarvi, il mondo non è poi questo posto accogliente che ci eravamo immaginati, e comunque le mie parole non sono tanto atte smontare la band di Monteverde, cui auguro di divertirsi da pazzi come del resto mi sembra stiano già facendo e una lunga e onorata carriera, quanto piuttosto smontare le convinzioni dei tanti boomer che si stanno raccontando di una nuova invasione controculturale al grido di “zitti e buoni”, che per altro, va detto, dopo Fai rumore è davvero una sorta di cristallizzazione della realtà odierna.
Ora, credo che, seppur si stia allungando il brodo al solo scopo di non pensare a altro, l’ho onestamente ricordato in esergo di questo capitolo del mio diario, il punto stia anche qui. Il rock. Io credo che Zitti e buoni sia, in apparenza, un brano rock.
Certo, rock annacquato, come lo è il punk dei Green Day, per intendersi, ma pur sempre rock.

Ci sono i quattro quarti, le chitarre distorte, i riff, i giri di basso, la batteria tosta, la voce gridata, già l’ho detto.
Solo che è una simulazione.
Un quadro fatto da un falsario, potrei dire, non fosse che spesso i falsari sono così abili da rendere irriconoscibili le proprie opere dagli originali, almeno a occhio non esperto, mentre qui si capisce subito che siamo di fronte a un falso. Se il falsario sia o meno a sua volta un artista credo che sia del tutto irrilevante, ripeto, lunga vita alla band romana, qui mi concentro su altro.
Mettiamola così, credo che serva un esempio esplicativo, perché se no sembra io stia tirando il can per l’aia senza voler affrontare il cuore del discorso, buttandola quasi sul personale.
Prendete una grande canzone, riconosciuta da tutti come una delle più grandi ballad di tutti i tempi, Let it be dei Beatles. Che sia opera d’arte è evidente, anche a orecchio inesperto. Bene, poi andiamo a cercare su Youtube la cover che di quella canzone ha fatto Nino D’Angelo, in altri frangenti artista da tenere in stima. La sua versione del classico beatlesiano, giunto a suggello della loro intensissima ma breve carriera, si intitola Gesù Cri.
Potrei fermarmi qui, immagino. Intendiamoci, la base è la medesima, quasi riproposta pedissequamente, almeno in partenza, ma, Santo Iddio, si intitola Gesù Cri, e il fatto che nel video lui la esegua con alle spalle la copertina di Rubber Soul, per altro, regala al tutto un tocco di puro non sense, di cui, immagino, non avremmo affatto avuto bisogno.
Ora, è noto, Nino D’Angelo è stato sdoganato, ci ha pensato prima Roberta Torre con Tano da morire, chiamandolo a scrivere la colonna sonora, poi Marco Giusti, il suo Sanremo con Senza giacca e cravatta, anno 1999. credo sia un vero gioiello, al punto da aver reso possibile rileggere con occhio diverso anche il suo repertorio neomelodico, il caschetto biondo, ‘nu jeans a ‘na maglietta, ciò non toglie che l’incontro tra un grande artista e una grandissima canzone ha portato a un aborto, una cosa inascoltabile, trash che neanche prova a essere altro da sé, quindi camp o opera d’arte alta. Magari in futuro succederà anche ai Maneskin. Oggi no.
Perché cito una brutta cover, un orrore, per parlare di un gruppo di ragazzi molto giovani che, suonando un brano in apparenza rock ha vinto Sanremo? Perché Zitti e buoni magari non è una brutta cover, la Gesù Cri del caso, ma rimane una cover non esattamente esaltante, la giovane età credo non sia argomento da buttare sul tavolo, perché se no sarebbe come dire che si può parlare solo della musica degli artisti adulti, salvo poi vedere vincere a mani basse gli artisti giovani. Zitti e buoni è quindi una cover, dicevo, ma non è la cover di una singola canzone, il che, nei fatti, rende la brutta cover ancora più brutta.
Perché, per quanto la signorilità fuori dal tempo di Andrea Laszlo De Simone lo abbia indotto a gettare acqua sul fuoco, era chiara la sua intenzione di non lasciare che sui ragazzi in questione si scatenasse una sorta di tiro al bersaglio, è evidente la stretta somiglianza di musica e testo tra la sua F.D.T., uscito a nome della band Anthony Laszlo, e Zitti e Buoni, il ritornello è praticamente fotocopiato, così come è evidente che il riff di chitarra, oltre che il giro di accordi, ma questo potrebbe anche essere il meno, è uguale a Plastic Hamburgers di Fantastic Negrito, certo, priva del groove e la cazzimma che un vero campione come Fantastic Negrito ha, ma praticamente copiata alla carta carbone.
Certo, qualcuno potrebbe provare a dire che nei fatti si è girato un accordo, rendendo vana una accusa di plagio, nello specifico si tratterebbe di “plagio d’intenzione”, quando cioè provi a copiare lo stile di qualcuno, non una specifica canzone, e un plagio d’intenzione in un genere che ha fatto di pochi elementi specifici la propria matrice è ovviamente difficilmente probabile, ma è un fatto che un riff è un riff, provate a citofonare a Robert Fripp, che con decenni di ritardo è riuscito a farsi pagare i diritti dei suoi riff composti e eseguiti per Heroes di David Bowie, prodotta da Brian Eno, e è anche un fatto che l’aggirare le accuse di plagio adoperando una strategia “furba” è cosa che lascia agghiacciati, considerando la giovanissima età dei protagonisti della querelle.
Così paraculi e cinici a venti anni, alla faccia dello spirito ribelle, questo confesso me li rende meno simpatici. Poi magari loro erano in buona fede, allora il problema è della loro discografica. Insomma, oggi non sapere è praticamente impossibile, non fosse altro perché Shazam fa esattamente quello che hanno fatto tutti durante il Festival, trovare le similitudini e sbattertele in faccia.
Ecco, resta la faccenda del testo, spacciato come atto di ribellione. Si è parlato di risposta a ipotetici professori che appunto dicevano sempre loro di stare zitti, una risposta gridata in mondovisione, figa, certo. Ma nei fatti, diciamolo, fa ridere tanto quanto le lacrime del rocker Damiano alla proclamazione della vittoria, in un passo del brano, uno dei pochi chiaramente comprensibili, perché per il resto è un via vai di pronomi che si rincorrono, confondendo l’ascoltatore, Damiano tira in ballo la mamma, per altro non come chi vuole attaccarla o, se si è rock si è rock, farsela, figuriamoci se c’è quel minimo di ironia, presente il “sono un ribelle mamma” degli Skiantos, no, qui la mamma è complice e comprensiva, “scusa mamma se sto sempre fuori”.
Un bluff, direi se volessi dare all’operazione più importanza di quanta non abbia.
Una simulazione di rock, dico invece, dando a Cesare quel che è di Cesare, un canone preso privandolo dei contenuti della matrice, senza alcun riferimento al substrato culturale che la matrice ha generato e le istanze che la matrice intende divulgare.
Uno che si veste da Zorro, facendo la zeta in aria con una spada di plastica cui produttori hanno anche appiccicato una pallina sulla punta. Detto questo, ribadisco, lunga vita ai Maneskin, ai loro venti anni, la loro voglia di fare casino, questo loro involontario salvarmi. Sì, esatto, salvarmi, perché almeno, questo parlarne qui e sui social mi distrae dal disastro che sta tornando a galla, poco non è.