Bianconi, un matto nudo che guarda la luna

Forever è il nuovo album senza pudore di Bianconi, un lavoro che prova a uscire dalle dinamiche dell’oggi


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Abbiamo tutti, più o meno, creduto che saremmo diventati migliori, non nascondiamocelo. Magari solo per qualche istante, mentre stavamo cantando Toto Cutugno sul balcone, o quando vedevamo certe immagini che richiamavano uno spirito patrio e solidale. Abbiamo detto a qualcuno cui teniamo “andrà tutto bene”, non necessariamente inserendolo su un foglio con su disegnato l’arcobaleno e non necessariamente usando queste tre parole qui, ma mantenendo il medesimo basilare concetto. In cuor nostro sapevamo, e sappiamo, perché viviamo nel mondo e abbiamo una conoscenza più che superficiale dell’essere umano che ne saremmo usciti peggiori, che niente sarebbe andato bene, che tutto sarebbe precipitato in un pozzo di disperazione, ma per quella nostra innata capacità di sopravvivere a tutto ce le siamo detti, ci abbiamo creduto, siamo andati oltre.

Per i due mesi e passa di lock down abbiamo anche pensato che fosse il caso di rivedere le nostre priorità, e non parlo solo di quando andavamo a fatica a fare la spesa, il carrello troppo piccolo per contenere anche il superfluo, tutti a guardare il pane, in barba alle rose. Abbiamo rallentato giocoforza i nostri ritmi, ci siamo dedicati ai rapporti umani, che si trattasse di spegnere la televisione per parlare coi nostri cari o di provare a conoscere i nostri vicini di balcone. Ci siamo fatti le tinte per i capelli a casa, abbiamo imparato a panificare, abbiamo prestato più cura a quella pianta di gerani che da anni teniamo non sappiamo neanche perché lì, a fiorire a caso. Poi ci siamo illusi che tutto questo fosse solo dovuto a uno stato di shock momentaneo, che tutto fosse tornato come prima, noi lì a mandare a fare in culo quello che non è partito subito al verde del semaforo, a urlare il nostro odio nei confronti del mondo intero.

Mentre il baratro del dejavu ci si para davanti con lo sguardo malizioso di chi sta per dirci “pensavi di esserti liberato di me” ecco che esce uno dei rari album nuovi di questo anomalo e paradossale 2020, un album che, la memoria anche si è fatta labile, ma non quella degli artisti, sarebbe dovuto uscire a fine febbraio/ inizio marzo, un album che sembra però composto nei mesi successivi, fotografia perfetta di un mondo che ha necessità di rallentare, di fermarsi a pensare, di squarciare la tela per respirare dalle ferite. È Forever di Francesco Bianconi, più noto ai più per essere stato (essere tuttora, ma al momento fuoriservizio) leader dei Baustelle. Che Bianconi abbia capacità di scrivere musiche e liriche di valore non è certo una scoperta recente, sono venti anni che lo dimostra, una poetica talmente definita da risultare per alcuni di maniera, non per me, ma le dieci tracce di Forever ci dicono che forse in solitaria Bianconi è anche capace di andare oltre. Di farsi, appunto, fotografo del contemporaneo, seppur con quel gap temporale tipico degli artisti, capaci di intuire il futuro prossimo, anche con canzoni che invece rievocano un passato neanche troppo vicino a noi, quasi ottocentesco.

Confesso. Non avrei chiesto di incontrare Bianconi, sì, l’ho incontrato anche se nulla di quel che ci siamo detti troverete qui sotto forma di virgolettato, se non avessi avuto il piacere quasi fisico di ascoltare un sabato mattina “Certi uomini”, terzo singolo estratto dal suo album di esordio solista, terzo di tre e incaricato di presentare a tutti questa nuova uscita. Una canzone che evidenzia, già lo avevano fatto i due precedenti, ma ero distratto dalle cose del mondo, come Bianconi sappia usare le parole, anche con un eccesso di malizia, forse, e sappia soprattutto farsi gioco della metrica, cosa che nel repertorio Baustelle non trova mai spazio. Certi uomini è una canzone sul senso della vita, e detto così è come dire “parlami dell’universo” (cit.), tutta imbastita sul contrasto tra una panoramica  di piccolezze umane e una necessità di andare oltre, lasciare il particolare per l’universale, abbandonare il fisico per il metafisico. Ovviamente molti si sono piantati sul ritornello, nel quale Bianconi dichiara di voler tornare nella fica, da dove è venuto, e più volte reitera questo concetto, qualcosa di urticante, immagino, non vivessimo nella società nella quale viviamo, che però invita, così ho letto io la cosa, a fare un passo in avanti, non soffermarsi alla carne e interpretare le parole per quel che dicono. A me, sarà per quel suo modo di cantare neanche vagamente alla De Andrè, la cosa non ha né infastidito né colpito particolarmente, ha più colpito la carrellata di cui sopra, specie il passaggio nel quale Bianconi parla dei suoi colleghi (lui sostiene di essere parte del discorso, ma non gli crediamo) “i cantanti ucciderebbero per apparire in un programma in televisione/ dove i discografici morti della Warner, della Universal e della Sony/ poi gli pubblicano la canzone”. Un passaggio ostico, perché appunto la metrica è volutamente forzata, e perché quel che dice è in sostanza assai più che condivisibile. Un passaggio che ha fatto sbroccare il presidente della Warner, incidentalmente la casa discografica che pubblica i Baustelle, ferito da quell’essere definito “morto”, ma che in qualche modo ci dice una verità piuttosto conclamata.

Il fatto è che un album del genere, non fosse che a farlo è un artista con oltre venti anni di canzoni e di successi alle spalle, in Italia non sarebbe mai uscito. Perché è un album che rinuncia per scelta alla ritmica, e quindi all’ipotesi di passare in radio, ma è anche un album di canzoni lunghe, indicando in qualche modo la volontà di non finire nelle Playlist di Spotify. È un album che reclama attenzione, con una serie di ospiti internazionali che esulano dal novero delle mode, da Rufus Wainwright a Kazu Makino dei Blonde Redhead (a produrre l’album è Amedeo Pace, sempre della medesima band, ottima scelta), da Eleonor Friedeberger alla cantante marocchina Hindi Zahra, ospiti che, nell’immaginazione e immaginario di Bianconi vogliono creare contributi a un lavoro di world music che fuoriesca dalle strette maglie dell’etnico per appoggiarsi in quelle più larghe e veramente universali della melodia, ricordate l’Ottocento? Canzoni quindi che puntano a uscire dal tempo, rallentare non tanto e non solo il ritmo interno, ma anche quello di chi si approccia all’ascolto, come un atleta che rallenti i battiti cardiaci prima di una gara, Maiorca che si appresta a immergersi in profondità inaudite e mai più raggiunte. E se già L’Abisso ci indicava questa strada, poi cristallizzata dalla bellezza disturbante (forse toccherebbe dire perturbante, vallo a sapere) di Certi Uomini, sono tracce come Zuma Beach o The Strenght a imporci un sussulto, una sorta di nostalgia per qualcosa che in fondo non abbiamo neanche vissuto, l’euforia prima dell’ultimo respiro.

Ora, non sono bravo a fare le recensioni. Non sono bravo a fare un sacco di cose, nella vita, e semplicemente evito di farle, specie se non sono costretto e non trovo particolari stimoli a imparare a farle. Per dire, non ho mai fatto parapendio, non ho operato a cuore aperto, non so fare surf. Ecco, fare surf mi interesserebbe anche, mentre a fare recensioni non ci tengo proprio. Questa non è una recensione, infatti. Gli album vanno ascoltati. Ci si deve prendere del tempo e bisogna ascoltarli con attenzione, anche con cura. Se vi ha spinto a farlo la parola fica ben venga, anche se io ho una idiosincrasia per la parola fica scritta con a c invece che con la g. ma Forever è un album di canzoni canzoni, intessuto sul piano, sugli archi (il Balanescu Quartet varrebbe di suo il prezzo del biglietto), i fiati suonati da Enrico Gabrielli, è lui a suonare anche il mellotron e i sintetizzatori, canzoni che pretendono di uscire dall’oggi per iscriversi in uno spazio e un tempo altro, come se fossero stati partoriti proprio durante questi mesi anomali. In realtà, l’ho detto, sono precedenti, e sono frutto di un pensiero nato durante l’ultimo tour coi Baustelle, la voglia di testarsi in ambiti meno smaccatamente pop e iperpop, a nudo. Ecco, questo è un album senza pudore, nel modo di porsi spoglio, certo, parlo di suoni, ma anche nel modo di mettere le parole le une dietro le altre, spudorate, sfacciate, intime. Come se Bianconi avesse dovuto scrivere canzoni, le avesse registrate agli World Studios di Bath con Pace e quel manipolo di grandi musicisti, li avesse anche intessuti in compagnia di quei cantanti internazionali solo per mettersi nudo di fronte a uno specchio, noi nello specifico, come spesso capita nell’arte, quando cioè le cose che dici le capiscono prima chi le ascolta che chi le pronuncia, quando una verità diventa tale solo nel momento in cui la fermi da qualche parte, una tela, una pagina, una traccia audio.

Penso che oggi Forever sia un lavoro necessario, come lo è Cinema di Samuele di Bersani, e come lo sono altri lavori coraggiosi che provano a uscire dalle misere dinamiche dell’oggi per provare a guardare oltre il dito, puntando alla luna.