Ho visto Soul, il film natalizio della Pixar sul jazz e mi è piaciuto

Concettualmente adoro il jazz ma quello da ascoltare non quello su cui teorizzare


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Come sembra molti altri, credo quasi tutti nella mia bolla social, ho visto Soul, film natalizio della Pixar disponibile su Disney +, e mi è piaciuto.

L’ho visto con tutta la famiglia, e devo dire che nonostante le notevoli differenze di età, la line-up passa dagli oltre settant’anni di mia suocera ai nove e mezzo dei gemelli, tutti abbiamo concordato che si tratti di un gran bel film. Avvincente e profondo, forse più profondo che avvincente, quindi a essere maggiormente colpiti siamo stati noi grandi, noi adulti, mia figlia Lucia, diciannove anni, compresa. Anzi, credo che lei, Lucia, sia quella che lo ha apprezzato di più, per questa lettura rassicurante e anche un pochino autoassolutoria che vuole la vita da vivere anche in assenza di talenti, fatto sacrosanto, intendiamoci, ma che in questa lettura sembra quasi una contrapposizione, o si vive o si ha talento e lo si coltiva, rischiando poi di rimanerci sotto, e mai come a quell’età non sapere se si ha talento o saperlo anche bene ma non aver voglia e/o coraggio di coltivarlo ha bisogno di un aiutino. Del resto Lucia è della generazione nata e cresciuta nella convinzione che non serva un talento per diventare famosi, e che diventare famosi sia ambizione da coltivare più che la ricerca e lo sviluppo del proprio talento, non parlo di Lucia, sia chiaro, dare quella particolare lettura del film è cosa quasi naturale, mentre per me, cinquantunenne che con il mondo dell’arte ha sempre avuto a che fare, l’idea che la visione dell’artista, la passione o consapevolezza dell’essere artista venga confusa con l’oscura trappola dell’ossessione, beh, è sembrato una lettura semplicistica della vita, ne parlavo giorni fa a proposito dei motivi che ha indotto Ivano Fossati a ritirarsi, come dire, bel film, ma poteva anche essere fatto meglio.

Ne consiglio comunque la visione, tanto più in famiglia, sarà occasione per affrontare certi argomenti con persone che appartengono a altre generazioni.

Non ho invece visto SanPa, film che della mia generazione parla sicuramente, non l’ho visto ancora, e in questo credo di essere l’unico della mia bolla a non averlo fatto. Non ho avuto né tempo né modo, ma accadrà, sicuramente.

Tornando a Soul, film di cui non intendo scrivere altro, quindi tranquilli che non spoilererò nulla, oggi vorrei provare a parlare di jazz, perché questo lo sa anche chi non lo ha ancora visto, Soul è incentrato, diciamo così, sulla vita più o meno monotona di un pianista di jazz.

Concettualmente io dovrei essere un grandissimo appassionato di jazz.

Anzi, concettualmente io sono un grandissimo appassionato di jazz.

Vi ho raccontato, sempre qui nel mio diario del secondo lock down, in queste pagine, di come il mio approccio alla musica sia essenzialmente teorico, quindi parta prima dal ragionamento che dall’ascolto, per questo mi posso prendere agio di dire che concettualmente sono un grandissimo appassionato di jazz.

L’idea dei canoni, gli standard, delle reinterpretazioni, delle improvvisazioni su di essi, delle collaborazioni che sfociano in jam, dello smontare e rimontare, spesso in maniera destrutturata, le radici e la tradizione, anche un certo atteggiamento snobistico nel non volere fare gli sconti a chi si approccia alla propria opera, voler essere disturbanti e conturbanti, tutta l’arte dovrebbe esserlo, ma anche un po’ incomprensibile, ostici, comunque difficili, un pretendere attenzione, molta attenzione, senza star lì a spiegare o fare sconti, tutto nel jazz, e so di averne dato una lettura quantomai spiccia, da Bignami, mi appassiona. Anche quel partire dalla tradizione orale, l’essere evoluzione intellettuale del blues, nato nei campi di cotone dove si schiantavano le schiene gli schiavi, al tempo stesso modo per tenersi vivi, per rivendicare un proprio orgoglio, per scaricare una propria vena erotica, per sfottere il potere, e quale potere è più potere di quello del padrone che ci tiene in catene, ripeto, scusandomi ancora una volta per le maniere spicce e decisamente troppo sintetiche, il professor Giampiero Cane con cui ne ho studiato al DAMS, mia incursione fuori corso atta a approfondire la cultura afroamericana che sarebbe poi confluita nella mia tesi sui rapporti tra afrocentrismo e hip-hop, in Storia Americana, mi tirerebbe dietro il libretto, bocciandomi impietosamente per questo, come probabilmente farebbe il professor Minganti, professore invece di Lingua e letteratura americana, ma non sto scrivendo un saggio sul jazz, non pretendete l’impretendibile da me, questo essere una delle evoluzioni della voce di un popolo per suo destino tenuto sotto, fermo questo concetto in una sola frase, manco fossi un pubblicitario, è parte della fascinazione intellettuale che il jazz ha sempre avuto nei miei confronti.

Non bastasse questo, e già direi che è tanto, tantissimo, metteteci quell’aura di maledettismo che per buona parte degli anni i jazzisti hanno incarnato assai meglio di quanto in seguito non faranno i rockettari. Gran classe nel vestire, certo, problemi di vario tipo con le dipendenze, si tratti di alcool o droghe varie, incapacità di relazionarsi in maniera adulta con l’altro sesso, ancora meno capacità di monetizzare un talento a volte addirittura immenso, se esiste una versione novecentesca del termine bohemien, non ho dubbi, è jazzista.

Non a caso, ma qui rischio davvero di andare fuori tema, il jazz ha in buona parte generato quella generazione di scrittori che col maledettismo tanto ha avuto a che fare, non che in genere gli scrittori del novecento siano famosi per il loro sobrio modo di affrontare la vita, parlo dei Beatnik. Tutti sanno, e qui continuo indomito a tagliare concetti e fatti con l’accetta, come Jack Kerouac, che col suo On the road dei Beatnik è senza ombra di dubbio lo scrittore più famoso e influente, per non dire proprio pop, fosse influenzato nel suo modo di scrivere da Charlie Parker, sassofonista considerato, altrettanto a ragione, come uno dei padri del Be Bop, non a caso poi finito nei versi di Allen Ginsberg, seppur nascosto tra le righe.

Nato negli anni quaranta, come precisa contrapposizione al successo che aveva incontrato il jazz delle grandi orchestre, le cosiddette Big Band, quelle di Glenn Miller, Duke Ellington e di Benny Goodman in testa, per altro infarcite di suonatori anche molto bravi  ma decisamente molto bianchi, il Be Bop, termine che ricrea onomatopeicamente il veloce passaggio tra due note, la velocità di esecuzione e la irritualità nello scegliere i passaggi armonici è senza ombra di dubbio la peculiarità di questo tipo di jazz, passaggio tra due note, per altro, spesso usate come “messaggio in codice” per chiudere il pezzo, le improvvisazioni a volte avevano bisogno di essere accompagnate verso la fine, due note, be bop, e si chiude, il Be Bop ha avuto in Charlie Parker, sax contralto, Dizzie Gillespie, tromba, Telonious Monk e Bud Powell, pianoforte, Kenny Clarke e Max Roachm batteria, i suoi padri fondatori, e nel categorico rigetto per tutto ciò che potesse suonare ruffiano nei confronti del pubblico, orecchiabile stando alle istanze di fruizione di massa, sempre e comunque ricercato, si pensi alle continue variazioni sui temi, ai ritmi sincopati e nervosi, alla frammentazione dei canoni da cui si partiva, spesso riconoscibili solo in pochi passaggi, quelli di apertura e di chiusura.

Del resto ci sono anche figure non legate al Be Bop che non possono non avermi affascinato, penso al jazz modale di John Coltrane, Dio mio, un titolo come A Love Supreme dovrebbe essere inciso a lettere di fuoco sulle facciate di tutte le sale da ballo, Coltrane in qualche modo germinatore di quello che poi sarebbe stato il free jazz, con Ornette Coleman e Charles Mingus come alfieri, tanto per fare un paio di nomi giganteschi, penso a una figura oscura e ostica come a Miles Davis, il suo jazz cool, suo e di Gil Evans, che ha rallentato i ritmi, ma non per questo lo ha reso meno affascinante, penso alla faccia da pugile triste e accartocciato di Chet Baker, la tromba, il labbro spaccato in una scazzottata, penso alle deviazioni mentali, nel senso che dalla mente erano partite, di Sun Ra, Steve Lacy o Pharoah Sanders, per arrivare ai tempi nostri, con figure quali John Zorn o Bill Frisell, ma davvero sto compiendo un piccolo sacrilegio, camminando con gli anfibi in mezzo a preziose opere di cristallo appoggiate in terra.

Concettualmente adoro il jazz, non c’è musica che concettualmente non mi sia più vicina, e se dicessi che nel mio modo di scrivere in apparenza così convulso, frasi lunghissime, decine e decine di relative, parole che ritornano, a creare una sorta di refrain, a volte anche cozzando con le parole vicine, come a fornire una sorta di substrato sonoro, se dicessi che nel mio modo di scrivere in apparenza così convulso, quasi un flusso di coscienza, che poi flusso di coscienza non è, non ne sarei capace, io, e probabilmente non sarebbe neanche possibile farlo, sempre che avesse senso provarci, se dicessi che nel mio modo di scrivere in apparenza così convulso non sia presente la lezione proprio di Jack Kerouac, lì a scrivere le sue parole ascoltando Bird, questo il nome con cui chiamavano Charlie Parker, andatevi a vedere il film che porta quel nomignolo per titolo che Clint Eastwood gli ha dedicato, immenso, beh, dicessi una cosa del genere mentirei, ben sapendo, però, io, che quella lezione, un po’ come Charlie Parker  e i suoi compari del Be Bop facevano con i canoni e gli standard black e jazz dai quali attingevano linfa vitale, è stato masticato, digerito e sputato nuovamente sul piatto, vomitato sul piatto, in forma nuova, marcescente, palpitante, mia.

Scrivo pensando come fossi un musicista, questo lo ammetto senza remore. Lo sono, del resto, un musicista, perché non dovrei farlo?

Cerco un ritmo e lo inseguo, provo a metterlo sulla pagina. Poi cambio, sviso, torno sui miei passi, corro, rallento, vado altrove, improvviso, sapendo cosa vado a improvvisare, dove voglio arrivare, quando sarà il momento di chiudere e come chiudere. Il jazz è lì, a fare da canovaccio, anche se il jazz è una musica, non uno stile letterario, e se il mio stile letterario, non solo Leroi Jones, o Amiri Baraka che dir si voglia, non risulta affatto jazz, andatevi piuttosto a leggere il suo classico Il popolo del blues, piuttosto.

Cito, Dio mio quanto cito, un continuo citare, come una frase che finisce in un solo, a volte in maniera dichiarata, a volte no, le citazioni non necessariamente devono essere colte e dubito ci sia un solo essere umano che abbia colto tutto quel che ho citato nei miei scritti, a volte non me ne accorgo neanche io (non è vero, mi andava giusto un attimo far finta di star qui a improvvisare, come in stato di trance, ma ho già dichiarato che così non è, scusate il glissato). Oltre che citare simulo, non nel senso che copio, questo non lo so fare e onestamente neanche mi interessa farlo, provo a simulare un mood, provando a ricreare un atmosfera con quello che scrivo, e provo anche a simulare un mood comunemente riconosciuto come tipico di certi contesti, come a voler utilizzare la scorciatoia di un ritornello piuttosto in voga per far almeno per qualche momento rasserenare l’ascoltatore, lì a riconoscere qualcosa di familiare e quindi a sentirsi un po’ meno solo e anche un po’ più parte del contesto.

Poi mi parlo addosso, sbrodolo in assoli narcisisti, cito me stesso, e cito me stesso che cito me stesso, impennando su una ruota, facendo il giocoliere, dimostrando o almeno provando a farlo di saper mettere una dietro l’altra le note giuste al momento giusto. No, non è vero. Ho mentito. Quel “provando a farlo” era una di quelle paraculate ruffiane che si infilano ogni tanto per fare l’occhiolino all’ascoltatore, dissimulare una modestia che, ci fosse, non mi vedrebbe scrivere come scrivo e scrivere cosa scrivo.

È il jazz, bella mia, la modestia è fuori da ogni discussione.

Concettualmente io sono un grandissimo appassionato di jazz.

Certo, non vesto con abiti gessati, non porto camice scure, non porto proprio le camice, non indosso cappelli Borsalino, se vi è capitato di vedermi da qualche parte, in rete come in tv, vi sarà saltato agli occhi. Non ho neanche la faccia da uno che ascolta il jazz, non almeno stando ai canoni tradizionali, pensa te, uso tradizionale parlando di jazz, per intendersi, non potrei assomigliare al Denzel Washington di Mo’ Better Blues, e non parlo certo per il colore della mia pelle, per dire, sono forse più scuro di un Charlie Mingus o di un Dizzy Gillespie. Se proprio dovessi cercare un look nel quale mi potrei riconoscere è proprio quello di John Zorn, che non a caso viene spesso indicato come un personaggio anomalo, quasi più rocker che jazzista, sicuramente hardcore, viste anche le sue tante collaborazioni crossover, da quelle con Masada a quelle con Mike Patton, passando per i Napalm Death, le esperienze dei Painkiller e dei Naked City metterebbero a dura prova anche il più impenitente dei metallari, fidatevi. Non vesto quindi come un jazzista tipo, ma concettualmente io sono un grandissimo appassionato di jazz.

Solo che a me il jazz non piace.

Ci ho provato tante volte a ascoltarlo, a farmelo piacere, ma niente, dopo un po’ mi stufo, mi annoio, addirittura mi infastidisco. Lo dico pubblicamente, non per vanto, né, tanto meno, per fare quello che vuole scandalizzare, il bastian contrario. Semmai per dimostrare che sono un pirla, ma magari già lo pensavate da un po’, magari lo avete sempre pensato, uno che sta qui a menare il can per l’aia col jazz e poi neanche lo ascolta.

Il fatto è che ci ho provato proprio perché ho un approccio teorico alla musica, e se una musica concettualmente mi interessa, in genere, poi mi affascina anche all’ascolto, ma col jazz davvero non ce la faccio. È più forte di me. Chiaro, se devo scegliere se ascoltarmi i Boomdabash o Cecil Taylor non ho dubbi, e i miei dubbi trovano un riscontro ferreo nei fatti, ma potendo scegliere, ecco, opto per altro, una qualsiasi altra declinazione della musica black, che rimane comunque nella sua quasi totalità la mia musica di riferimento.

Da grande appassionato di cultura hip-hop, concettualmente, e quindi della sua ai tempi principale declinazione musicale, il rap, ricordo la curiosità con la quale ho atteso che nel mio negozio di riferimento in Ancona, quello di Marco Cataldi che si trovava sotto la sede del Movimento Sociale, anche di questo vi ho già parlato, vedete che continuo a citarmi?, ricordo, dicevo, la curiosità con la quale ho atteso che nel mio negozio di riferimento arrivasse il progetto che vedeva l’MC dei Gang Starr, sorta di superduo composto da Premier, il dj, e Guru, l’MC, davvero tanta tanta roba, la morte di Guru, nel 2010, è stato per me un dolore non tanto diverso da quello che ho provato per la morte di David Bowie, arrivo a dire, ricordo la curiosità con la quale ho atteso l’arrivo dell’album dell’MC dei Gang Starr, Guru, dicevo, in compagnia di artisti della scena jazz contemporanea, gente quale Roy Ayers o Donald Byrd, per dire, Jazzamatazz Vol 1, il titolo di quel primo Cd, nel cui seguito, Jazzmatazz Vol 2, sarà poi la volta del poppissimo Bradford Marsalis e Ramsey Lewis Jr.

Tanta attesa premiata, intendiamoci, perché Jazzmatazz, figlio proprio di quel Mo’ Better Blues di Spike Lee cui facevo riferimento prima, film che ha una nella colonna sonora il brano dei Gang Starr Jazz Thing, primo punto di incontro tra rap e jazz, si potrebbe dire, siamo nel 1990 e il primo Jazzamatazz sarà del 1993, sempre che non si voglia anche legittimamente andare a indicare come fondamentale e fondativo The Revolution Will Not Be Televised di Gil Scott Heron, uno cui la cultura hip-hop e il rap deve molto, come del resto lo deve ai Last Poets, brano contenuto nell’album Pieces of a Man, del 1970, appena venti anni prima, tanta attesa premiata, dicevo, perché Guru è un gigante e le sue rime suonano su quelle note jazz come credo suonerebbe Dio nel momento in cui ha dettato i comandamenti a Mosè perché li scrivesse nelle tavole della legge.

Ma è soprattutto Guru a piacermi, il suo flow, la sua voce, le sue parole, per quanto in epoca pre-internet non tutte mi erano di chiara comprensione.

Quindi, grande Guru, ma il jazz no, ho proprio sempre faticato a ascoltarlo. Ecco, Gil Scott Heron lo adoro, lui sì. Il suo essere un proto-rapper, un cantante con una voce emotivamente unica, un cantautore, un jazzista, un poeta, un narratore, un oratore, nel suo caso tutto sta al posto giusto.

Il jazz no, non riesco.

Un paio di anni fa, per dire, sono andato coi miei amici fraterni Gianni Biondillo, scrittore, e Bruno Giurato, giornalista, colui al quale si deve in qualche modo la deriva autoriferita del mio modo di scrivere, a sentire il concerto dei due figuri citati prima, John Zorn e Bill Laswell, un concerto incredibile, tenutosi all’interno della rassegna JazzMi al Teatro Dal Verme di Milano. Due grandi artisti, John Zorn in jeans e t-shirt nera, Bill Laswell con un cappello da rabbino e un cappotto di pelle lungo fino ai piedi, che hanno suonato le loro cose per venticinque minuti, dando all’idea di “hanno suonato le loro cose” un senso compiuto, nel senso che raramente le note che il sax dell’uno e il basso dell’altro hanno trovato modo di interagire, si sono incontrate da qualche parte, salvo poi smettere, di colpo, ognuno per la sua strada esattamente come erano arrivati su quel palco, credo che se il concerto fosse durato un minuto di più, ventisei minuti, le mie orecchie come quelle di tutti i presenti avrebbero preso a sanguinare a fiotti per il dolore.

Esperienza incredibile, che però non ripeterei, per dire, ascoltando i medesimi brani a casa, seduto sul divano, in pantofole.

Ripeto, concettualmente io sono un grandissimo appassionato di jazz, nei fatti lo odio. E lo odio proprio perché, per una volta, quello che teoricamente adoro nei fatti non lo sopporto, o non lo capisco, e non lo sopporto anche perché non lo capisco. Se penso a quante ore passate nella cantina laboratorio di mio zio Giorgio, l’unico fratello su otto figli di mia madre, subito dopo che era prematuramente diventato vedovo, lui a fare i suoi lavori col legno, mago del bricolage come della cucina, io a tenergli compagnia, ascoltando i grandi classici, dalle Big Band al Be Bop, appunto, con lui che provava anche a farmi appassionare di quella musica raccontandomi aneddoti, spiegandomi passaggi per me incomprensibili, insomma, facendo quello che un appassionato di musica generalmente fa di fronte a chi ascoltando la medesima musica tradisce un certo disinteresse, quantomeno non mi viene da recriminare nei miei confronti, ho davvero fatto tutto il possibile, ce l’ho messa tutta.

Non escludo che a rendermi l’ascolto ostico sia stato proprio l’incontro col professor Cane, del DAMS, io che facevo Storia Moderna mentre era il DAMS che avrei voluto frequentare, il professor Giampiero Cane, non esattamente la persona più simpatica al mondo, per non dire che era proprio antipatico, ostico, refrattario, ma qui sto davvero esercitando l’esecrabile modalità di chi scarica le colpe sugli assenti.

Soul mi è comunque piaciuto. Anche grazie alla colonna sonora, di musica parla, anche, il film, scritta sorprendentemente da Trent Reznor e Atticus Ross.

Soul mi è comunque piaciuto. Meno di quanto non mi fosse piaciuto all’epoca Mo’ Better Blues, io amavo alla follia Spike Lee, e seppure quello fosse una prima deviazione sul percorso principale nella sua filmografia, poi avrebbe fatto anche qualche clamoroso scivolone, credo sia noto, mi ero davvero infervorato del jazz, iniziando una lunga relazione che non avrebbe poi portato a nulla.

Per questo, credo, non mi rimetterò ora, a cinquantuno anni, nuovamente a provarci.

Non passerò i prossimi giorni a tentare di farmi piacere all’ascolto qualcosa che, credo ormai potrei chiamarvi come testimoni a riguardo, mi piace solo concettualmente.

Perché magari a qualcuno potrebbe anche essere sfuggito, nonostante mi sia piaciuto Soul, nonostante io abbia adorato Mo’ Better Blues di Spike Lee, nonostante io abbia concettualmente adorato il jazz, il jazz, nei fatti, la musica jazz da ascoltare, non quella su cui teorizzare, beh, il jazz non riesco proprio a farmelo piacere.

E niente, Be Bop. È la fine.