Milano anno zero: la metropoli sta morendo e con lei tutto il settore musicale

L’impressione è che la macchina discografica, per non dire di quella del live, sia proprio evaporata


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Credo che non sia un segreto. Chiunque di voi abbia dato negli ultimi mesi uno sguardo a un qualsiasi giornale, ascoltato un qualsiasi talk di approfondimento in tv o in radio, o magari si sia limitato a seguire i discorsi e i video sui social del sindaco di Milano, Beppe Sala, è venuto a conoscenza del fatto che, sembrerebbe, questa la narrazione vigente, Milano sia in agonia. Il centro è desertificato, questo ci dicono, i palazzi delle multinazionali svuotati, bar e ristoranti senza clienti, serrande dei negozi che non si sono mai alzate, mezzi semivuoti e neanche l’ombra di un turista. C’è traffico, parecchio pure, per contro i mezzi pubblici, anche a scuole iniziate rimangono vuoti. C’è una carenza incredibile di insegnanti, caratteristica in realtà presente anche gli anni scorsi, ma quest’anno si rasenta la defezione totale, complice le graduatorie stilate dal MIUR del valore della carta igienica, come del resto sembra si stia delineando come una debacle tutto quel che riguarderà le iscrizioni universitarie e l’arrivo su al nord dei tanti studenti o neolaureati in cerca di un futuro migliore. Abbiamo letto tutti e sentito tutti, sempre lì, dell’idea di uno smart working, il nemico giurato di Sala, appunto, quel lavorare in casa erroneamente chiamato così, perché tutto è fuorché smart, fatto in remoto, dal sud, prevalentemente, di qui il neologismo south working, o dai borghi, i tanto acclamati borghi che, in assenza della possibilità o della volontà di andare all’estero quest’estate, sono stati letteralmente presi d’assalto dai turisti italiani, me compreso.

Insomma, uno scenario apocalittico, la metropoli che muore, il motore dell’economia italiana che si spegne, le periferie che prosperano, seppur in assenza dei tanti che da fuori venivano a vivere e lavorare in città, alla faccia dei bar del centro che chiedevano dodici euro per un tramezzino e un caffè. Restava solo da capire, ma sono dettagli di poco conto, quando si tratta di narrazione, anzi, siamo a Milano, di storytelling, se Milano sia davvero in agonia o non sia piuttosto già morta, ferita fatalmente dalla pandemia e dal lock down, ancor prima che la prevedibile e prevista crisi economica qui da venire dia il colpo di grazia.

Ora, ho citato a più riprese la parola narrazione, ho anche proposto la variante cool storytelling, parole abusate, oggi, straabusate. Ma sto parlando di Milano, e se una cosa Milano ha fatto negli ultimi anni, diciamo dalla vittoria di Pisapia, dall’Expo e ancor più da che Beppe Sala ha preso le redini del comando dando una mano di smalto alla nouvelle vague arancione iniziata un quinquennio prima, è stata proprio raccontarsi. O lasciarsi raccontare. Di colpo la città del fare, del lavorare, del produrre si è trasformata in una sorta di Roma con meno monumenti, molti meno monumenti, ma una capacità di divertirsi e fare cultura che a Roma sembrava disperso con i cumuli di monnezza almeno dall’amministrazione Alemanno. Sala questo ha fatto, ha rallentato il ritmo della narrazione, avete presente tutti i calzini arcobaleno, i selfie con Ghali, le borracce gretiane consegnate con Mengoni, ha empatizzato una modalità di vivere la vita che fino a quel momento era stata sicuramente più nervosa e frenetica, ma che soprattutto aveva l’insana capacità di stare sul cazzo a tutti, ma proprio tutti, quelli che non ci erano nati o non ci erano andati a vivere. Anzi, anche di buona parte di quelli che ci erano andati a vivere, perché non è che andare a vivere in una città significhi sposarne l’essenza o l’attitudine, va detto, ma magari semplicemente doverlo fare per necessità, perché lì c’è il lavoro, le aziende, la possibilità di rimboccarsi le maniche e fare.

Sala ha fatto sì che gli aperitivi, che ovviamente nell’immaginario sono roba da fighetti che usano uno slang da film con Jerry Calà o un monologo di Pucci, divenissero il simbolo di una voglia di stare insieme, ha reso le tante iniziative cittadine, parlo delle tante Weeks che compaiono giustamente nei meme perculanti sui social, dalla Fashion Week alla Music Week, passando per quella del Mobile, coi suoi Fuori Salone e i Fuori Fuori Salone, e tutte le altre, una sorta di fil rouge del vivere sempre sul pezzo, ha reso la città che nel mentre aveva chiuso i locali della musica, perso pezzi di editoria, visto trasformare le tante radio locali come in pezzetti di network sempre più concentrici, la sede spirituale di una nuova Arcadia, come se di colpo non ci fosse altro posto in Italia dove valesse la pena vivere per chi, in effetti, amava vivere.

Di più, come se non ci fosse un solo altro posto in Italia capace di essere al passo coi tempi, un piede nella nostra storia millenaria e uno proiettato verso il futuro, una metropoli europea, il sogno della città metropolitana, quello sfumato definitivamente con l’annessione di Monza e la Brianza tra le province, quando ancora esistevano le province, sempre lì, le Olimpiadi invernali pronte a subentrare laddove era stato l’Expo, nel caso di Sala, incautamente e non tutto pertinentemente, il suo Expo.

Le Olimpiadi Invernali a Milano, capite quanto lo storytelling possa fare.

Solo che è arrivata la pandemia.

E con la pandemia il lock down.

E col lock down la fine.

O l’inizio della fine.

A un troppo incauto #MilanoNonSiFerma è subentrato uno stallo doloroso, le sirene che tagliavano un’aria finalmente non inquinata, un accerchiamento che alla fine è diventata conquista.

Milano si è fermata, in effetti. E non è stata capace di ripartire. Sala lo ha capito, ma non ha saputo reagire da leader, forse perché la sua vera capacità è stata quella di guidare una nave già in mare aperto, stare in mezzo agli scogli, Schettino insegna, è altra faccenda.

Così ci sono state le tante, troppe uscite fuoriluogo. Gli attacchi a chi è rimasto a casa a prendere lo stipendio nel suo stigmatizzare lo smart working. Il suo sfanculare Solinas per aver chiesto il passaporto sanitario. Gli atteggiamenti da sceriffo verso chi ballaza in via Bixio o andava a prendersi l’aperitivo ai navigli. Quel dire che a Milano si deve lavorare “non per vezzo”. I video con Ghali, Cristo santo, Ghali, sempre lui, quelli che ci spiegano perché Milano è Milano, ostentando una diversità che non esiste, che in città nessuno riconosce come sua, Lambrooklyn, ma dai, davvero?

Insomma, il racconto si è inceppato. Anche quello.

La ripartenza è avvenuta con le saracinesche di bar, negozi e ristoranti che sono rimasti chiusi, non tutti ma molti, le sue previsioni, quelle di Sala, parlando di quasi un settanta per cento a rischio dopo l’estate, gli studenti non sono tornati, le iscrizioni sembrano in calo, gli affitti hanno avuto un crollo, e le multinazionali o più in generale le grandi aziende, non hanno riaperto come da lui auspicato. Del resto non hanno riaperto anche parte degli uffici comunali, non è che si possa pretendere che a muoversi siano sempre gli altri.

La paura di un nuovo lock down è qualcosa che attanaglia il resto del paese, lo si capisce da certe titubanze, da quel permanere di terrorismo nel dare dati e sciorinare dati, ne parlano ormai apertamente i TG e anche i politici stessi, Conte in testa, con quel dire “non ci sarà un lock down” che è un po’ come quel “tranquillo, non sentirai niente” che ci riporta a quando da bambini ci stavano per fare le punture o mettere i punti dopo una brutta caduta, ma a Milano la vera paura sembra essere altra, il non poter tornare quella che era.

Non parlo di imminenza, quello direi che è da escludere a priori, riuscissimo a scampare il già detto lock down sarebbe da andare a piedi a Loreto, parlo di non poter tornare più quella che era, un ruolo, quella di città più visitata dai turisti, di città con miglior sindaco di Italia, di traino del paese in Europa e al suo interno, puf, svanito nel nulla.

Le parole del sindaco si sono fatte sempre più cupe, l’idea di non candidarsi lasciata trapelare a più riprese, seppur con repentini cambi di rotta, l’attacco contro la decentralizzazione e lo smart working sempre più cariche di livore, come fosse una questione personale, una sorta di faccenda da risolvere volendo anche a mani nude. Così oltre ai suoi lai di allarme sono arrivati gli articoli, i discorsi nei talk, gli editoriali.

Molti hanno paragonato, azzardato arriverei a dire, il futuro prossimo di Milano a quello delle altre grandi metropoli europee, da Parigi a Londra, qualcuno anche di New York, e sono tutti futuri cupi, da Blade Runner, da The Walking Dead. Morte, distruzione, devastazione. Una Milano abbandonata, le strade in balia di bande alla The Warriors, i ponti con macchine rovesciate e elicotteri a sparare a chi volesse entrare e uscire, come in 1997 Fuga da New York di Carpetner.

Da Paolo Mieli all’ultimo stronzo tutti hanno ipotizzato che il futuro sia lavorare per una grande azienda del nord standosene in Salento, lu fuecu, lu ventu e il reggaeton in spiaggia, magari generosamente non considerando che le grandi aziende del nord non saranno proprio del tutto intenzionate a lavorare con gente coi piedi a mollo nel mare cristallino e un mojito in mano, anche se l’ipotesi di non dover pagare più affitti stellari, e soprattutto di avere i lavoratori full time senza pagare mense, navette aziendali, assicurazioni, luce e altro non è affatto male, un futuro che di colpo si è fatto realtà.

Ora, non mi occupo di leggere le carte, quello lo hanno fatto alla grande gli astrologi che non hanno previsto chiaramente un cazzo, né ho la capacità di prevedere sul breve e lungo periodo quel che sarà di una città complessa e complicata come Milano. Capisco anche, e poi giuro che passo a dire cosa volevo dire già qualche riga sopra, che parlare di Milano, per chi a Milano non vive, abbia lo stesso interesse che può avere seguire una telepromozione di Tina Cipollari e Maria De Filippi, ma a Milano risiedono tutte le major discografiche, i principali network radiofonici, i promoter, Spotify e un po’ tutti gli attori che muovono il sistema musica, non è che se si vuole parlare di musica lo si possa fare in assenza del suo cuore nevralgico.

Per cui provare a ragionare sul futuro che attende la città nella quale ho la ventura di vivere da ventitré anni proprio in questi giorni, ha risvolti che scivolano fuori dal mio vissuto personale e si incamminano a larghe falcate verso un discorso generale, universale, addirittura.

Torno un attimo a parlare di psicogeografia, quella disciplina fermata teoricamente da Guy Debord e i Situazionisti, ma figlia delle divagazioni di intellettuali anche precedenti, da Walter Benjamin a Daniel Defoe, disciplina che intende raccontare un luogo, lo spirito di un luogo, a partire dalle storie che questo luogo ha prodotto e raccontato, dando quindi una spiegazione umanistica dell’urbanistica e ipotizzandone sviluppi assolutamente non canonici. Torno a farlo andando a ripescare quell’autore grazie al quale io, personalmente, ho incontrato per la prima volta la psicogeografia, disciplina che, come Scajola, praticavo a mia insaputa sulle pagine di GenteViaggi e in quelle dei miei libri di viaggio, e che ha dedicato e ancora dedica la sua esistenza a raccontare psicogeograficamente Londra, la sua città.

Ecco, io e Gianni Biondillo, undici anni fa, abbiamo fatto un giro delle tangenziali di Milano, la est, la ovest, parte della nord e dell’autostrada A4 che la costeggia, a piedi. Ne abbiamo tratto un libro, Tangenziali, due viandanti ai bordi della città, uscito per Guanda nel 2010, dieci anni fa e qualche mese. Un libro che in qualche modo ha fatto scuola, vi ho già raccontato di come Gianfranco Rosi ci sia andato a vincere un Leone D’oro con la sua versione romana e cinematografica, Il Sacro Gra, vi ho già raccontato di come questo libro sia finito, mio malgrado, perché Biondillo è sicuramente la parte più seria della coppia, architetto oltre che scrittore, nei corsi di urbanistica di non so quante università in giro per l’Italia, con il mio coautore che è anche andato a insegnare proprio psicogeografia presso l’Università di Mendrisio. Insomma, Tangenziali è tuttora un libro che ha un senso, ma probabilmente, questo ci dicono le cronache e gli editoriali di cui sopra, la Milano che raccontiamo è morta, o in procinto di morire, quindi quella che è una panoramica rischierebbe oggi di diventare una autopsia.

Roba da zombie, mentre noi cantavamo qualcosa che aveva più a che fare con il Lynch di Paris, Texas.

Del resto io, dieci anni fa, avevo momentaneamente messo da parte la mia carriera da critico musicale, onestamente poi esplosa come mai prima, e a parte la presenza di alcune cantautrici, da Eleonora Tosca poi divenuta Eleviole? a Roberta Carrieri, nostre compagne in un paio di tappe, la musica non è molto presente in quelle pagine, fosse solo per questo oggi quel racconto sarebbe assai diverso, almeno la mia parte. Dico tutto questo non perché io e Biondillo abbiamo intenzione di farci un’altra sgambata lungo gli oltre ottanta chilometri di circonferenza esterna della città, quel viaggio non ci vedeva mai lontani da quell’anello che circumnaviga Milano, semmai dovrei proporre al mio socio di provare a raccontare la Milano che oggi sembra più fondante, il centro, cosa che per altro né io né lui abbiamo intenzione di fare nelle prossime settimane.

Se infatti allora ci interessava fuggire dai luoghi della narrazione, quello storytelling era appena agli inizi, Expo all’orizzonte, campagna elettorale di Pisapia alle porte, quindi lontani dalle vie del centro, immersi fino al collo nelle periferie, addirittura nelle strade poco percorse dagli uomini perché preposte a essere percorse dalle macchine e dalle macchine soltanto, stavolta credo che sarebbe fondamentale andare a raccontare il centro desertificato, l’assenza di turisti e completi grigi, le saracinesche abbassate e i palazzi degli uffici con le luci spente.

Terra di conquista, per altro, in questo Sala ci ha messo del suo scegliendo come testimonial Ghali, Ghali, vi rendete conto?, che in realtà è di Baggio, e Miss Keta, la queen di Porta Venezia, della trap, che nonostante abbia come alfieri i figli della periferia, si veda ai vari Rkomi, da Calvairate, Ernia, da Bonola, e compagnia cantante, è stata costantemente usata come colonna sonora di questi ultimi anni di empatica riconquista del bello, sorta di stortura narrativa senza precedenti, come chiamare Marty Feldman come testimonial per un centro estetico, musica che come è noto per me andrebbe bandita per editto regio, quella sì esternazione della decadenza dell’impero la cui scomparsa mi vedrebbe più come il Roy Keane che urla il proprio odio a Haaland in terra con la caviglia spezzata che come chi piange la morte del proprio fiero avversario. 

Ecco, ben conscio che tutto ciò non si realizzerà, io e Biondillo negli anni abbiamo ipotizzato decine e decine di progetti che poi non abbiamo portato a termine, fondamentalmente perché siamo due scrittori e la parte dell’immaginare ci interessa assai più di quella in cui l’immaginare si trasforma in fare, da quella volta che abbiamo pensato di risalire il Mississippi a quella in cui volevano ridiscendere lungo il Po, passando per l’idea di una cover band degli Insane Clown Posse, vi immaginate io e lui con le facce dipinte da clown cattivi, costantemente in boxer e a torso nudo come Ninja dei Die Antwoord, a quell’altra, la più interessante, credo, nella quale volevamo ripercorrere le linee sotterranee della nascente MM4 di Milano, accompagnati da amici musicisti, andando a creare sonoramente e narrativamente qualcosa di non troppo diverso da quanto Joe Henry e Billy Bragg hanno fatto con l’album Shine a Light, ecco, ben conscio che tutto ciò non si realizzerà mi sembra che allestire un parallelismo tra l’apocalisse che incombe su una Milano mai come oggi lontana dai fasti recenti e di quando era la Milano da bere e la profonda crisi che sta vivendo il mondo della musica, le case discografiche che non stanno praticamente tirando più fuori album, tutti o quasi intimoriti di proporre musica che non potrà essere eseguita dal vivo a breve, i promoter in crisi perché, di fatto, hanno perso un anno di lavoro, vedi sopra, Spotify che si è dimostrata per quel che è, una piattaforma senza vita che ha a cuore la musica tanto quanto Goicoechea aveva a cuore le caviglie di Maradona, dopo l’emorragia di abbonamenti Premium durante il lock down e la conseguente dimostrazione che in effetti gli streaming non generino nessun tipo di economia, ben lo sanno gli artisti, destinata a prossima chiusura, morto un papa se ne farà un altro, i network radiofonici ancorati a un passato che, in quanto tale, non ha nessuna intenzione di riproporsi come attuale, gli operatori dello spettacolo, leggi alla voce maestranze, quelli cui le multinazionale del live hanno finto di voler dare un aiuto con quelle pagliacciate andate in scena recentemente dalle parti dell’Arena di Verona, nei fatti una vetrina per le solite facce, spesso in playback, alla faccia delle maestranze, destinate a una prematura scomparsa, perché chi non lavora non fa l’amore e neanche fa pranzo e cena, ecco, ben conscio che tutto ciò non si realizzerà mi sembra che allestire un parallelismo tra l’apocalisse che incombe su una Milano e quella che ha già devastato il mondo della musica sia opera buona e giusta. Dovuta, addirittura.

Usare gli sviluppi o le involuzioni della Milano città per provare a ipotizzare sviluppi o involuzioni del sistema musica, questa l’idea, il progetto.

Almeno Milano è ancora qui, l’impressione è che la macchina discografica, per non dire di quella del live, sia proprio evaporata, impossibile aggirarcisi, anche metaforicamente.

Perché il problema, sempre che si possa semplificare così una crisi che in realtà, lo so bene io che la canto da anni, parte da assai lontano, è che nel caso del sistema musica non sembra prevista una modalità smart working, e soprattutto non esiste l’ipotesi di una decentralizzazione. Nessuno che possa ipotizzare un futuro coi piedi a mollo in mare, il PC appoggiato sulle ginocchia, per intendersi, solo la morte nera, gli zombie, terra arida e bruciata ovunque.

Dopo aver raccontato questo scenario, la fine imminente, credo sia arrivato il momento di tornare a guardare a Milano, almeno riprendo un po’ a camminare e ritorno a dare un senso alla dieta che sto portando avanti da un paio d’anni.

Non mollerò ovviamente la musica, anzi, soprattutto chi la sta affossando, sono lì sopra la sua testa che urlo, come Roy Keane che ha appena spezzato le gambe a Haaland. Io non dimentico.