Un non-coccodrillo per Luigi Albertelli e Andrea Lo Vecchio, a una settimana dalla morte

Nel giro di pochi giorni se ne sono andati due tra gli autori più importanti della seconda parte del secolo scorso


INTERAZIONI: 522

Scusa se non telefono, ho già il mio bel daffare a non morire.

Oggi potrei partire da qui.

Parole che evocano chiaramente una gamma piuttosto precisa di stati d’animo, il dono della sintesi che, immagino, avrete notato non essere esattamente il mio punto di forza. Infatti non sono parole mie, è l’incipit di una canzone di una bellezza disaramente, Bella speranza, di Ivano Fossati, contenuto in uno dei suoi lavori migliori, parere mio, Macramè.

Scusa se non telefono, ho già il mio bel daffare a non morire.

Parole precise, impietose, forse, comunque capaci di proiettarci nel giro di mezza strofa dentro un mondo emotivo, una storia, nello specifico la mia, in questi giorni.

Le canzoni, del resto, servono anche a questo, se non solo a questo. Almeno le belle canzoni. Ci regalano le note e le parole, anche le note sono capaci di veicolare emozioni, non credo sia necessario specificarlo, avete le orecchie e avete un cuore, fornendo a noi comuni mortali, e siatemi grato per essermi incluso nel gruppo, gli attrezzi per decodificare qualcosa che altrimenti non avremmo potuto capire, oltre che regalandoci le note e le parole per esprimere qualcosa che altrimenti sarebbe rimasto inespresso. Non è un caso, infatti, che ci si leghi a certe canzoni, a volte anche a certe canzoni assolutamente di merda, perché crediamo ci stiano svelando un nostro profondo sentire, ce lo stanno svelando, è evidente, anche se magari non era quella la precisa intenzione di chi l’ha scritta, la canzone in questione, finendo per capire la nostra vita attraverso le opere di qualcun altro, fatto di per sé singolare, non fosse che capita da che mondo è mondo in ogni dove.

Faccio una piccola digressione, credo necessaria. Giorni fa su Facebook, a furia di parlare di Clubhouse non vorrei pensaste che ho abbandonato quello che continuo a rimanere il social più adatto a me, dove continuo a stare e lavorare con più dedizione, giorni fa, dicevo, su Facebook ho letto un post e i conseguenti commenti che mi ha fatto riflettere. Era di Massimo Bubola, grande cantautore cui si devono, per altro, una bella porzione di quelle immaginifiche canzoni di Fabrizio De Andrè che, per motivi che mi sfuggono del tutto, quasi mai vengono ricondotte a lui. Una di queste, Don Raffaé, dall’album, Le nuvole, è tornata recentemente di attualità, essendo da sempre stata associata alla figura del camorrista Raffaele Cutolo, morto in carcere dopo lunghissima detenzione proprio settimana scorsa. Bubola, in sostanza, si è sentito in dovere di prendere parola a riguardo, sua la canzone, oltre che di Faber, per la parte di testo, per la parte musicale la firma è di De Andrè insieme a Mauro Pagani, ma ben sappiamo che Faber non può prendere più la parola, perché la canzone è stata travisata, distorta e interpretata molto lontano dalle sue intenzioni nei giorni in cui sui giornali, appunto, si è tornato a parlare di Cutolo. Bubola, legittimamente, è l’autore, prendeva le distanze da una lettura cronachistica della sua canzone, chiarendo che non era affatto sua intenzione parlare di Cutolo, citava esplicitamente alcune interviste rilasciate a riguardo, ribadendo come chi scrive canzoni non abbia alcun dovere verso la pedissequa adesione al reale, dovendo praticare la sintesi e la poesia in fase di scrittura, nel post fa esempi piuttosto circostanziati, ribadendo il sacrosanto diritto di un autore di canzoni di scrivere seguendo la propria ispirazione e il proprio mestiere, e rivendicando l’ultima parola riguardo quel che ha scritto. Tutto vero, ma anche tutto piuttosto discutibile. Perché Don Raffaè è uscita con Cutolo ancora vivo e iconograficamente identificabile come boss della camorra detenuto in carcere, esattamente come il Don Raffaè, nome ambiguo, della canzone. Per di più contrapposto alla voce narrante del brano, un assai meno potente Cafiero Pasquale, ammirato dalla regale potenza del Don Raffaè cantato. Quindi tutto vero, ma anche tutto falso.

Nel senso, è ovvio e quasi scontato che chi scrive una canzone abbia tutto il diritto di scriverla seguendo quel che decide di fare o può fare o vuole fare, come è evidente che lui sappia cosa vuole dire con quella canzone, e che quindi chi usa i fatti di cronaca tipici del giornalismo per raccontare le canzoni o per darne giudizio sbaglia, non necessariamente sapendo di sbagliare, ma è anche ovvio e scontato che le canzoni poi debbano passare al vaglio di due categorie che hanno a loro volta il sacrosanto diritto di giudicarle secondo i propri ruoli, dando alle canzoni medesime una lettura che non necessariamente coincide con quella dell’autore di canzoni stesse, parlo del pubblico, da una parte, e dei critici musicali, dall’altra. Dal discorso, convengo con Bubola, restano tagliati fuori i giornalisti, nel caso presenti solo in quanto pubblico. Glielo faceva notare, in maniera molto pertinente, il collega Paolo Talanca, anche se poi quel commento non l’ho più trovato (ero andato a cercarlo per riportarlo integralmente), che ha poi ripreso la faccenda qui, sottolineando come la lettura del brano da parte di un critico sia primaria anche rispetto a quella che potrebbe fornirne l’autore stesso, distinguendo quindi tra intenzione e interpretazione, conscio di come le canzoni poi debbano fare i conti non solo con l’ascolto ma anche col contesto in cui questo ascolto avviene, sfiorando non solo la critica ma anche la sociologia.

Stabilire un netto confine tra il compito dell’artista, l’autore nello specifico dell’opera d’arte, perché nella forma canzone è previsto anche che l’artista possa anche solo essere interprete, e il critico andava fatto, ben ha scritto Talanca, uno dei più validi tra i nostri critici italiani. Questa netta divisione di ruoli, per altro, mi fornirebbe anche il la per sottolineare come non siano gli artisti, autori o interpreti, o entrambi nella stessa figura, le persone preposte a esprimere una critica sulle opere anche dei loro colleghi, non è il loro ruolo e non è neanche detto che ne abbiano le competenze. Questo lo dico a beneficio di quanti utilizzano endorsement di questo o quell’artista per stigmatizzare magari una stroncatura, come se il fatto che Tizio o Caio abbiano detto cose diverse da quante espresse da un critico abbiano un qualche peso a riguardo. Non è così, e credo che a freddo nessuno potrebbe neanche pensare lontanamente il contrario. Poi, ma qui se continuo a aprire parentesi su parentesi, non ne usciamo più, ci sono intellettuali che ricoprono sia il ruolo di critico che di autore di canzoni, ma credo di aver spiegato in maniera sufficientemente chiaro il concetto, non saranno certo le deroghe previste a inficiarne l’efficacia.

A compendio di questo aneddoto volante mi sento di fare un esempio che utilizzo spesso quando voglio sottolineare come il pubblico tenda a fare di ogni canzone la propria canzone, fottendosene di quello che la canzone direbbe fosse presa alla lettera, quindi seguendo le intenzioni di chi le ha scritte, Meravigliosa di Francesco Renga. La canzone parla di una storia di corna, subite dal protagonista. Lei è stata via tutta la notte, e quando torna odora di lui, questo dice la canzone. Il fatto che sia un brano energico, rockeggiante, che lo canti Renga, un piacione sempre sorridente, all’epoca felicemente accompagnato da Ambra, una coppia che riempiva i rotocalchi, sorta di incarnazione hollywoodiana in salsa provinciale, e che si intitoli Meravigliosa, non “brutta stronza”, per dire, ha fatto sì che quella diventasse una gioiosa canzone d’amore, dedicata tra innamorati nelle radio private, scelta da fidanzatini come loro canzone del cuore, poco conta che si parli di un tradimento avvenuto alla luce del sole, anzi, della luna. Ha ragione Renga? Hanno ragione gli ascoltatori? Direi che, in questo caso, salomonicamente la ragione sta nel mezzo, come nel caso di Bubola. Esiste la verità di chi scrive, la verità di chi ascolta e la verità di chi è chiamato a giudicare. Don Raffaé non era un brano che intendeva celebrare Cutolo, Meravigliosa non è una canzone eleggibile a inno d’amore, ma entrambe possono essere pure quello, nello specifico Don Raffaé è una canzone destinata a rimanere e a rimanere indissolubilmente associata al boss morto di recente, Meravigliosa meno, immagino.

Quindi le canzoni hanno questo potere, attraverso la musica e le parole riesce a dirci quello che non eravamo stato di comprendere, oltre che a dire quel che non avremmo saputo dire con altrettanta precisione, questo a prescindere che le canzoni in questione vogliano dirci e dire esattamente ciò che noi crediamo ci abbiano detto e ci abbiano aiutato a dire e capire.

Scusa se non telefono, quindi, ho già il mio bel daffare a non morire, dicevo.

Questo incipit così devastante mi è tornato alla mente qualche giorno fa, non tanto per la sua ineluttabile aderenza col mio sentire di questo periodo, l’apatia immobilizza e quando si è immobili non necessariamente si riesce a andare a pescare le canzoni giusti in grado di raccontarci, quanto perché, stavolta su Clubhouse, e dove se no?, mi è capitato di prendere parte a una gradevolissima conversazione pubblica su Sanremo e sui testi delle canzoni di Sanremo, e a un certo punto, succede spesso così in questo social, il discorso si è spostato sugli incipit più prodigiosi, e ragionando sul tema non ho potuto che citare questa partenza così affilata.

Chiaramente, non dico niente di sconvolgente, nel parlare di incipit clamorosi, di quelli che bastano davvero poche parole per farti entrare direttamente in un mondo dettagliatisimo, nel quale è facile riconoscersi, almeno se i nostri stati d’animo coincidono con quelli che ci sembra di riconoscere, sto dando impropriamente alla parola una sorta di primato rispetto alla musica, sicuramente la melodia e l’armonia più che il ritmo, da noi considerato inspiegabilmente aspetto minore della parte compositiva, del resto questa è una sorta toccata spesso alla musica così detta d’autore, a discapito di genialità riconosciute come quelle di un Lucio Battisti o un Lucio Dalla, per fare due nomi, che i testi neanche se li scrivevano, nel caso del cantautore bolognese almeno per la prima parte della sua incredibile carriera. Del resto è ai versi delle canzoni che quanti di noi, di voi, io non rientro nel novero, decidono di fermare su pelle una qualche emozione  ricorrono, tatuandoseli in una bella grafia in punti ben visibili agli occhi degli altri, o sono i versi delle canzoni che finiscono per corredare le pagine bianche dei nostri diari, poche parole atte a fermare un momento specifico, questo non solo perché imparare a scrivere è sorte comune mentre sapere maneggiare un pentagramma no, proprio per questa supposta peculiarità di alcune canzone di poggiare buona parte del proprio peso sulle liriche, salvo poi finir per essere memorizzate più per la melodia che per le precise parti del testo.

Scusa se non telefono, ho già il mio bel daffare a non morire, quindi.

Ho passato una vita attaccato al telefono. Non dico che fosse la parte preponderante del mio lavoro, quella è sempre stata una parte che prevede che io sia per conto mio, a scrivere, a ascoltare musica, a leggere, ma sicuramente ci si andava vicino. Ore e ore ogni giorno. Ore e ore sempre immancabilmente camminando, al punto che mi capitava, sul telefono ho il contapassi, di riuscire a fare i miei dieci chilometri a piedi giornalieri anche senza uscire di casa, a volte, girando per le stanze mentre parlavo al telefono. Poi è successa una cosa strana. Le telefonate sono cominciate a essere sensibilmente di meno, e io ho iniziato a non rispondere più a parte delle poche telefonate che arrivavano.

Non ho la suoneria sul cellulare, o meglio, ce l’ho ma la tengo costantemente senza volume, anche volendo è raro che io risponda al telefono. In genere però, richiamo sempre chi mi chiama, almeno coloro il cui numero fa parte della mia rubrica, da che sono diventato mio malgrado un personaggio pubblico tendo a non rispondere a chi non ho buoni motivi per conoscere. Se uno vuole mi può scrivere un messaggio, mi capita di chiedere chi mi stia cercando, quando vedo che un numero a me sconosciuto reitera le sue chiamate, ma se non so chi è dall’altra parte difficilmente rispondo, spesso si tratta di call center o scocciature.

Ma ultimamente mi capita spesso di non rispondere anche alle telefonate di numeri che ho in rubrica, di persone con le quali magari non ho un rapporto di amicizia, agli amici richiamo sempre, ma di buona conoscenza. Non è misantropia, intendiamoci, né semplice apatia, è che, come cantava Ivano Fossati in Bella speranza, fatico davvero a trovare le forze per vivere o sopravvivere, non sempre ne ho a sufficienza per fare anche una buona conversazione telefonica. Men che meno con gente che lavora nel mio stesso ambiente, fatto che ci indurrebbe, lo so, a lamentarci delle chiusure ormai fisse da un anno a questa parte, della mancanza di prospettive, una sorta di requiem fatto a due voci di cui, ahinoi, le due voci sono le voci dei defunti le cui gesta dovrebbero essere celebrate nel requiem stesso.

Sono un orso.

Sono un outsider.

Sono un tipo eccentrico.

Sono semplicemente uno stronzo che se la tira.

Non so cosa si dicano coloro cui non rispondo al telefono e che non richiamo, credo che una cosa valga l’altra.

Durante la scorsa estate, quando cioè questo lungo, lunghissimo incubo sembrava, non era ma sembrava, attenzione, correre agilmente verso il gran finale ho ricevuto diverse telefonate da Luigi Albertelli. Non ho mai risposto. Non ho mai richiamato.

Io e Luigi ci siamo conosciuti qualche anno fa, quando lui ha iniziato a lavorare con una cantante che conosco da anni, Tania Furia. Un incontro curioso, il loro, lui autore tra le tante altre cose del brano Furia e lei che Furia fa di cognome. Qualcosa che potrebbe avere a che fare con la predestinazione. Nei fatti i due si erano incontrati, si erano conosciuti, si erano piaciuti e lui, Luigi, uno che nella sua lunga e interessantissima vita ha collaborato davvero con un sacco di gente, da Mina a Pappalardo, passando per Drupi, per cui scrisse le hit più famose, da Piccola e fragile a Vado via, a Sereno è, da Mia Martini a  Iva Zanicchi e Bobby Solo, per cui scrisse Zingara, Dori Ghezzi e Wess, per i quali ha scritto Un cuore e un’anima, Fiordaliso con l’epica Non voglio mica la luna, Vince Tempera, col quale ha scritto buona parte delle sigle dei cartoni animati che noi nati alla fine degli anni Sessanta, i primi cioè a crescere coi cartoni animati e i telefilm in tv, abbiamo amato, da Remi a Goldrake, passando per l’Ape Maia, Capitan Harlock, Anna dai capelli rossi, Daitan III e Mork e Mindy, oltre che aver ideato non saprei dire neanche quanti programmi tv, su tutti Telemike e Pentathlon con Mike Bongiorno, di cui fu anche notaio, oltre che avendo lavorato come autore tv per Chiambretti, la Dandini, Iva Zanicchi e Loretta Goggi, Luigi ha quindi deciso di produrre Tania, nome d’arte Furia, non prima di averle passato, così in genere fanno i maestri, tutte le competenze e le suggestioni del caso.

Sapendo che ero molto attento nel seguire le cantautrici, e sapendo che nutrivo (nutro ancora oggi) una grande stima per lei, Luigi ha deciso di fare quel che un produttore dovrebbe sempre fare, incontrare un critico musicale e metterci la faccia, presentando in prima persona il lavoro sul quale ha deciso di scommettere.

Che poi lui, Luigi, fosse anche un uomo di una vitalità e genio unico, autore di centinaia di canzoni, autore televisivo, a suo tempo anche campione di nuoto, era solo un dettaglio, ai suoi occhi, lui era Luigi Albertelli, produttore, io un critico cui presentare un lavoro. Ne è nato, impossibile non rimanere ammaliati dalla sua verve e in qualche modo sfiancati da tanta vitalità, un rapporto che nel tempo si è svolto a distanza, io a Milano, lui a Tortona.

Discontinuo, certo, ma immagino frutto di una reciproca stima.

Questo fatto, che uno come Luigi Albertelli, quello che ha scritto versi che potrebbero benissimo usati come suo epitaffio “Io non posso restare seduto in disparte, né arte né parte, non sono capace di stare a guardare…”, immortale inizio di Ricominciamo di Pappalardo, vedesse in me un suo referente mi ha sempre lasciato spiazzato.

Come del resto mi lascia spiazzato che ciò accada con tanti altri nomi di gente che ha letteralmente eretto il palazzo della nostra musica leggera, e certo non perché io difetti di autostima, non credo di dovervi rassicurare a riguardo, quanto piuttosto perché credo e credo fermamente, che certi nomi siano più destinati a far parte del mito che della vita quotidiana, seppur poi della vita quotidiana finiscano per far parte.

Al punto che, alle diverse chiamate di Luigi Albertelli, questa estate, non ho risposto. E non l’ho richiamato. Gli ho scritto un messaggio su Whatsapp, dicendo che mi sarei fatto vivo l’indomani, ma solo per fargli capire di desistere dal cercarmi, ma mi sono negato, vittima di quella sensazione di cui ho scritto sopra.

Leggere settimana scorsa che Luigi è morto, a ottantasei anni, mi ha colpito basso.

Non perché io mi senta in colpa per non avergli risposto, a ottantasei anni sarà stato abituato a trovarsi di fronte persone come me o nella mia medesima condizione, quanto piuttosto perché, su questo ragionavo oggi e di questo volevo scrivere e sto scrivendo, propria aver annesso alla mia quotidianità certi miti mi ha portato a darli per scontati, finendo per farmi sfuggire tra le mani le rare occasioni di confrontarmici, il tempo che passa e inesorabilmente rende questo tipo di incontri sempre più rari e difficili.

Mi era successo in precedenza anche con Delio Cogliati, autore di buona parte dei grandi successi di Eros Ramazzotti, tra le altre canzoni, conosciuto tramite il suo e mio amico Piero Cassano, suo antico sodale, tutti protagonisti della nostra canzone, veri miti viventi, ma in quel caso il rimandare un incontro era stato reciproco, e comunque non credo di dire nulla di particolarmente sensazionalistico se affermo che non sempre l’esperienza insegna, o la nostra vita sarebbe costellata solo di errori saltuari.

La notizia della morte di Luigi Albertelli, classe 1934, mi ha colpito basso, dicevo, anche perché giusto un paio di giorni prima, il 17 febbraio, è morto un altro grandissimo autore di canzoni, Andrea Lo Vecchio.

Autore tra le altre di parte del repertorio antico di Roberto Vecchioni, citare Luci a San Siro credo basti a dare l’idea, oltre che a brani per Mina, E poi…, Raffaella Carrà, Rumore, e tante sigle, anche lui come Luigi, da Gundam a Woobinda, passando per Judo Boy e tanti altri, oltre che ideatore e autore di tanti programmi tv, da Canzonissima a Drive In, con tutto quello che potete immaginare nel mezzo, persona curiosa e sensibile, sorta di artista rinascimentale come sembra un tempo fosse destino di chi finiva per entrare nel mondo della musica, io Andrea lo ho conosciuto di recente, già in epoca Covid, avendo entrambi una amica comune, la cantautrice Alessandra Machella, e avendo tutti e tre preso parte a una lezione a distanza, ora si chiamano Webinar, organizzata per l’Università di Macerata dal professor Massimiliano Stramaglia per il corso di Pedagogia sociale e della famiglia, dal titolo Ieri, oggi, la musica. Anche nel suo caso, quindi, a farci conoscere la mia attenzione verso il mondo della cantautrici, il professor Stramaglia ha studiato il mio vecchio libro su Lady Gaga e è stata Machella, già parte della prima antologia Anatomia Femminile, uscita dieci anni fa precisi, a fare da tramite.

Con Andrea abbiamo fatto alcune riunioni, sempre a distanza, lui con perenni difficoltà a connettersi, a capire come entrare dentro la piattaforma di condivisione video, sempre e comunque pronto alla battuta e a raccontare al volo aneddoti frutto di una vita intensa, sempre a contatto con l’arte, e poi abbiamo condiviso questa esperienza surreale, parlare a una platea di oltre trecento studenti, tutti nelle proprie stanze, in ciabatte, immagino, vicini ma, mai come ora, lontani.

Andrea mi è parso un personaggio degno della sua storia, non sempre accade così, forse un po’ perplesso per la china che la musica oggi ha intrapreso, i suoi settantotto anni usati come scudo più che come giustificazione per il suo faticare a capire logiche che, a ben vedere, tanto logiche non sono.

Nel giro di due giorni, tre, se ne sono andati, sono morti, usiamo le parole corrette di fronte a chi le parole ha sempre usato con tanta cura, due tra gli autori più importanti della seconda parte del secolo scorso, Luigi Albertelli, classe 1934, e Andrea Lo Vecchio, classe 1942. Entrambi recentemente hanno collaborato con due cantautrici, Luigi producendo Furia, Andrea firmando con Machella un libro di poesie scritte a quattro mani, L’amore è qui.

Andrea se n’è andato per il Covid, lo malediva solo poche ore prima della sua morte, indicandolo come una sorta di nuova peste che ti isola, e auspicando una vittoria imminente, vittoria che non è avvenuta. Io non amo scrivere coccodrilli, questo direi che non rientra affatto in quel genere di scritti, volevo però rendere omaggio a due grandi persone e a due grandi autori, ringraziando la sorte che me li ha fatti incontrare e conoscere.

A dimostrazione che l’arte è arte e che, come dicevo sopra, le canzoni non sempre rispondono appieno alle intenzioni dei suoi autori, o almeno non solo, vorrei chiudere questo capitolo del mio diario del secondo lock down con i versi della sigla finale di Goldrake, cartone animato che più di ogni altro ho amato da bambino, testo che ha Luigi come autore, ma che vi inviterei a andare a ascoltare nella malinconica versione del cantautore Alessio Caraturo. Si può cominciare a parlare di musica e di critica musicale citando Fossati e finire con Goldrake? Sì, evidentemente si può.

“Vai, contro i mostri lanciati da Vega/ Vai, che il tuo cuore nessuno lo piega/ Con te, la razza umana non morirà/ Invincibile sei, perché Actarus c’è/ Che combatte con te, dentro te/ Va, distruggi il male, e va”.