La Terrazza, il bellissimo film di Scola è il capitolo terminale della commedia all’italiana

Su Rai Movie alle 22.50 un cast eccezionale, Mastroianni, Gassman, Tognazzi, Trintignant, in un film spartiacque, che racconta la crisi di una generazione e della cultura maschilista. Mostrando anche la fine di un modo di fare cinema

Terrazza

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Intellettuali al massacro su una terrazza romana”, così titolava un articolo dell’Unità del 12 agosto del 1979, in cui Ettore Scola raccontava il film che stava girando, appunto La Terrazza. “È in sostanza il ritratto della depressione generazionale – confessa il regista al giornalista –, sulla terrazza regna un malessere inespresso, si tratta di situazioni, di stati d’animo, e non succede mai veramente niente”. E davvero il film, uscito nel 1980, restituisce questa sensazione di pantano, di scacco, a partire dal modo in cui è costruito.

Le varie storie che lo compongono, infatti, invece di essere poste semplicemente una dopo l’altra, secondo la struttura a episodi tipica della commedia all’italiana, germinano tutte dalla stessa sequenza, una festa sulla terrazza di un attico della Roma bene, alla quale il film ritorna sempre per raccontare di volta in volta, ripartendo da lì, la vicenda di alcuni invitati: il giornalista Luigi (Marcello Mastroianni), lo sceneggiatore Enrico (Jean-Luis Trintignant), il produttore cinematografico Amedeo (Ugo Tognazzi), il funzionario Rai Sergio (Serge Reggiani), il parlamentare comunista Mario (Vittorio Gassman).

Riandando e ricominciando sempre dalla festa, finiscono per ripetersi le stesse situazioni, riprese però dal punto di vista di un altro personaggio (a questa struttura Scola, che veniva già da un film scomposto tra vari personaggi e vari tempi come C’Eravamo tanto Amati, pensò dopo aver parlato con Gassman, che gli aveva raccontato la sua esperienza sul set de Un Matrimonio di Robert Altman, maestro nell’arte del racconto corale). E proprio da questo continuo riavvolgimento che riconduce sempre allo stesso punto, affiora immediata la percezione dell’immobilità, della crisi d’una generazione di cinquantenni, tutti maschi intellettuali di sinistra ben piazzati nei media, cinema, politica, che intuiscono di essere stati sorpassati dai tempi.

La Terrazza all’epoca piacque poco, penalizzato da letture comprensibilmente schiacciate sull’attualità. Le quali da un lato, nel giochino del chi è chi, cercavano di capire quali fossero i volti dietro i personaggi tratteggiati dalla sceneggiatura di Scola, Age e Scarpelli: il Corriere della Sera per esempio volle vedere Berlinguer nel Mario di Gassman (che esibiva una capigliatura alla Gramsci). Dall’altro, nel riflesso di un tempo che pareva raccontato in presa diretta, i critici lamentarono la parzialità del supposto affresco: valga per tutti il giudizio di Lino Micciché, che dalle colonne dell’Avanti scrisse che La Terrazzasembra e vuole essere una, sia pur sorridente, radiografia della condizione intellettuale e borghese, ma è soltanto un quadretto della condizione pseudointellettuale e sostanzialmente piccolo-borghese dell’intellettualità cinematografica”.

Col senno di poi invece, il film assume contorni diversi, crescendo enormemente nella sua portata simbolica sia di racconto di un’impasse generazionale, sia della fine della commedia all’italiana, genere che ha in questo film il suo de profundis, che si lega agli scricchiolii di un’industria del cinema che in quegli anni stava vivendo una crisi profondissima. Basti pensare che se nel 1975 i biglietti venduti furono 514 milioni, nel 1985 saranno 123.

E nel tracollo di un’economia si riflette e comprende meglio il senso di inutilità che affiora nel gruppo dei protagonisti. “Siamo tutti così vanitosi che vogliamo per forza o essere ammirati o essere disprezzati”, dice Sergio. E per questi intellettuali ben pasciuti, cresciuti nella cornice rassicurante di un mondo nel quale tutti si conoscono con tutti (l’allegoria della terrazza dei soliti noti che si incontrano, sempre gli stessi, a dire le solite cose), la tragedia è quella di non essere più, nel bene o anche nel male, al centro della scena. Ma non si tratta, appunto, d’una semplice crisi di mezza età, ma d’una crisi sistemica, il segno di tempi che stanno velocemente mutando, nei quali loro, non solo per ragioni anagrafiche, ma storiche e culturali, sono diventati inadeguati.

Tempi in cui le nuove generazioni, certo non aliene ai compromessi e capaci di coltivare furbescamente le relazioni giuste, premono alle porte per emergere – il regista tv che fa il Capitan Fracassa tutto diverso da come l’aveva sognato Sergio; il regista intellettuale cui Amedeo produce, per fare un favore alla moglie, un presuntuoso pastrocchio d’autore. E anche tempi in cui le donne, finalmente, cominciano ad acquisire autonomia professionale e psicologica. Come Carla (Carla Gravina), giornalista in ascesa che Luigi non riesce in nessun modo a riconquistare, perché chiuso – come tutti gli uomini del film – nel paternalismo della sua cultura patriarcale, che non gli consente di orientarsi nelle dinamiche dei rapporti di coppia della nuova era.

I protagonisti de La Terrazza non sanno che fare. Il progetto più coerente, ma nihilista nella sua lucidità disperata, è quello di Sergio, che mangia come un uccellino e finisce letteralmente per scomparire, consumandosi fisicamente. Lo sceneggiatore Enrico, assillato dal produttore Amedeo che gli sta sempre col fiato sul collo (“fa ridere, fa ridere”? gli chiede continuamente), non riesce a scrivere più nulla. Il problema però non è tanto la frustrazione professionale o l’esaurirsi della vena creativa, bensì proprio l’impossibilità di interpretare la nuova epoca secondo schemi logori e inadeguati. Mario, invece, si dibatte tra pubblico e privato, tra princìpi ideologici e aspirazioni individuali, vivendo un’avventura con una donna sposata, Giovanna (Stefania Sandrelli) cosa che gli fa capire tardivamente lo scollamento tra la cornice nobile ma angusta in cui s’è mosso tutta la vita e il suo desiderio di felicità (molto “piccolo-borghese”, per riprendere le parole di Micciché).

Al netto dell’astio verso giovani arrampicatori e donne in carriera, e anche dell’astio verso sé stessi – un po’ vero, un po’ recitato –, nessuno dei personaggi de La Terrazza sa approntare reazioni risolutive. Certo non si può andare avanti rabberciando atteggiamenti, storie e modelli del passato per accomodarli ai tempi nuovi: l’idea di Enrico di una sceneggiatura che metta alla berlina i nuovi conformismi è una minestra riscaldata, uno sguardo vecchio su un’epoca che sollecita altre categorie interpretative. Il passato tanto idolatrato poi, nessuno lo vuole guardare in faccia. Infatti nessuno dei pur influenti amici della terrazza stenderà una mano per aiutare il vecchio attore Galeazzo (Galeazzo Benti, autentico protagonista della rivista e del cinema degli anni di Totò), tornato dal Sudamerica nella speranza di trovare lavoro.

Così alla fine, nell’impossibilità di tornare indietro e nell’incapacità di andare avanti, l’unica cosa che si potrà fare sulla terrazza, dopo qualche sonora litigata che si sgonfia immediatamente, è lasciarsi cullare da una nostalgia farlocca, tra languori quasi senili per amori impossibili e il sentimentalismo a buon mercato delle canzonette intonate a squarciagola, che risalgono agli anni belli di quando erano tutti giovani e il mondo aveva contorni – pure ideologici – più netti e rassicuranti. Non che ci credano davvero. Ma non è restato loro altro da fare.