Ho letto un saggio di Tom McCarthy, incredibile narratore inglese mio coetaneo. O meglio, ho letto una sua raccolta di saggi, ma è di uno specifico che vorrei parlarvi. Anche qui, non sono preciso, è caldo, è estate, e vorrei essere in ferie, ho letto un saggio di Tom McCarthy contenuto in una raccolta di suoi scritti e uno mi ha fatto pensare a qualcosa che ora vi andrò a raccontare. Nel saggio McCarthy, che è mente sensibile e curiosa, prende in considerazione due differenti opere, per autori e anche per genere, che affrontano apparentemente il medesimo oggetto narrativo, o il medesimo soggetto, Zinedine Zidane. Il primo è uno scritto di Jean-Philippe Toussaint dal titolo La mailinconia di Zidane, il secondo un film, diretto da Douglas Gordon e Philip Parreno, dal titolo Zidane, un ritratto del ventunesimo secolo. Nel primo caso, in neanche una ventina di pagine, sufficienti comunque per dar vita a un testo annoverato dall’editore come libro, Toussaint racconta quella che presumibilmente è una delle partite iconiche del calcio di tutti i tempi, la finale dei mondiali 2006, vinti dall’Italia di Lippi ai rigori contro la Francia, ma entrati nella leggenda per un evento che praticamente nessuno, arbitro a parte, ha visto in diretta, né chi era a casa, le inquadrature riprendevano altro, né lì allo stadio di Berlino, la palla si trovava altrove, la famosa testata con la quale Zizou, così lo chiamavano, ha deciso di regolare certi conti con Marco Materazzi, reo di aver insultato sua sorella, scena che in qualche modo ha reso ancora più memorabile quella che Zidane, uno dei campioni di sempre nel mondo del pallone, aveva indicato come la sua ultima partita, finita anzitempo proprio per l’espulsione seguita a quel gesto di reazione. Una espulsione dovuta a un’azione avvenuta fuori scena, Materazzi neanche è citato nel libro, azione che ha negato l’idea stessa di addio, un finale anticipato, violento, l’uscita di scena silenziosa, la coppa a fare da contraltare a suo incedere cupo, il cartellino rosso che si trasforma in nero, la malinconia evocata nel titolo a occupare militarmente la scena. Nel secondo i due registi decidono di seguire per una intera partita del Real Madrid in Liga il calciatore francese, diciassette telecamere costantemente puntate su di lui, a prescindere che fosse dentro l’azione, in possesso di palla. Un documentario, questo potrebbe indicare il titolo, su un grande campione, o un ritratto non tanto del campione quanto del ventunesimo secolo, appunto, i media che ci seguono costantemente, secondo dopo secondo, mettendo in evidenza i nostri pregi ma anche i nostri difetti, raccontando i nostri tic, i nostri tempi morti, le nostre azioni geniali e le nostre espulsioni, perché anche quella partita si concluderà alla medesima maniera della finale dei Mondiali 2006, con Zidane espulso anzitempo, i media a spodestare il campione, a occupare militarmente la scena. Ovviamente, McCarthy, di cui consiglio non solo questa raccolta di saggi, “Macchine per scrivere, bombe, meduse”, ma anche il racconto “C”, vera e propria esplosione postmoderna, non si limita a fare una sintesi di queste due opere, ma le mette in relazione, come mette in relazione la narrazione all’interno di queste due storie, l’utilizzo della lettera Z nel caso Zinedine Zidane vs Materazzi lo manda letteralmente in brodo di giuggiole, fatemi usare un’espressione passatista, da amante delle parole e dei giochi con le parole non posso che capirlo. A me interessa invece provare a usare Zidane e il Zidane di queste due opere, quei due punti di vista lì, per provare a raccontare altro, qualcosa che abbia a che fare con la musica, seppur il film in questione abbia una strepitosa colonna sonora a firma Mogwai che non posso che caldeggiarvi, così, en passant.
È da qualche tempo che provo a lambiccarmi su quella che potrebbe essere una qualche via di sopravvivenza della musica leggera. O al più, una dignitosa via d’uscita, definitiva. Non perché io abbia notizia certa della sua prossima morte, ma perché, a occhio, mi sembra evidente che quella è la fine che si sta incamminando a larghe falcate a fare, e perché, onestamente, credo che in certi casi la morte non sia affatto il male maggiore. Seppur, infatti, è evidente che le evoluzioni tendano sempre a fare i conti con le radici, ma rivedendole e spesso anche snaturandole, mi sembra clamorosamente palese che l’allontanarsi incauto che la musica contemporanea ha fatto da tutta la musica tradizionale, anche il Blues che ha dato vita al Rock e poi anche al Rap è una musica tradizionale, per intendersi, sta portando tutto a fondo, come un branco di lemmings, dubito i lemmings diano vita a un branco, ma tra branco, stormo, mandria e gregge branco mi sembrava il meno buffo, quindi branco sia, ci siamo capiti, che si precipita correndo e inconsapevole verso il fatidico burrone, abbia in qualche modo generato una accelerazione di quelle che, quando succedono in un film o in un romanzo, diciamo pure all’interno di una trama, portano a dar vita a quegli eventi che fanno poi catalogare il film o romanzo in questione sotto il genere “apocalittico”. Quindi quell’accelerazione lì, e Zinedine Zidane, la sua malinconica non fine e il suo farsi lente di ingrandimento sui tic del nuovo millennio, esattamente per come ce lo hanno raccontato Toussaint nel suo libro e Gordon e Parreno nel loro film.
Chi, oggi, potrebbe gestire una prematura fine trovando il gesto giusto per negare l’indegno spettacolo di un finale capace di portare quel nome, la malinconia del cartellino rosso, la sconfitta, il silenzio? E come, quell’ipotetico alfiere potrebbe mai incarnare l’essenza stessa del nostro tempo, qualsiasi sia l’essenza del nostro tempo? Ovviamente se avessi trovato anche una risposta, oltre alle domande, la avreste trovata spoilerata incresciosamente nel titolo, con tanto di foto a corredo del tutto. Invece, la scrittura, credo, dovrebbe servire anche a porre domande, non solo a dare rassicuranti e consolatorie risposte.
La testata al petto del difensore guascone, innominato, non è ancora stata inferta, la coppa sta ancora lì, indecisa sulle mani di chi finire, le diciassette telecamere non perdono un frame, quel modo così simile a un tic di spostare l’erba con lo scarpino. Neanche la soddisfazione di un fuoriclasse che sappia come ci si deve muovere in certe occasioni, cara musica, ti pensavi animata da campioni, ma sembra proprio che dobbiamo tutti accontentarci di una certa dozzinale ordinarietà.