Il pop italiano avrebbe proprio bisogno di un Banksy

Mi piacerebbe che il mercato musicale fosse invaso di performance di artisti invisibili, magari col tempo riconoscibili, ma anonimi

Photo by Zeno Striga


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Si chiama evoluzione. Non necessariamente di progresso, comunque volendo anche di quello. Diciamo però che ci concentriamo sul concetto di evoluzione. La natura ci pone di fronte milioni di esempi.

Ne prendo uno a caso, che so?, le dita palmate. Quei volatili che sono soliti stare in acqua, le papere, le oche, le anatre, mai capita per altro la differenza precisa tra i vari generi, hanno le dita palmate delle zampe, sempre che si chiamino dita anche quelle delle zampe, perché così è più facile per loro nuotare. La natura si è adeguata a una comprovata necessità, per usare un giro di parole piuttosto in voga in questi mesi, e ha fornito a quei volatili il corrispettivo delle nostre pinne, nel senso di quelle che qualche scalmanato fissato col nuoto indossa per fare immersioni al mare, non certo mie. Senza le dita palmate quei pennuti avrebbero faticato di più, ma la natura, seppur leopardianamente matrigna, non aveva evidentemente necessità a bullizzare questi simpatici animaletti, e così ha provveduto. Del resto mai avrebbero potuto sfruttare poeticamente una ipotetica avversione della natura, che senso avrebbe avuto negare loro questa possibilità?

L’evoluzione, amici miei, l’evoluzione.

Ma potrei davvero farne a decine, centinaia, migliaia, milioni, se solo ne avessi voglia, e soprattutto servisse a qualcosa farlo.

Se un animale, o l’uomo, per dire, comincia a svolgere azioni che in precedenza non svolgeva, immagino accadrà prima o poi con le nostre mani, ormai dedite al touch sui device coi quali navighiamo, alla lunga la natura porta a micromodifiche nel nostro corpo, che col tempo, l’evoluzione di cui sopra, diventano permanenti, capace che tra qualche decina d’anni, l’uomo avrà  indice e pollice diversi da come le abbiamo oggi, sempre che ci saranno ancora smartphone e tablet e soprattutto che ci saremo ancora noi umani.

Qualcuno, non è questo il tema che vorrei affrontare oggi, quindi ne faccio cenno ma scappo velocemente altrove, potrebbe dire che quella che molti chiamano evoluzione sia in realtà involuzione, una sorta di condanna a morte che noi umani abbiamo comminato non solo al nostro stesso genere, ma a tutto il pianeta che ci ospita, la Terra, avevamo aria pulita e spazi sconfinati e bellissimi, ora tossiamo per i tubi di scarico mentre ce ne stiamo in coda dentro piccole vetture che ci porteranno a passare la giornata in qualche angusto loculo, involuzione, signori miei, ma converrete che per quel che sto per dirvi affrontare ora il nostro rapporto con la natura, rapporto sicuramente insano, è davvero troppo, non ce la posso fare.

Perché parlando di evoluzione, dell’uomo che di colpo diventa bipede e perde la coda e dispone il collo eretto, per non far stare la testa chinata, io vorrei concentrarmi su una routine che riguarda più nello specifico me, che della razza umana sono un rappresentante, certo rilevante, degno della vostra irreversibile adorazione, ma non certo capace di portare a nessun tipo di modifica del nostro corpo.

In casa mia abbiamo una sala.

Sticazzi, dirà qualcuno, anche legittimamente. Lo  dico non per vanto, c’è gente che magari di sale ne ha più d’una, né per metaforizzare chissà che, volevo proprio dire che in casa abbiamo una sala. E dentro questa sala, che è il luogo dove abbiamo anche la televisione, grande, quella che si guarda dopocena, quando si sta magari tutti insieme per vedere un film o, raramente, accadrà a giorni con Sanremo, nel mio caso per la prima volta da anni, un programma, dove si pranza o cena quando è un giorno di festa particolare o, questo avveniva prima della pandemia, una vita fa, quando ci sono ospiti, il tavolo è più grande che in cucina, la stanza pure, e dove ci sono due divani, posti perpendicolarmente, a formare un angolo retto con i braccioli, dove in genere ci si siede appunto per guardare la tv o fare conversazione con i famosi e ormai dimenticati ospiti.

Niente di strano, credo sia lo scopo delle sale negli appartamenti, quelli che hanno una stanza adibita a sala. In questi giorni di isolamento e smart working, di mia moglie, io ci passo anche parte delle mie giornate lavorative, usando quel tavolo grande per scrivere, ma questo è un dettaglio irrilevante ai fini di quanto voglio dire.

Abbiamo una sala, quindi, con due divani.

Uno è posto di fronte alla tv, alle spalle si trova la grande libreria che ospita i nostri libri (fatta eccezione per quelli dei figli, che sono nelle rispettive librerie nelle rispettive camere).

L’altro sta, guardando la tv, alla sinistra del divano posto di fronte alla tv stessa. In genere, la sera, quando ci si ritrova a guardare la tv, magari i figli lo fanno anche durante il giorno, almeno i più piccoli che ancora guardano quel vecchio elettrodomestico, i due adolescenti lo fanno giusto una tantum per far contenti noi genitori, loro che vivono attaccati ai device e sui social, in genere la sera, quando ci si ritrova a guardare la tv, tutti insieme nei giorni prefestivi, io e mia moglie Marina durante la settimana, verso le 22 e 30, le 23, prima è tutto un fare cose, sistemare cose, ecco, in genere io mi metto sul divano davanti la tv, Marina sull’altro. Siamo in due, ci stendiamo ognuno in un divano, lei guardando la tv di fronte, seppur da posizione laterale, io guardando la tv di fianco, seppur in posizione frontale. Per fare questo sistemiamo i tanti cuscini che abbiamo sui divani, otto in quello su cui si stende Marina, di colori che sfumano dal rosso scuro al giallo, tutti molto grandi, sette su quello in cui mi stendo io, che sfumano dal beige chiaro all’oro, tutti di proporzioni assai più ridotte. I divani, così, per la cronaca, sono marroni.

Siccome sono un uomo di mezza età, e quando si è uomini di mezza età arrivano certi acciacchi, la cervicale, il mal di schiena, e soprattutto i cuscini non sono affatto tutti uguali come a prima vista potrebbe sembrare, ce ne sono di più sottili, è evidente, io tendo a sistemarli sempre alla stessa maniera. Predo i quattro più sottili e li metto dove poi incrocerò i piedi, prendo i due più spessi e tosti sotto la testa, e il rimanente, per altro unico dorato, lo tengo a metà divano, sullo schienale, per appoggiarci il braccio sinistro.

So che starete pensando che io sia un pazzo sociopatico, uno di quelli che con buona probabilità tiene qualche vicino seppellito in cantina, di quelli che quando poi viene scoperto i conoscenti dicono “era una persona riservata, ma salutava sempre”, non mi sentirei di smentire il tutto categoricamente, fatta eccezione per la faccenda dei vicini sepolti in cantina, ma voi continuate a seguirmi, vedrete che questo mio parlare di divani e cuscini, dopo aver parlato di dita palmate delle anatre, ha un senso, esattamente come lo aveva, giorni fa, parlare del senso in cui va categoricamente posto il rotolo di carta igienica. Anzi, credo che questi due discorsi, come sistemare i cuscini e come porre correttamente il rotolo di carta igienica siano assolutamente correlati, parte di una metodologia che andrebbe raccolta in un manuale sull’esistenza umana, prima o poi magari lo farò. Mark Leyner sarebbe orgoglioso di me, ne sono fermamente convinto.

Vi ho perfettamente descritto la scena del crimine, credo.

Non siete mai stati a casa mia, immagino, ma potete ben immaginarvela. Questo almeno la sera, e per sera intendo in realtà la notte, perché le ventitré credo non siano esattamente catalogabili come sera, tanto più che dalle ventidue ormai da mesi vige il coprifuoco.

Comunque, la sera, lasciatemi questo vezzo, il quadretto che vi si porrebbe di fronte entrando nella mia sala sarebbe questo.

La mattina, però, succede qualcosa che, fossimo in natura, sarebbe descrivibile come un opporsi della natura stessa alla sua medesima evoluzione.

O meglio, come l’opporsi all’evoluzione della natura, quella che fa perdere le branchie agli animali che non vivono più tra acqua e terra, come gli anfibi, o che fa perdere la coda all’uomo man mano che assume la postura da bipede, come l’opporsi all’evoluzione della natura da parte di un fattore esterno, mia suocera.

Perché tutte le sante mattine mia suocera, che dall’inizio della pandemia vive con noi a Milano, come in una micro routine familiare, arriva in sala, mentre io sono già davanti al Pc, toglie tutti i cuscini dai divani, ben vedendo come sono sistemati, sono sistemati tutte le mattine esattamente come li abbiamo lasciati io e Marina la sera prima, quando spenta la tv ce ne siamo andati a dormire, toglie quindi tutti i cuscini dai divani, li appoggia sul tavolo, lo stesso tavolo sul quale è appoggiato il Pc sul quale sto scrivendo, tavolo fortunatamente abbastanza grande da contenere sia i cuscini che il Pc senza che i primi coprano il secondo, risistema i cuscini interni dei divani dando colpi secchi, atti a alzare gli acari, immagino, o forse frutto di una qualche vecchia credenza retaggio del passato, poi riprende i cuscini e li risistema, scombinando ogni santa volta l’ordine naturale delle cose.

Nel senso, ogni santa mattina i cuscini dei divani assumono una formazione diversa da come io e Marina li poniamo la sera, più io che Marina, va bene, lo ammetto. Due dei grandi cuscini giallo ocra che solitamente stanno nel divano dove sta Marina finiscono ai due angoli tra bracciolo e spalliera del divano dove di solito la sera mi stendo io. Gli altri cuscini disposti a incastro, quello dorato nel centro, sorte di chi è dorato e unico, credo. Puntualmente, poi, quelli che io tengo sotto la testa, i due più cicciottelli, più tosti, vanno dalla parte dove solitamente ho i piedi, quelli più sottili, per contro, finiscono sul lato della testa. Uno potrebbe pensare a una casualità, tutti i cuscini finiscono prima sul tavolo e poi tornano sul divano, ma siccome questo accade tutti i santi giorni, esattamente come tutte le sante sere la formazione ritorna quella giusta, non è ipotizzabile si tratti di casualità, la legge dei grandi numeri stabilisce che se l’ordine imposto da mia suocera fosse casuale almeno ogni tanto i cuscini tosti sarebbero al posto giusto, come quelli sottili.

Ora, torno a dire, non volendo ipotizzare che dietro questo scombinare ogni giorno le carte sul tavolo ci sia un preciso disegno di mia suocera, per altro sarei in caso curioso di sapere disegno di che, resta che mia suocera ogni santo giorno si trova di fronte a una precisa mappa genetica della disposizione corretta dei cuscini sui divani di casa mia e ogni santo giorno si ostina a scombinarla, costringendomi quindi, è ineluttabile, ogni santa sera a ridisporre i cuscini nella giusta e sola maniera possibile, quella che non mi faccia poi alzare coi giramenti di testa dovuti alla cervicale e col mal di schiena.

Ora, a parte aver traslato il vecchio detto “parlare a suocera perché nuora intenda” in un più contemporaneo “scrivere sul diario pubblico perché suocera intenda”, auspicando che mia suocera legga queste mie parole e la smetta di spostare i cuscini dei miei divani, o che magari lo legga qualche conoscente comune e glielo riferisca, facendosi ambasciatore dei miei pensieri, vorrei tornare a parlare di evoluzione, involuzione e di come, a volte sensatamente, a volte meno, ditelo a mia suocera, capiti un po’ a tutti di provare a contrapporsi all’incedere del tempo, al progresso, alla disposizione corretta dei cuscini sui divani.

Faccio riferimento a quel che ho scritto negli ultimi giorni, un diario ha in effetti la peculiare caratteristica di accompagnare le giornate, una dopo l’altra, così almeno quello che ho impostato io, esattamente un anno fa, trecentosessantasei giorni fa, il 2020 era bisestile, nel caso non si fosse notato, faccio quindi riferimento al mio aver scritto riguardo come l’avvento nel mondo di un social come Clubhouse dovrebbe forse influenzare la modalità con la quale un giovane artista dovrebbe porsi, o forse dovrei dire al mio aver scritto riguardo come l’avvento nel mondo di un social come Clubhouse ci ha detto riguardo come sia nel mentre cambiato il mondo stesso, e di conseguenza di come dovrebbe cambiare la modalità con la quale un giovane artista dovrebbe porsi, e il mio scrivere riguardo lo stretto rapporto tra provocazione e arte, intendendo con questo come la provocazione possa essere essa stessa arte, stando all’avanguardia altra via non è ipotizzabile, o come la provocazione possa essere modalità o messaggio dell’arte stessa.

Due discorsi solo in apparenza distinti, non a caso sono arrivati consequenzialmente, nella cronologia del diario, ma anche nel senso logico del diario, perché magari non lo avete notato, non siete tenuti a farlo, ma questi miei duecentotredici capitoli arrivati a voi nel corso dell’ultimo anno, tanti sono, in mezzo la pausa estiva, quando sembrava che ne stessimo cavando le gambe, poveri illusi, quel che ho provato a fare è stato costruire una narrazione coerente, letterariamente parlando, ma anche dal punto di vista di una mia visione della critica musicale, un lavoro forse eccessivo, massimalista nel senso deleterio del termine, ma sicuramente per me necessario, giunto a cinquant’anni fermare su pagina il mio pensiero sulla vita e sull’arte si era fatto davvero ineludibile.

Invisibilità e nome multiplo, anche’esso finalizzato all’invisibilità o comunque alla non facile riconoscibilità, da una parte, gesto provocatorio che si fa performance e quindi esso stesso opera arte, dall’altra, questa la sintesi. Sintesi che in apparenza potrebbe presentare delle difficoltà di percorso, delle incongruenze teoriche.

Come si fa a essere invisibili ma al tempo stesso provocatori, performativi ma non riconoscibili?

Alla prima frase è più facile rispondere, prendiamo il caso eclatante di Banksy. Nessuno sa chi sia, a parte quelli che pensano di saperlo, povero Robert Del Naja dei Massive Attack, diciamo che più che invisibile lui è anonimo, ma visibilissimo, le sue opere fanno bella mostra di loro sui muri delle città, altre le troviamo online, nei musei. Anonimo ma riconoscibilissimo, quindi, e decisamente provocatorio, anche per quel suo essere anonimo ma riconoscibilissimo, il fatto di non avere un nome certo contribuisce decisamente a dare un valore più alto, commerciale come simbolico, alle sue opere.

Diverso sarebbe, però, se Banksy non si rendesse riconoscibile, per lo stile, sicuramente, quella è la sua firma. Se cioè, ipotizzo, Banksy iniziasse a produrre opere assai distanti dal suo solito stile, o magari ne facesse in contemporanea di diverse, in luoghi diversi, confondendo quindi il fruitore tipo.  Le sue opere sarebbero meno di valore, parlo di valore artistico? Cioè, il non poterle ricondurre direttamente a lui comporterebbe questo?

Sarebbe lui meno provocatorio se, a fronte della scomparsa della sua firma, continuasse a apporre le sue opere in giro per le città?

Sono ovviamente domande che non hanno risposta, ma che mi spingono a aprire riflessioni anche in campo musicale, conscio che già è difficile, in Italia quasi impossibile, trovare artisti che in musica provassero questo tipo di situazionismo, facessero anche del loro esserci, del loro apparire, parte della propria arte.

Faccio un esempio, ancora una volta andando altrove. Giorni fa una mia cara amica mi scrive: “Ti hanno hackerato la pagina su Wikipedia”. Vado a vedere. È vero, inizia dicendo tutta una serie di cose infamanti su di me, roba di bassa lega. Leggo la pagina, è sempre piena di tutte quelle inesattezze che vi si trovano da che è nata, credo intorno al 2014, perché al 2014 è quasi del tutto ferma, salvo qualche piccola modifica arrivata nel tempo. Vedo che su c’è anche scritto che la “neutralità” della pagina è dubbia, perché ci sono frasi con “toni promozionali”.

È quindi vero, hanno hackerato la pagina. Ma non l’hanno hackerata a me, non l’ho scritta io, non mi interessa farlo, e non saprei neanche come si fa.

Però le frasi scritte sono proprio oggettivamente infamanti, quindi provo a registrarmi per toglierle. E scopro che il mio nome è già stato usato, risulto registrato.

A questo punto immagino che i toni promozionali e la non neutralità cui fa riferimento il cappello della pagina dipendano dal fatto che chi l’ha fatta lo ha fatto a mio nome.

Dio santo, potrei mai io dire che sono “un giornalista” e un “direttore artistico”?

Mi registro apponendo il mio cognome prima del mio nome, come in un verbale dei carabinieri. Funziona, Wikipedia non è esattamente sveglissima, in questo. Entro e tolgo le frasi infamanti.

Scorro con lo sguardo e vedo tutte quelle imprecisioni, quegli errori, quei fatti indicati come rilevanti di cui in realtà neanche avevo memoria, per contro mancano tante cose assai più importanti. Mi sanguina il naso, metaforicamente. Non ho la forza per correggere tutto questo.

O meglio, non ho la voglia di farlo.

È Wikipedia, non è che sia esattamente il luogo più verificato e credibile. Lascio tutto com’è, sembra che io sia morto nel 2014, ma essendo io vivo la cosa mi sembra davvero divertente. Anche considerando che io dal 2014 ho ripreso a scrivere di musica.

Leggo però l’ultima frase. Dice, a memoria, “è un grande appassionato di calcio inglese e tifa Millwall”. Ora, è vero, sono un grande appassionato di calcio inglese. Ne ho scritto, anche in diversi libri, e non ne ho mai fatto segreto. Ma tifo West Ham. Se la pagina fosse stata redatta dopo il 2014, quando cioè il mio aver ripreso a scrivere di musica mi avrebbe portato in tv, inizialmente come ospite fisso del DopoFestival di Savino e della Gialappa’s e poi a RTL 102,5, la cosa sarebbe stata evidente. Ho più volte esibito la mia felpa degli Hammers, al punto che proprio mentre ero a Sanremo in diversi mi hanno chiesto se fossi brandizzato dalla ditta che quelle felpe produce. West Ham e Millwall sono due squadre di Londra, e le rispettive tifoserie si odiano a morte. Gli Hooligans, nati proprio in seno ai tifosi del West Ham, hanno avuto nelle due tifoserie un grande bacino d’utenza, e gli scontri tra quei colori hanno spesso portato a feriti e arresti. Dire a uno che tifa West Ham che tifa Millwall sarebbe come dire a un appassionato di Frank Zappa che è un grande cultore di Alessandra Amoroso, forse anche peggio. Quindi chi ha scritto questa pagina, ripeto, ferma praticamente al 2014, sapeva del mio essere tifoso del West Ham e ha voluto dadaisticamente sfottermi mettendo nero su bianco una mia presunta passione per l’odiato Millwall.

Io ovviamente non sono un hooligan, che che se ne dica, e seppur appassionato di calcio non è che lo viva proprio come una questione di vita o di morte, Samp merda ora e sempre, quindi leggere questa cosa mi ha colpito assai positivamente. L’idea che ci sia stato qualcuno che si è preso briga di sfottermi, dopo aver redatto una pagina a me dedicata, mettendo quella frasetta lì, mi è sembrata una gran cosa, un gesto performativo di indubbio valore. Fatto nell’anonimato, la pagina, ripeto, credo sia stata redatta a mio nome. Questa, credo, a suo modo sia arte. Non credo neanche sia stata la stessa mano a scrivere l’incipit e il finale, troppa differenza di stile. Ma anche fosse, sarebbe quasi da perdonarlo, perché il finale è meritevole. Ciò nonostante lo cancello, credo di essere stato il solo a aver colto lo sfottò, lasciarlo lì non avrebbe portato a nulla di buono. Ho comunque apprezzato, campione, a buon rendere.

Tutto questo per dire cosa? Semplice, mi piacerebbe che il mercato musicale, uso la parola mercato perché credo che una operazione del genere andrebbe fatta nel bel mezzo del mainstream, sotto gli occhi di tutti, fosse invaso di performance di questo tipo, artisti invisibili, magari col tempo riconoscibili ma anonimi, che performino, anche andando a giocare con gli stili e le carriere degli altri, giocando con la mazza chiodata come col fioretto. Sarebbe provocatorio, certo, e artistico, ma sarebbe soprattutto divertente, e credo che mai come oggi un po’ di divertimento sia necessario più dell’ossigeno.

Millwall merda, ora e sempre, ovviamente.