Zabriskie Point, Michelangelo Antonioni racconta un’America tra storia e utopia

Il controverso film del regista ferrarese all’uscita nel 1970 fu stroncato. Oggi emerge la capacità di Antonioni di cogliere l’essenza dell’America a partire dai suoi spazi. Con sguardo non da sociologo, ma da poeta

Zabriskie Point

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Quando esce nel 1970 dopo una lunga e costosa lavorazione, Zabriskie Point, primo film americano di Michelangelo Antonioni, diversamente dal precedente e fortunato Blow-Up, fa un tonfo clamoroso. La stampa statunitense, indispettita da uno sguardo che non mostra un compiuto approfondimento del contesto, lo boccia in maniera inappellabile. “Un pasticcio piuttosto patetico, una gigantesca rovina di film, fatiscente e costruito alla bell’e meglio”, sentenzia Pauline Kael sul New Yorker. “Un film di sbalorditiva superficialità, un altro esempio di nobile impulso artistico che va in corto circuito in terra straniera”, dice Vincent Canby sul New York Times. E Roger Ebert: “Antonioni ha provato a fare un film serio e non ha raggiunto nemmeno un’intuizione all’altezza di una festa in spiaggia”.

A suo modo Antonioni già lo sapeva all’atto di accingersi alla sfida: “Non conosco un film girato in America da un europeo che sia un capolavoro, a parte gli europei trapiantati definitivamente. Sono molto dubbioso per il mio film. Non vedo perché dovrei riuscirci proprio io”. Ma cosa cerca di fare effettivamente il regista, aiutato da una nutrita squadra di sceneggiatori (Claire Peploe, Fred Gardner, Sam Shepard e Tonino Guerra) con la trasferta americana di Zabriskie Point?

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Zabriskie Point
  • Frechette/Hlaprin (Actor)
  • Audience Rating: G (audience generale)

Una risposta la dà, con la sua consueta chiarezza analitica, lo storico del cinema Gian Piero Brunetta. Posto come risultato della tetralogia italiana dell’incomunicabilità (da L’Avventura a Deserto Rosso) che “l’uomo antonioniano non è più centro e misura dello spazio e della realtà. Si muove e agisce con un rapporto di inadeguatezza e di asintonia rispetto agli altri e all’ambiente”, allora il regista sente il bisogno di allargare il suo scandaglio per “verificare su scala più vasta i suoi dati. Blow-Up, Zabriskie Point, Chung Kuo (Cina), Professione Reporter vogliono essere nell’insieme un progetto di fuga o di verifica se, mediante lo spaesamento, sia possibile ricomporre l’unità dell’individuo”.

E l’incontro con la fisicità, gli spazi sconfinati dell’America diviene il dato determinante che dà forma alla sua ispirazione. Roland Barthes scrisse che la qualità principale del cinema di Antonioni è nel “lasciare la strada del senso sempre aperta” in un’opera che non si chiude in una dimensione predeterminata ma che segue come unica regola il suo “modo radicale di guardare le cose”. Uno sguardo che non è quello analitico del saggista – “Non sono un sociologo, il mio film non è un saggio sugli Stati Uniti: si situa al di sopra dei problemi precisi e particolari di quel paese” – ma del poeta – “il film ha essenzialmente un valore etico e poetico”, dice Antonioni.

A definire la struttura di Zabriskie Point è l’incontro tra il particolare stile espositivo del regista – che non inscrive le storie in un cerchio perfetto di cause ed effetti concatenati – e la vastità di una geografia abbagliante, che sbriciola qualunque ipotesi di geometria narrativa. Sono i luoghi, sottolinea Antonioni, a dar forma all’ispirazione: “L’idea del film era maturata poco a poco in me nel corso della mia permanenza negli Stati Uniti: ma è la scoperta del luogo chiamato Zabriskie Point, nel cuore della Valle della Morte, che è stato lo choc cristallizzatore dell’opera”.

Sono gli spazi degli Stati Uniti a plasmare il metodo e la scrittura del film: “La sceneggiatura è stato un lavoro di cambiamento continuo, l’invenzione quotidiana ha preso il posto del lavoro preparato e programmato a distanza. D’altra parte come avrei potuto lavorare nel chiuso di una sceneggiatura rigida, quando l’ambiente del mio lavoro, l’America, cambia e si trasforma, persino in senso fisico, continuamente, e chiede quindi un cambiamento continuo?”.

A partire da questi elementi prende forma la “storia”: quella di Mark e Daria (gli esordienti non attori Mark Frechette e Daria Halprin), il primo uno studente che dopo aver (forse?) ucciso un poliziotto, ruba un monoplano; lei, segretaria part-time e (forse?) amante di uno speculatore immbiliare (Rod Taylor), che sta andando in auto verso Phoenix. I due si incontrano attraverso un singolare balletto di seduzione a distanza tra un aereo e un’automobile. Insieme raggiungono Zabriskie Point, nel deserto, dove fanno l’amore. Lui decide di riconsegnare il velivolo, dopo averlo dipinto secondo la moda psichedelica. Gli accadimenti però precipitano: allora Daria, una volta raggiunta la villa del suo datore di lavoro, saprà cosa fare.

La narrazione di Zabriskie Point non può che essere elusiva, ellittica, procedendo più per accostamenti che sulla base di una perspicua linea narrativa. Il racconto risente certamente del momento storico degli Stati Uniti, la controcultura, le battaglie per i diritti civili, cui Antonioni guarda con interesse e qualche simpatia, delineandole nella lunga prima parte dell’assemblea studentesca (in cui compare anche, doppiata da Monica Vitti, Kathleen Cleaver, membro delle Black Panthers) e degli scontri con le forze dell’ordine.

A dettare il ritmo del film però è una complessa stratificazione di sguardi. Quello dell’Antonioni documentarista, che registra abitudini, luoghi e oggetti (l’onnipresente teoria di cartelloni pubblicitari lungo le strade). Quello, ed è il lato più didascalico, del critico della cultura, che descrive sommariamente la strisciante violenza della maggioranza silenziosa (il razzismo dell’armaiolo), l’omologazione imperante, la cosificazione dell’essere umano (lo spot popolato di manichini che assomigliano ai volti in carne e ossa delle persone). Infine, lo sguardo non privo di lirismo del poeta, in cui la vastità metafisica del deserto di Zabriskie Point, punto di massima depressione della Valle della Morte, incenerisce il racconto come s’è andato fin lì delineando e sublima tutto nell’utopia scandita dall’eros di una comunità di giovani, comparsi dal nulla, che si liberano nella compiutezza di una sessualità panica e naturale.

Michelangelo Antonioni a Zabriskie Point

Zabriskie Point tiene insieme due piani del racconto agli antipodi: da un lato una società ossificata, appiattita sui consumi, dall’altro l’esplosione (letterale) di una dimensione altra, utopica e innocente. E ancora una volta, la dialettica degli opposti non è una supposizione teorica di Antonioni, ma gli è suggerita dalla singolare natura fisica dell’America. “Un paese di questa vastità – disse il regista – con queste distanze e questo orizzonte, non può non essere condizionato, nel senso del sogno, dell’illusione, della tensione, della solitudine, della fede, dell’innocenza, dell’ottimismo e della disperazione, del patriottismo e della rivolta, dalle sue dimensioni”.

E potrà anche essere, come rilevò Goffredo Fofi, che in Zabriskie Point Antonioni resta “un regista costantemente provinciale”, autore d’un testo slabbrato in cui “ha fatto ricorso alla sua vena, diciamo così, poetica, molto più che non all’analisi e alla sua concretizzazione essenziale e non riduttiva in soggetto, convinto come sempre di poter arrivare al fondo dei fondi dei problemi per istinto poetico”. Accusandolo poi di “cattivo metafisicismo”, di “tocco leccato di un fotografo di Vogue”.

Eppure a distanza di cinquant’anni, quando ormai le polemiche dell’attualità sono sopite, le semplificazioni storico-sociologiche del racconto non riescono a intaccare la felicità espressiva di un film in cui, come scrisse Giorgio Tinazzi, “la narrazione si tende attraverso i vuoti”, l’enigmatica bellezza delle pagine più celebri, dall’orgia (innocentissima) alla finale implosione della società dei consumi (immaginata, reale?). E trova conferma il talento specifico di Michelangelo Antonioni: che non è quello del filosofo che si interroga sul destino dell’uomo nella età contemporanea, ma del cineasta che quell’inquietudine esistenziale sa tradurla nella scansione di pieni e vuoti di un’impaginazione visiva che assorbe la sostanza fisica dei luoghi e delle cose, restituendola allo spettatore in una forma suggestiva e interrogativa.