Chi ha paura di invecchiare dentro le proprie canzoni?

Fortunatamente molti artisti mettono il loro crescere, maturare e invecchiare nelle loro opere, cosicché noi possiamo continuare a riconoscerci in esse


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Cento di questi giorni. Quando ho iniziato a scrivere in questa strana forma che ormai, a distanza di quasi un anno, forse vi è diventata familiare, sicuramente è diventata familiare a me, mai avrei creduto di andare avanti così a lungo.

Avevo iniziato, era il 24 febbraio 2020, pensando di scrivere dieci capitoli di fila, come fossero i dieci personaggi del Decameron. Così lo avevo proposto in redazione, così lo avevo anche presentato ai lettori, c’era questa novità delle scuole chiuse, del consiglio perentorio di stare a casa, mi aveva ispirato quel grande classico della nostra letteratura, lì c’era lo spauracchio della peste a tenere i protagonisti appartatati, isolati, qui il Coronavirus, ancora nessuno lo chiamava Covid, bella storia, zio. Peccato che di lì a poco, neanche il tempo di finire quei primi dieci capitoli, dieci capitoli nei quali i riferimenti al Decameron si fermavano ovviamente al numero dieci, per altro i capitoli del Decameron erano cento, dieci a testa per i dieci conviventi forzati causa pandemia, oltre che al concetto di isolamento, ancora, anche lì, nessuno aveva mai usato la parola lock down, neanche il tempo di finire i primi dieci capitoli che ecco che arriva la chiusura di tutto, il lock down che nessuno chiama lock down, e di conseguenza la scelta, neanche troppo volontaria, di proseguire in questo mio diarieggiare.

Sapete come è andata a finire, da quel 24 a quando finalmente si è tornati a una semilibertà, ancora impossibilitati a lasciare la propria regione, ma comunque nella possibilità di spostarsi fuori dalla propria città, di riaffacciarsi in qualche modo alla vita, il 2 giugno, per altro mio cinquantunesimo compleanno, di giorni ne sono passati cento, e io per cento giorni vi ho accompagnato, lasciando la forma decameroniana, certo, ma mutuando uno stile, quello che state leggendo pure ora, che sicuramente letterario è, sull’essere coerente alla forma diario poi possiamo anche dibattere.

Per questo avevo pensato, credendo e sperando che quel lock down, e che quindi quel diario del lock down, fosse cosa archiviata con l’estate, per questo avevo pensato di raccogliere quei primi cento capitoli, oltre due milioni e trecentomila battute, una cosa gigantesca, chi scrive ben potrà capirmi, col titolo di Cento di questi giorni.

Mi sembrava, mi sembra tuttora, un ottimo titolo, per quel suo giocare con una formula solitamente utilizzata per augurare il bene a chi festeggia un compleanno, ma al tempo stesso per quel fermare in maniera chiara e incontrovertibile una enormità di tempo, oggi forse ci siamo abituati o rassegnati a questo, ma cento giorni anomali come quei primi cento giorni erano davvero qualcosa di incredibile e impensabile, nella nostra contemporaneità. Cento di questi giorni, quindi.

Tutto molto figo.

Quando quindi, a ottobre, ci si è parata di fronte l’eventualità, eventualità che ci ha lasciato sgomenti, spiazzati, devastati, di un nuovo lock down, di nuovo partito con le scuole chiuse, parlo da padre di quattro figli, ma poi riguardante un po’ tutto, la mia attività di critico musicale in parte non è mai ripartita, non essendo mai ripartito davvero il settore dello spettacolo, nel quale lavoro, o meglio, lavoravo o lavorerei, fate voi, quando quindi, a ottobre, ci si è parata di fronte l’eventualità di un nuovo lock down, lo confesso, e lo confesso per onestà intellettuale, una onestà intellettuale che un po’ si sta compiacendo, intendiamoci, non mi nascondo certo dietro a un dito, ho subito creato un folder nel mio pc, io scrivo col pc e raccolgo i miei scritti dentro folder, ecco, ho subito creato un foder nel mio pc dove ho raccolto i capitoli di questo nuovo diario e l’ho chiamato Altri cento di questi giorni.

Come sopra, non voglio autocelebrarmi, non più di quanto non faccia in genere, altra formula usata per fare gli auguri, con in più la componente agghiacciante di quell’ “altri” lì davanti, come a dire che cento ce ne sono già stati. Ho anche creato un altro folder, così, tanto per farvi familiarizzare col mio desktop, intitolato Cento e altri cento di questi giorni. Duecento giorni, converrete, sarebbe suonato meno inquietante, oltre che meno preciso.

Nei fatti, oggi, 13 febbraio 2021, ho pubblicato quello che è ufficialmente il centesimo capitolo di questo mio diario del secondo lock down, altri duemilioni circa di battute.

Ora, potremmo a lungo discutere, dibattere, pontificare sul concetto di lock down, arrivando, immagino, a convenire che quello che abbiamo vissuto negli ultimi mesi, comprese le vacanze di Natale, le zone colorate, le scuole ancora chiuse e poi aperte a singhiozzo, almeno le seconde e terze medie e le superiori, negozi, ristoranti, bar, tutti aperti in modalità smart, cinema, teatri e palestre chiusi e serrati, la cultura e il corpo sano non fanno parte delle priorità del nostro governo, almeno non di quello che c’è stato fin qui, sapete tutti che Conte si è ritrovato a precipitare nel vuoto, Matteo “Shock” Renzi a staccare la spina, presto sostituito dal supertecnico Mario Draghi, sostenuto praticamente da tutti, un plauso agli apritori di scatolette del Movimento 5 Stelle, passati in due anni dal “mai con questo e mai con quello” a aver governato praticamente con chiunque, Lega, Pd, Forza Italia, roba che mai si era vista prima, l’anticasta è un concetto ancora più labile dell’intonazione in certi generi musicali, arrivando quindi a convenire che quello che abbiamo vissuto negli ultimi mesi non sia esattamente un lock down, pur mantenendo tutte le rotture di coglioni e restrizioni di un lock down, ma senza averne il rigore e quindi senza portare agli stessi risultati, le deroghe e le possibilità di aggirare le regole talmente ampie da permettere a chiunque di fare quel che voleva, come se noi italiani in effetti necessitassimo di avere scappatoie.

Potremmo discuterne a lungo, ciò non cambierebbe lo stato delle cose, oggi pubblico il centesimo capitolo del diario del mio secondo lock down, quattromilionietrecentomila battute circa, e fossimo in altro periodo la cosa non avrebbe mancato di indurmi a una qualche roboante forma di festeggiamento e celebrazione.

Così non è, francamente non ho grande voglia di festeggiare, e anche essere adorato mi sembra fuori luogo, ve lo sta dicendo uno che ha sempre tenuta ben alta nelle casse I Wanna Be Adored degli adorati Stone Roses di Ian Brown, uno che non è che abbia vissuto il Covid e le conseguenti restrizioni in maniera esemplare, forse prendendo alla lettera il suo ruolo di rockstar, il rock non dovrebbe mai essere sistemico, su questo posso anche essere con lui. Non che mi capiti spesso, di questi tempi, di essere adorato, intendiamoci, in passato era sicuramente più consueto, optional del mio essere divisivo, corrosivo, eversivo, stai sul culo a un oceano di persone, ma hai anche un altro oceano di persone che ti amano alla follia, anche fosse lo vivrei quasi con fastidio, non è periodo di adorazioni, questo, più di apocalissi e distruzione.

È però sicuramente tempo di consuntivi, come con i compleanni, per certi versi, raggiungi una cifra tonda, ti fermi e ti guardi indietro, provando a capire lo stato dell’arte, magari anche a azzardare pronostici per il futuro prossimo e remoto.

Nel corso di un anno ho scritto duecentotré, perché nel primo diario ho smesso un po’ dopo la deadline, ai quali si sommano almeno una cinquantina, anche più, di miei pezzi extra-diario, una mole incredibile di parole.

Parole che non hanno trattato solo la musica, non lo facevo neanche in tempi di pace, ma che hanno ulteriormente spostato altrove la mia “poetica”.

Ho cominciato a trattare argomenti relativi al vivere familiare, la DAD, il rapporto coi figli adolescenti, cercando però sempre di riportare al mio “core business” i miei scritti, come in una sorta di esercizio di stile queneauiano. Il tutto mentre il mondo della musica si è piantato, fermato, è diventato agonizzante, sempre che non lo fosse prima, ha forse esalato i suoi ultimi respiri.

Una impresa epica, per certi versi, perché scrivere molto più del solito di un settore che, per contro, produce molto meno del solito è quasi un controsenso. Ho quindi parlato di tanta musica del passato, musica della quale, in tempi di pace, probabilmente non avrei avuto modo di parlare, più preso dall’attualità, dalla contingenza, e ho tanto parlato anche dei problemi della musica, la sua agonia, la sua morte, argomenti che in passato avevo trattato talmente tanto da essere quasi confuso come una sorta di Cassandra lì a indicare l’imminente fine, ma che nel mentre si sono verificati in maniera molto più veloce del previsto, la pandemia a dare il colpo di grazia, spingendomi quindi a una forma di pietà che in passato non ho mai dimostrato.

Lo confesso, da anni auspicavo una esplosione del sistema musica.

Ho provato a contribuire, nel mio piccolo, perché questa esplosione avvenisse, con le mie inchieste, le mie provocazioni, i miei pezzi. È arrivata invece un’implosione, il virus che da dentro ha inferto i colpi finali. Il che ha complicato ovviamente le cose, perché nella mia visione dall’esplosione si sarebbero salvati i buoni, questo auspicavo, via i cattivi, ripartire dal talento e dall’onestà. Così a morire sono stati un po’ tutti, i virus tendono a non fare distinzioni poetiche, con buona pace del futuro che ci attende e di noi che in quel futuro dovremo in qualche modo adattarci a vivere, probabilmente in assenza totale o quasi totale di musica.

Questo nuovo scenario, lo confesso, ha in qualche modo influito sulla mia attitudine, per dirla con Manuel Agnelli. Di star lì a menare le mani, in questi mesi, mi è andato assai meno che in passato.

Ha senso provare a abbattere alberi marci mentre la foresta sta andando in fiamme? Questo il dilemma amletico nel quale mi trovo al momento.

Magari è solo che sono invecchiato, e nel corso dell’ultimo anno, complice lo stare sempre a casa, il non poter portare avanti venti progetti in contemporanea, lo stare sempre nel mezzo del ciclone, sono forse invecchiato più di sempre, esponenzialmente, la tentazione di lasciare a altri il compito di smantellare le macerie per provare a ricostruire che si fa sentire tutti i giorni, la voglia di occuparmi solo dei miei interessi primari anche, avrete notato quanta letteratura ho infilato dentro i miei scritti, immagino, più che altro l’idea che è vero che a farsi gli affari propri si campa cent’anni, e io al momento di arrivare fino a cento grande voglia non ne ho, ma almeno a settanta, dai, sì.

La vecchiaia, e so che come sempre sto giocando coi paradossi, le iperboli, gli eccessi, ho solo cinquantuno anni e cinquantuno anni, al momento, sono abbastanza pochi da potermi far inoculare il vaccino AstraZeneca, figuriamoci se sono vecchio, è un tema che mi interesserebbe prima o poi affrontare seriamente, la vecchiaia in musica.

No, non mi interessa occuparmi di artisti vecchi, lo faccio già abbastanza, questo, convinto come sono che un Elvis Costello valga due milioni di cantautori indie messi insieme, per dire, ok boomer, mi interessa proprio come la vecchiaia entra nelle canzoni, parlo di testi, non di composizioni, o, per meglio dire, come non c’entra, perfetta sconosciuta nella poetica della stragrande maggioranza degli autori italiani.

Ne ho fatto cenno, a volte, quando anni fa scrissi una lettera aperta a Francesco Renga, per dire, quando ho avuto l’ardire di criticare la svolta tristemente giovanilista di Fiorella Mannoia, ho evocato un cantare canzoni, da parte loro, ma più in generale da parte di tutti, coerenti e attinenti alla loro età anagrafica, nel caso di Renga, oggi, cinquantadue anni, quasi cinquantatré, nel caso della Mannoia sessantasei, quasi sessantasette, lei per altro che ha trovato la consacrazione con una canzone nella quale si cantava proprio il passaggio a donna matura, Quello che le donne non dicono, canzone scritta da un uomo di trent’anni, Enrico Ruggeri, lei trentunenne a interpretarla, e che ora canta canzoncine superficiali scritte da un giovane uomo di venticinque anni come Ultimo invece, che so, di raccontarci come si vive in un corpo che invecchia, se Gwyneth Paltrow ha rivendicato il suo essere andata in menopausa, lei che ha sicuramente costruito la sua carriera per la bravura ma anche per la bellezza, perché non avrebbe dovuto e farlo e non dovrebbe farlo una grande cantante come la Mannoia?, mi chiedo.

Intendiamoci, quando ho scritto a Renga, esattamente un anno più di me, siamo entrambi di giugno, io del 1969 e lui del 1968, so che a un primo sguardo la cosa potrebbe apparire incredibile, non gli suggerivo di scrivere di terza età, figuriamoci, siamo ancora considerati abbastanza giovani, e lui sembra decisamente più giovane di me, ma gli suggerivo, lo faccio ancora, di occuparsi di temi più vicini al nostro vissuto, essere genitori, aver cambiato il nostro approccio ai sentimenti e, perché no?, anche al sesso, aver sicuramente cambiato il modo in cui guardiamo allo scorrere del tempo.

Se penso a me stesso cinquantunenne, ovviamente, mi ritrovo assai più in brani come Costruire o Le mani sugli occhi di Niccolò Fabi che in brani come Nuova luce di Renga, canzone per altra arrivata subito dopo quella mia lettera aperta, evidentemente non troppo ascoltata.

Ma andando oltre, ripeto, ho cinquantuno anni, non rientro anche volendo nella terza età, figuriamoci, mi ritrovo più in brani come Un Natale borghese di Ivano Fossati, una canzone di una bellezza abbacinante, sconvolgente, o L’ultima donna dei Decibel e Forma 21 di Enrico Ruggeri, la prima dedicata all’incedere del tempo in una vita e una storia amorosa, quell’incipit, “Ciao ciao, passa il Natale, l’aurora e l’avvenire” sta lì come un monito, per poi esplodere nei versi che più di ogni altro, a parer mio, “è un giorno freddo e chiaro e non sono invecchiati i tuoi fianchi perfetti, tutte le leggi dell’universo insieme che potevano fare?”, credo le parole più belle, perfette, per indicare come appunto col passare del tempo non solo non passi l’amore, ma ci si percepisca in maniera differente, corpo e anima, la seconda, musica di Silvio Capeccia, testo del Rouge, dedicata non a uno degli argomenti che ha occupato militarmente milioni di canzoni, il primo amore, lo stesso Ruggeri vi aveva dedicato la stranglersiana Il primo amore non si scorda mai, ma un assai più consono ultimo amore, quello definitivo, Forma 21 dedicata infine al momento in cui la vita finisce e si passa oltre, qualsiasi tipo di oltre sia, il titolo ispirato da una posizione del Tai Chi, quella che stava interpretando nel momento della usa morte Lou Reed. Ripeto, non intendo morire di qui a breve, non penso di essere sul viale del tramonto, sto maturando, mettiamola così, e lo sto facendo, ve lo raccontavo lunedì, con la donna con cui condivido la vita da trentatré anni, donna che trovo bella, sensuale, incredibilmente affascinante, oggi come allora, forse addirittura più oggi che allora, solo che di sentir cantare un mio coetaneo con le parole povere degli adolescenti, poche parole, sempre quelle, mi interessa davvero poco, al punto da riconoscermi, per dire, in un testo come Le mani sugli occhi che invece parla di un amore finito, così almeno l’ho interpretato io, quella che un tempo era passione, quel “non è più baci sotto il portone, non è più l’estasi del primo giorno”, in quel suo fare il verso al testo di Costruire cristallizza proprio quella cosa lì, salvo poi chiosare con “è una mano sugli occhi, prima del sonno”, il canto di una fine ineluttabile e ineludibile, accettata con affettuosa rassegnazione, dolorosa ma anche familiare, canzone che quindi non racconta me e Marina, certo, ma che usa una lingua che non posso che riconoscere come mia, che prova a descrivere un cambio di registro che, col tempo, tutti noi esseri umani dovremmo applicare, chi non lo fa, beh, ha un qualche problema col concetto di crescita, maturazione, guardando oltre potrei anche dire di evoluzione.

Ecco, se questi duecento e passa capitoli di diario mi hanno dato modo di scrivere, e di scrivere in un diario pubblico, non dentro uno dei miei libri a tema o dentro un blog, riguardo la mia famiglia, con tutte le sfumature che essere dentro una famiglia con quattro figli di età diverse, bambini, adolescenti, post-adolescenti, comporta, quello che vorrei trarre come spunto per iniziare a progettare il futuro è proprio concentrare la mia attenzione sul tema dell’invecchiamento. Non vorrei parlare di aging, c’è chi già lo fa con assai più competenze di me, e anche qui ben si potrà capire come io sia davvero incapace di monetizzare i miei interessi, perché l’aging sta davvero spopolando in chi si occupa di investire su un mercato assai ampio e destinato, nonostante un virus che proprio alla terza età ha inferto il suo colpo più duro e mortale, a ampliarsi nel corso del tempo, siamo un paese di anziani, dire di vecchi sarebbe poco carino, e l’aumento dell’età media è una prospettiva con la quale da anni ci siamo trovati a convivere, con buona pace di chi, giovanissimo, è convinto che quel che funziona tra i suoi simili sia il fulcro del mondo. Vorrei piuttosto provare a capire perché l’invecchiamento è assente ingiustificato dalle canzoni, provare cioè a allargare il discorso sui generi che da anni sto portando avanti con Anatomia Femminile.

Insomma, vorrei provare a imbastire un tavolo, niente di istituzionale, non fa per me, più qualcosa di fluido e movimentato, riguardo il tema, coinvolgendo chi le canzoni le scrive, sicuramente, come chi le canzoni le canta, perché suppongo che l’interpretare sia altrettanto influenzato dello scrivere dall’invecchiamento. Se vi è capitato di vedere le due stagioni di Il metodo Kominsky, su Netlfix, serie incredibile portata sul piccolo schermo da due giganteschi Michael Douglas e Alan Arkin, con una serie incredibili di cameo di prima grandezza, da Kathleen Turner a Danny De Vito, per dire, vi sarà più che evidente che raccontare la vecchiaia, l’invecchiamento, le assenze dei propri cari, e il convivere con quelle assenze, il corpo che cede, se Gwyneth Paltrow ha rivendicato il parlare di menopausa, il Sandy Kominsky interpretato da Douglas è un inno alla disfunzione erettile e alla prostatite, la paura della morte come il conforto nella memoria, tutto questo possa essere raccontato con grande ironia e poesia, come del resto fa in maniera incredibile il Bruce Springsteen del suo ultimo lavoro, uscito in piena era pandemica, The Letter, più poesia che ironia nel suo caso. Ecco, ambirei a vivere in un mondo nel quale ci siano artisti che non hanno paura di crescere, maturare, anche invecchiare. E che siano capaci di mettere questo loro crescere, maturare e invecchiare nelle loro opere, cosicché noi, che con loro e le loro opere cresciamo, maturiamo, invecchiamo, possiamo riconoscerci in esse, farle nostre, trovare le parole per dire quello che non riusciamo a dire, volendo anche capire quello che la vita in assenza di libretto di istruzioni prova a dirci tutti i santi giorni. Ora, scusatemi, vado a infilarmi di nuovo i miei occhialoni rosa da mosca, a farmi i due codini alla Frank Zappa e a parlare di cavalli che affogano dal buco culo, non sia mai che qualcuno pensi che mi sto immalinconendo, unico a farlo in un mondo di Goonies che si credono eterni e per sempre giovani.