C’era una volta la musica ribelle, alternativa al sistema

La trasgressione di facciata, esibita con tatuaggi, piercing e look provocatori, è la maschera sterile di un sentire e di contenuti allineatissimi

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È la musica, la musica ribelle
Che ti vibra nelle ossa
Che ti entra nella pelle
Che ti dice di uscire
Che ti urla di cambiare
Di mollare le menate
E di metterti a lottare
” (E. Finardi, “Musica ribelle”)

C’era una volta la musica ribelle, quella trasgressiva, “alternativa al sistema”, come, un po’ ingenuamente, si diceva. E c’era la star che, con la sua arte, voleva aprire nuove porte, destare le coscienze, sondare nuovi percorsi e far franare i confini.

Nel secolo scorso, ma non così trascorso, la musica poteva rispecchiare una cultura ma anche invitare alla rottura, sull’onda concettuale dell’arte che va oltre l’inosabile e allarga i campi del legittimo e del possibile. Ma sempre in nome di un’estetica, un’idea del bello. Perché ogni cultura, sistema e controcultura elabora un’idea di bellezza e la scaglia nel mondo a collidere con estetiche alternative, ciascuna ambasciatrice di uno dei mille aspetti dell’assoluto. 

In principio era il verbo, il suono, e la luce fu quando fu pronunciata. Ogni cosmogonia poggia su un suono che rompe il silenzio; in principio fu il tam-tam della foresta.

Ma, oggi, nell’epoca del postcapitalismo globale, nell’ultima fase della società dello spettacolo, dove ogni cosa è esposta in una vetrina virtuale e anche la musica è stata strappata dal suo habitat; oggi che la società e la socialità sono riversate in streaming nella bidimensionalità asettica di innumerevoli piattaforme, o sottoposte al potere del medium televisivo dove un nuovo artista si crea in tempo reale secondo la logica del grande fratello; oggi che ogni proposta originale, espressiva ma addirittura timbrica viene appiattita per raggiungere uno standard intercambiabile e quindi mercificabile, questa forma d’arte continua a conservare la sua funzione? E’ ancora voce dell’assoluto, dello spirito, in opposizione di chi ci vuole  another brick in the wall, o solo megafono del potere, piffero della conservazione, come è avvenuto anche in passato, ma mai in una forma così pervasiva?

Secondo Antonello Cresti, compositore, saggista e critico musicale, quest’espressione artistica è stata definitivamente asservita all’ideologia omologante della narrazione unica, allineandosi al diktat del potere. Un potere che non elabora un’idea di bellezza, perché la bellezza è inutile dove tutto è sottoposto alla logica dell’utile, e assolve piuttosto alla funzione di indurre una sorta di apatia dello spirito, di ovattamento di ogni spinta individuale, di ogni scatto di consapevolezza. E mai come oggi.

Il processo di apatia indotta, attraverso il medium musicale, procede, come spiega Cresti nel suo ultimo lavoro “La musica e i suoi nemici” attraverso varie fasi.

Marginalizzazione: musica a mò di tappezzeria sonora nei contesti più assurdi, utilizzata come supporto mnemonico delle proposte del mercato, strumento ipnopedico, o fattore di disturbo delle nostre attività, quasi a impedire (si pensi alle sale d’aspetto, al sottofondo ambient dei supermercati) ogni vera comunicazione.

Banalizzazione: scadimento della qualità della proposta musicale.

Ottundimento: apatia indotta dall’eccesso di stimoli, proposte, sollecitazioni.

E’ il paradosso delle infinite possibilità del digitale: nell’era analogica la curiositas, anche nel mondo della musica, aveva un valore euristico, ci si muoveva su più binari di ricerca e soprattutto la volontà di cercare c’era.

Oggi, nella società dell’accesso, il sovraccarico delle informazioni, degli stimoli, anche in ambito musicale, non aumentano la capacità recettiva e di creazione di senso, ma inducono quasi alla passivizzazione: si crede di avere tutto a portata di click, ma la certezza dell’accantonamento, del magazzino virtuale, rimanda continuamente la fruizione. Perché tra il desiderio e l’oggetto, afferma Cresti,si deve porre il cimento, il percorso, che solo crea conoscenza e accresce la bellezza. Quando tutto è dato, ogni curiosità si spegne.

L’ideologia odierna, che si sostanzia in una forma di totalitarismo soft basato da una parte sulla paura introiettata, dall’altra sul consumo, sempre più solitario e passivo, di contenuti standardizzati, non può albergare un’idea del bello quanto un’antiestetica fatta di disarmonia, di mediocrità. Tutto ciò che è alto, armonico, è un pungolo per la consapevolezza, la crescita, il risveglio e quindi anche sfida contro questa nuova normalità che di normale non ha nulla se non il fatto di essere condivisa. Se c’è una regia al di là della bolla, ci vuole ottusi, sonnolenti, passivi spettatori somministratori di un consenso social.

Che i musicisti si siano allineati o comunque abbiano taciuto, lo dimostra l’assoluto silenzio con cui le star sedicenti trasgressive si sono riversate nello streaming, uno dei più grandi colpi inferti alla musica dal vivo, silenzio osservato anche da piccoli gruppi, artisti locali, tutto un mondo che dovrebbe invece promuoversi in altre forme. In “Musica e virus”, un capitolo del testo citato, l’autore scrive che, parallelamente a quanto avveniva sui balconi, cantanti e star nostrane rilanciavano gli hashtag di regime come #iorestoacasa, senza prendersi la briga di arricchire i loro fan creativamente e, dalle loro ville, allietavano la reclusione con dei concerti casalinghi in diretta.

La trasgressione di facciata, esibita con tatuaggi, piercing e look provocatori, è la maschera sterile di un sentire e di contenuti invece allineatissimi, o , al limite, incapaci di protesta di fronte al massacro di un aspetto fondamentale della loro arte, la socialità. La verità è che chi ce l’ha fatta, amministra se stesso da tempo, con tutti i compromessi del caso; chi resta nella nicchia non ha il coraggio di azioni eclatanti a difesa della libertà, né nella dimensione personale, individuale, né, tanto meno, stringendosi in forma collettiva. Nuotare controcorrente è estenuante anche in senso artistico; oggi, opere come Kind of blue di Miles Davis (1959) o We insist! di Max Roach (1960),  un fenomeno come Frank Zappa non sono neppure immaginabili. Zappa in particolare, non ha mai rinunciato a scompaginare la narrazione ufficiale, con ogni violenza sonora, visiva, testuale, in ogni angolo della sua produzione e perfino postumo.