Tra Kendrick Lamar e Murubutu, il rap non è poesia, o forse sì

La differenza che c'è tra la poesia e il rap di oggi è la consapevolezza di raccontare la verità uscendo dalla scorciatoia dell'autocelebrazione


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C’è un detto popolare che dice: i soldi vanno dai soldi. Se anche per i detti popolari vale la regola del “fino a prova contraria”, posso dire che quel detto popolare è ammantato di una certa saggezza, nasco da una famiglia non ricca, un tempo si sarebbe detto piccolo borghese, e non ricco sono rimasto.

Non solo, nel corso della mia carriera, parliamo pur sempre di una venticinquina d’anni, ormai, mesi più mese meno, ho perso parecchi treni che, fossimo al cinema, sarebbero stati i famosi treni per Yuma, carichi di oro e pronti da essere assaltati da banditi armati fino ai denti e assolutamente senza scrupoli. Ho anche detto dei no che guardavano in quella direzione, ma almeno quella è stata una scelta, dettata magari a volte più da orgoglio che raziocinio, ma pur sempre di scelte si parla.

Nei fatti, non sono mai riuscito a capire dove stava andando il grano, per dirla con un gergo che, quando sono arrivato a Milano, girava tra quanti si stavano buttando anima e pesce sul WEB. Ho giusto pescato qualche bel pesciolone mentre gli altri tiravano su reti pieni di ogni ben di Dio, ricordo che per circa sei mesi sono stato direttore artistico di una start up, grazie alla mediazione di Giuseppe Genna, mio amico fraterno nonché collega scrittore, ai tempi impegnato in quel piccolo miracolo online che rispondeva al nome di Clarence, e grazie alla mediazione generosa di Vito Mancuso, il teologo poi diventato piuttosto popolare, addirittura pop, a spendere mie parole a mia insaputa con chi quella start up stava guidando. Ricordo che Giuseppe mi diede la dritta, la società che gestiva il Mediolanum Forum di Assago, nonché il Palalottomatica di Roma e il Palamalaguti di Bologna, non ricordo se fossero esattamente i nomi di queste strutture all’epoca, parliamo esattamente di venti anni fa, volevano quotarsi in borsa, e per quotarsi volevano mettere online un portale di musica, tanto per dare un po’ di lustro comunicativo all’operazione. Serviva quindi uno che capisse di musica. Io. Andai al Forum, esattamente dalla parte opposta da quella nella quale vivevo, stavo all’epoca dalle parti di Corso Buenos Aires, e da quella nella quale lavoravo, avevo un ufficio in Mondadori, a Segrate, e uno presso la redazione di Tutto Musica, in centro a Milano. Andai al Forum e parlai con una signora svedese, della quale ricordo il nome, Elizabeth, ma non il cognome, qualcosa che aveva in mezzo qualche q accostata a altre consonanti improbabili. Ricordo che lei era il capo di tutta l’operazione e che al suo fianco c’era un tipo allampanato che poi mi sarebbe capitato di incontrare nuovamente sulla mia strada, e col quale in seguito, ma molto in seguito, sono diventato amico, quel Marco Pontini che ora è vicepresidente di Radio Italia, è stato proprio lui a dirmi che a convincere lui e Elizabeth a prendere me era stata la mediazione, ripeto, avvenuta a mia insaputa, di Vito Mancuso. Io Vito lo conoscevo di vista, perché lavorava alla collana di libri religiosi della Mondadori, al fianco di quel Ferruccio Parazzoli che aveva contribuito a sua volta col suo “placet” a farmi pubblicare il mio secondo romanzo proprio dalla Mondadori stessa, e con il quale avrei poi firmato, insieme a Giuseppe Genna, il romanzo a sei mani I Demoni, cover dell’omonimo romanzo di Dostoevskij, un amico dell’età di mio padre, Parazzoli, col quale mi sono sempre dato del lei e che ha decisamente contribuito a formarmi come scrittore.

Sia come sia faccio questo colloquio, sparo un po’ di minchiate, come immaginavo si dovesse fare a un colloquio di lavoro, e quando si tratta di chiedere la cifra per la quale avrei accettato l’incarico, con conseguente impegno a andare in sede almeno tre pomeriggi a settimana, non avevo alcuna intenzione di mollare l’ufficio presso la casa editrice, ho praticamente raddoppiato la cifra che prendevo per l’altro lavoro, pensando che avrei dato vita a una trattativa all’ultimo sangue. Siccome però i soldi vanno dai soldi, non dagli idioti, Elizabeth mi ha subito detto di sì, dimostrando che avevo chiesto una cifra decisamente più bassa di quella cui avrei potuto contare, comunque assai più alta di quella che mai avrei poi guadagnato in vita mia per un lavoro così poco impegnativo. Così mi sono trovato a passare tre pomeriggi alla settimana in un ufficio insieme a un tecnico WEB a elaborare il portale, approfittandone per vedermi anche tutti i concerti che passavano da quelle parti, roba anche piuttosto interessante, come le tre date del Drowned World Tour di Madonna, date delle quali ho visto anche tutte le prove, io da solo nell’arena, oltre lei, i suoi ballerini, la sua band, la piccola Lourdes Maria, Marina, mia moglie, incinta della nostra prima figlia a seguire una data dalla sala VIP, o Limp Bizkit, altri concerti non mi vengono in mente ora. Dopo sei mesi, messa da parte una cifra che oggi potrei definire importante, la società ha deciso di non quotarsi, e il portale è stato congelato, tanti saluti a tutti, ho ripreso a fare il mio lavoro di consulente editoriale e critico musicale per la Mondadori, bei tempi, quelli. L’ultima volta che ho visto Elizabeth era a casa sua, in una specie di castello dalle parti della Fiera di Milano, la vecchia Fiera di Milano. Suo marito, mi raccontò, di lavoro era architetto e designer di campi da golf, lei amministratore delegato del gruppo che non si sarebbe quotato in borsa. Il postmodernismo anche in quel caso non sarebbe riuscito a star dietro alla realtà, decisamente più fantasiosa.

Tornando a noi, non ho proprio mai capito dove andavano i soldi, quello è stato più che altro un caso isolato. E dire che di occasioni nella vita me ne sarebbero pure capitate parecchie.

Ricordo che una volta, per dire, avevo da poco pubblicato il mio primo libro, la raccolta di racconti dal titolo “furibonde giornate senza atti d’amore”, quando sono stato invitato a fare un reading a Bologna. Questa cosa dei reading per un po’ di tempo, anche prima di arrivare alla pubblicazione del mio libro d’esordio, e diciamo per i primi tre, quattro anni dopo, è stato un impegno costante, continuativo, poi sporadico.

Non suonavo più con gli Epicentro, la mia band hardcore di cui vi ho più volte parlato, ma ero solito fare reading accompagnato da un’altra band, per un po’, i Bali’s Kitchen, e in seguito mi sarebbe capitato a più riprese di farne con artisti anche del circuito mainstream, da Cristina Donà a L’Aura, passando per Malika Ayane.

Leggevo ovviamente in prevalenza testi miei, recitandoli un po’ alla maniera di Mimì, l’Emidio Clementi dei Massimo Volume, lo ammetto anche oggi candidamente, declamando a tempo, la voce che si faceva più profonda, quasi da attore. Io e Vittoria, la batterista dei Massimo Volume, eravamo stati per i cinque anni di liceo compagni di classe, a lungo anche compagni di banco, mi sentivo in qualche modo loro parente. A volte, raramente, leggevo testi di altri, da Raymond Carver a Brett Easton Ellis. Il mio stile alla Nanni Balestrini, del resto, in classe scritte in metrica, senza punteggiatura, ben si addiceva alla formula del reading, del resto, e stare su un palco mi è sempre venuto piuttosto naturale.

Quella volta, a Bologna, ero stato invitato da non so che circolo culturale della Bologna bene, per mezzo di Sergio Rotino, una vera e propria leggenda del mondo delle riviste letterarie, la sua si chiamava VersoDove, e credo di averci anche pubblicato un racconto, una volta. Con me, ricordo a stento, c’era anche Paolo Nori, che però ancora non aveva pubblicato nulla, avrebbe esordito di lì a poco con Le Cose Non Sono Le Cose, per Fernandel, altra casa editrice legata a una omonima rivista letteraria, e soprattutto quel Basso Tuba Non C’è che sarebbe arrivato in libreria per DeriveApprodi lo stesso giorno del mio primo romanzo Questa Volta Il Fuoco, già ve ne ho parlato.

Paolo Nori all’epoca era per me solo uno strano tipo che parlava in continuazione di romanzi russi, anche in quell’occasione avrebbe fatto ciò.

Il reading si teneva presso una qualche sala di prestigio del Comune di Bologna, a due passi da San Petronio, con una audience piuttosto attempata e visibilmente molto danarosa, oltreché totalmente composta da donne.

Io ero un giovane scrittore sperimentale molto arrogante, molto ambizioso e molto provinciale, vivevo con Marina a Milano da pochi mesi, era la primavera del 1998. Per cui il mio era l’atteggiamento tipicamente bohemien di chi vorrebbe assolutamente essere altrove e nulla fa per nasconderlo, puro disprezzo per gli astanti, anzi, le astanti neanche distillato a piccole dosi. Come ero solito fare a quei tempi decido di leggere quello che era il mio cavallo di battaglia dell’epoca, il racconto che avevo letto anche al Laboratorio di Scritture Ricercare, a Reggio Emilia, l’anno precedente, “un posto meno spaventoso”. Un racconto splatter a base di un risveglio acido nella casa del Mulino Bianco, spot piuttosto in voga all’epoca, con tutto un corollario di soubrette più o meno noto a fare da comprimarie, Sabina Ciuffini in testa. Un racconto duro, molto duro, che aveva fatto azzardare a Balestrini, nella postfazione al mio libro, un paragone con il William Gibson di Neuromante, ma credo a muoverlo fosse più l’affetto che altro.

Comunque sia, in quella prestigiosa sala del Comune di Bologna, di fronte a un audience di vecchie carampane, leggo il mio racconto. Non ho un accompagnamento musicale, il budget era generoso ma avevo deciso di tenerlo tutto per me, Milano si stava dimostrando più cara di quel che pensavo e il mi lavoro di allora, facevo sondaggi per l’Eurisko, cominciava a starmi strettino. Leggo il mio racconto e lo leggo anche bene. Mi prendo gli applausi e mi siedo svogliato a sentire gli altri. Non so bene perché ma anche nel presentarmi si sottolinea come io sia un ex Dj, fatto che in effetti era indicato nella mia breve bio sulla quarta di copertina di “furibonde giornate senza atti d’amore” e che poi Nori infilerà nel suo romanzo Gli scarti, lui ha raccontato per anni tutto quel che gli succedeva traslandolo in narrativa, il personaggio Learco Ferrari a indossare i suoi panni.

Finisce il momento delle letture, un cameriere passa con spumante e qualche stuzzichino. Dico spumante perché non sono mai stato ricco, perché nei fatti potrebbe tranquillamente essere stato champagne, il cotè era indubbiamente quello. Viene da me la signora che guida la baracca, lo si capisce da come tutti, a partire proprio da Sergio Rotino, è particolarmente ossequioso nei suoi confronti.

Viene da me e Marina, con noi c’è anche Daniela, una nostra amica dell’epoca che poi ci avrebbe ospitato, e si lascia andare a una serie di complimenti che, non fossi stato la rockstar che tutti voi conoscete e adorate, mi avrebbe dovuto far arrossire.

A un certo punto, e qui è il cuore del racconto, cuore che si lega a doppio filo all’idea che i soldi vanno da chi ha i soldi, è evidente, la signora mi dice qualcosa che suona suppergiù così: “Ci piacerebbe molto invitarla di nuovo a leggere le sue poesie, le trovo squisite”.

Ho appena letto un racconto splatter, in cui parlo di me che mi scopo qualche soubrette e poi la uccido. Non lo rileggo da anni, per autostima. La signora ricchissima che guida quella baracca, la vecchia carampana che guida quella baracca l’ha appena descritta come poesie squisite. A me è sempre piaciuta l’idea di turbare, disturbare, conturbare. Quando tenevo workshop alla Scuola Holden di Baricco, per dire, usavo come testo portante sulla forma racconto uno scritto breve di Joe Lansdale nella quale si raccontava di un gruppo di ragazzi che legavano alla macchina un cane, detto Scoreggia, andando poi a correre a alta velocità, col risultato che di Scoreggia non rimaneva a fine corsa che pochi pezzetti di carne sanguinante attaccati al collare. C’era sempre qualcuno che si sentiva male, durante la lettura, e abbandonava la lezione. La parola squisita non è mai stata parte del mio panorama ottico.

“Io non scrivo poesie, però, scrivo racconti.”

“Sì, insomma, ci piacerebbe molto invitarla di nuovo a leggere cose come quelle che ha appena letto, quelle poesie squisite.”

Di nuovo. Comincio a innervosirmi. Sono un esordiente. Nessuno mi ha ancora pagato per nulla di quello che ho scritto. Anni dopo avrei abbandonato la narrativa, proprio perché la narrativa non mi avrebbe mai consentito di vivere, ma una vecchia carampana che chiama il mio racconto splatter, poesia e pure squisita, converrete con me, è decisamente troppo.

“Mi lusinga, signora, che le sia piaciuto il mio racconto, ne ho scritti altri, ma sono racconti, non poesie, io non sono un poeta.”
“Racconti, poesie, è la stessa cosa”.

Probabilmente non aveva neanche tutti i torti. Non perché io ritenga che quei miei racconti d’esordio possano ambire al ruolo di poesie, e non si legga queste mie parole come a voler dire che le poesie siano oggetti letterari più alti dei racconti, intendiamoci, ma perché il mio emulare fin quasi al plagio lo stile di Nanni Balestrini, il loro essere scritti senza punti, in metrica, in lasse di quattro, cinque righe, potrebbe in effetti indurre a pensare che di poesie si tratti, o si trattasse.

“No, non sono la stessa cosa,” ho però risposto, mentre Marina mi malediceva con lo sguardo, povero idiota arrogante che non ero altro, “se volete sentire qualcuno che vi legga poesie chiamate un poeta, non me”.

La signora, va detto, denotando un’eleganza al limite della freddezza da killer che mi è capitato recentemente di riscontrare nel personaggio della Regina Elisabetta II di Inghilterra nella serie Tv The Crown, cui Marina mi ha sottoposto per settimane, io che sono anarchico e che avrei visto con assai più interesse una serie dedicata a Gaetano Bresci, regicida, la signora non ha fatto un plissé, mi ha sorriso, ha fatto segno di sì con la testa e, nel salutarmi, un’oretta e qualche bicchiere di spumante dopo, parlo per me, ha anche detto qualcosa che poteva lasciar intendere che in effetti mi avrebbero poi chiamato per leggere i miei orrorifici racconti splatter, altissima letteratura da non confondere con le poesie, cosa che stranamente non si è però verificata.

Come potrete ben immaginare, sempre che l’esperienza fatta sulla vostra pelle non vi sia sufficiente come prova empirica e dobbiate ricorrere appunto all’immaginazione, non ho poi optato per votarmi alla poesia, sposando in tutto e per tutto il postmodernismo e quella strana e per certi versi attualissima forma di scrittura che contempla una fusione, avrei voluto dire fusion ma da troppo tempo il termine fusion è latore di qualcosa di fighetto e inavvicinabile, si parli di musica come di cucina, di biopic, saggistica, letteratura e chi più ne ha più ne metta, il romanzo è morto, fatevene una ragione una volta per tutte.

Non ho mai scritto poesie, e anzi, considerando che mi sono avvicinato alla scrittura dalla scrittura di canzoni, la parte dei testi decisamente assimilabile alla poesia, non sto parlando dei testi scritti da me, parlo in genere, metrica, parole in grado di sopperire alla discorsività con l’evocazione, quindi la sintesi, direi che sono andato via via esplodendo, come avviene a chi lascia per troppo tempo la pasta a lievitare.

Non ho neanche mai letto molta poesia, anzi, a dirla tutta ne ho letta proprio poca. Ho sempre provato diffidenza in chi, potendo dirti qualcosa con molte parole, decide di farlo con poche, a volte anche meno. O forse semplicemente non ho proprio mai provato a affrontare la poesia, come lettore prima che come scrittore.

Ho però, e questo magari potrà sembrare sorprendente, a fronte di qualche parola non proprio benevola nei confronti di chi pratica il genere in Italia, fatte debite eccezioni, ho però molto amato il rap, una passione talmente forte da essere finita nella mia faticosissima tesi di laurea, tesi di laurea cui ho lavorato per un paio di anni e che non ho mai discusso, in Storia Americana, una tesi sui rapporti tra i movimenti afroamericani e la cultura hip-hop, io laureando in Storia Moderna, non storia Contemporanea, una sorta di rivoluzionario controcorrente o di idiota che aveva sbagliato a scegliere il corso di laurea al momento dell’iscrizione, a voi la scelta finale.

Ho talmente tanto amato il rap da iniziare a scrivere appunto come Nanni Balestrini, con la sua benedizione, alla disperata ricerca di una forma narrativa, di uno stile, che il rap simulasse, e che ne simulasse anche la ritmica, singole parole usate come i componenti della batteria, ripeto, roba sperimentale e arrogante, di cui quasi vergognarsi.

Certo, definire i testi delle canzoni poesie è operazione rischiosa, non solo perché molto spesso i testi delle canzoni non solo non sono poesia, non sono neanche testi di canzoni, quanto piuttosto accozzaglia di parole, poche e sempre quelle, messe lì seguendo neanche una logica troppo stringente, ma anche perché, penso invece alle canzoni belle, importanti, d’autore, i testi delle canzoni sono fatti per essere appunto i testi delle canzoni, legati a doppio filo con la parte musicale, a detta di alcuni anche un gradino sotto la parte musicale, si può quindi guardare loro come letterari, ma non poetici, altra parte di quel discorso.

I testi rap, in questo, si potrebbero aprire addirittura un discorso ulteriore, perché nati e prosperati senza avere un legame tanto con la parte armonica e melodica della base musicale, e la parola base nel caso dei brani rap è quantomai azzeccata, e il ritmo è sì componente fondamentale della poesia, hanno in qualche modo affrancato la parola dall’essere costretta a seguire una sorta di sudditanza nei confronti delle note, per altro non solo contribuendo alla nascita di una lingua nuova, gergale, uno slang che dallo slang di strada e dei quartieri arrivava ma che in qualche modo andava poi a sostituirlo, ma anche a un arricchimento del vocabolario stesso, dopo il Premio Pulitzer vinto per la sezione musica da Kendrick Lamar è ipotizzabile prima o poi un qualche riconoscimento puramente letterario per lui o altri suoi colleghi particolarmente attenti sia alla forma che ai contenuti. Sorprende, semmai, che non avessero ricevuto quel premio prima di lui nomi quali Mos Def, per dire, o Nas, ma potrei fare un elenco anche più lungo volendo. Lingua e contenuti, quindi, questo dovrebbe essere il rap.

Perché, diciamocelo, se un punto debole il rap ha avuto e mostrato nel corso degli ultimi anni, degli ultimi molti anni, è proprio per la parte dei contenuti, scaduti in molti casi nel becero maschilismo e nell’ostentazione di una ricchezza spesso figli proprio del successo legato all’essere rapper.

Di questo, anche di questo, parla un film che mi è capitato di vedere di recente, Love Beats Rhymes, su Netflix, un film che ha il producer del Wu Tang Clan come regista, RZA, e una rapper come protagonista principale, Azealia Banks, oltre che la presenza come comprimari di altri artisti urban come Common, Jill Scott e un paio di cameo di Method Man e Esperanza Spalding.

Il film racconta (anche) l’evoluzione artistica di Coco, interpretato dalla Banks, giovane rapper che comincia a frequentare all’università il corso di poesia di una inacidita Jill Scott e finisce per diventare non solo una brava poetessa, ma anche una rapper decisamente più consapevole e dotata.

Senza star qui a spoilerare la trama, vedetevelo come vedetevi anche Beats, sempre a tema rap e sempre su Netflix, il concetto che il film, ripeto, diretto da RZA, gigante della scena rap, è che la differenza che corre tra poesia e rap, almeno tra la poesia e il rap di oggi, è la consapevolezza, e quindi il raccontare la verità, possibilmente uscendo dalla scorciatoia dell’autocelebrazione, spesso dimostrata vicolo cieco che conduce solo alla sterile ostentazione dei propri veri e presunti successi, senza sfiorare neanche l’altrettanto ovvia strada del riscatto sociale.

Chiaramente il discorso, nel film, è giocato non tutto a favore della poesia, non potrebbe essere così, anzi, quel mondo viene descritto se possibile in maniera ancora più critica, non certo per una contrapposizione di consorteria tra accademia e strada, quanto più per una incapacità tipica del mondo accademico a stare al passo coi tempi, lo sguardo all’infinito va bene, sembra dire RZA, ma ci vuole anche quello all’immediato, e il rap, quando è ben fatto, può appunto essere quello, come lo può essere la poetry slam.

Parlando di poetry slam e non potendo quindi non consigliarvi di seguire a riguardo Lello Voce, i cui lavori con Frank Nemola sono davvero gioielli preziosi, dovrei ora aprire una lunga parentesi riguardo nomi che, nel nostro rap, parlo dell’Italia, hanno provato a fondere in effetti poesia e rap, dal mai troppo osannato Rancore, di cui mi picco di essere un estimatore della prima ora, a due nomi a alto tasso letterario quali Dargen D’Amico, da pochissimo tornato sulle scene con Bir Tawil, e Murubutu, le cui opere sono vere e proprie opere letterarie che utilizzano lo stilema rap laddove gli scrittori usano narrativa e poesia, si pensi a “Gli ammutinati del Bounchin’, ovvero mirabolanti avventure di uomini e mari” o l’ultimo “Tenebra è la notte ed altri racconti di buio e crepuscoli”, peccato giusto quella d eufonica, lasciando lì sullo sfondo l’ombra ingombrante di Frankie Hi NRG MC e di Caparezza, padri nobili del genere. Ma sono già andato anche troppo lungo, passando con agilità dai reading di Paolo Nori a Kendrick Lamar, RZA e Azealia Banks sulla sfondo, direi che per oggi posso fermarmi qui.