The End Of The Game: addio a Peter Green lo strepitoso chitarrista che ha fondato i Fleetwood Mac

Alcuni anni fa dedicai un lungo Needle a Peter Green e ai suoi Fleetwod Mac, ecco la sua storia attraverso vinili e video


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Lo strepitoso chitarrista che ha fondato i Fleetwood Mac è volato nell’altra dimensione.

Sabato a mezzanotte, appena iniziata la diretta dell’ultimo Let’s Spend Saturday Night Together dove volevo salutare i tanti che mi seguono prima delle vacanze, qualcuno mi ha scritto un post dove mi informava della morte di Peter Green.

Noooooo.

Peter è uno dei miei chitarristi preferiti in assoluto. I dischi che ha fatto con i suoi Fleetwood Mac sono strepitosi. Sto parlando di quelli degli anni ’60, che nulla hanno a che vedere con il boom che la band ebbe nella decade successiva, a partire dall’enorme successo di “Rumors”.

In quel periodo, in cui i suoi vecchi compagni della band si godevano il primo posto in tutte le classifiche mondiali, Peter Green era sparito dai radar, tanto che in molti lo hanno paragonato a Syd Barrett dei Pink Floyd, i due geni che hanno fatto il grande rifiuto e se ne sono andati.

Ho conosciuto i Fleetwood Mac grazie a una recensione di Carlo Basile sul mensile (che mensile non era perché usciva ogni tanto) OFF-SIDE. Lo avevo iniziato a comprare per i fumetti di Bonvi e avevo scoperto le recensioni di Carlo Basile, in una delle quali esaltava l’album “Then Play On” del Fleetwood Mac, e aveva ragione. Così sono andato a comprarmi tutti i loro dischi precedenti, compreso “A Hard Road” di John Mayall, dove tra i suoi Bluesbreakers c’era appunto Peter Green, che aveva sostituito Eric Clapton che se ne era andato per formare i Cream.

Nei Fleetwod Mac la chitarra di Peter Green, che cantava anche, ha dipinto capolavori come: “Black Magic Woman”, “Oh Well”, “Albatross”, “Need your love so bad” per non parlare di tutto l’album “Then play on”.

Poi, all’improvviso, Peter ha abbandonato il gruppo e pubblicato un album solista che alcuni definiscono il disco più strano e avveniristico di quel periodo a cavallo tra due decadi: “The End Of The Game”. Suoni psichedelici, jazz, con una chitarra mai sentita piangere o graffiare così, svincolata da ogni regola fin qui scritta sul pentagramma del rock. L’album si concludeva con un rumore sordo, come di puntina del giradischi che viene colpita e graffia violentemente i solchi. Questo rumore fastidioso arrivava dopo una serie di note dolcissime della chitarra. Ed era la fine del gioco. Peter Green è sparito per almeno 9 anni. Le leggende raccontavano che fosse andato a lavorare in un ospedale psichiatrico, dove poi era stato ricoverato. Dicevano anche rifiutasse i soldi delle royalties che gli arrivavano dai tanti brani che aveva composto e dai dischi che si vendevano moltissimo. Sicuramente l’abuso di LSD aveva influito in questa suo stato mentale.

Improvvisamente è tornato nel 1979 con un album “In The Skies”, che immediatamente comprai e ascoltai eccitatissimo. Un buon disco di blues delicato, ma il Peter Green che conoscevo e amavo alla follia non c’era più. La conferma la ebbi quando andai a vederlo dal vivo e lo intervistai. Ero curiosissimo di sapere tutto, perché “The End Of The Game”, perché aveva abbandonato tutto… Lui mi guardò con dolcezza e rispose:

“Non so. Non ricordo, è passato tanto tempo”

Alcuni anni fa dedicai un lungo Needle a Peter Green e ai suoi Fleetwod Mac, dove ne raccontai la storia attraverso vinili e video. Ecco quel Needle Story:

La storia di “The End Of The Game” mi ha affascinato tanto che l’ho raccontata spesso e coinvolsi anche mio fratellino Fabio nel fascino di questo disco e della vicenda di Peter Green.

Due anni fa sono andato a trovare Fabio all’ospedale, prima di partire per il Fiat Music di Bari. Stava molto male e aveva perso tutta la sua determinazione nel reagire. Mentre faticosamente si metteva in ginocchio sul letto mi ha guardato e ha detto:

“The end of the game”

Ho capito che sapeva di essere arrivato alla fine del gioco e con quella frase che potevo capire solo io mi ha salutato.

Ero a Bari tre giorni dopo quando ho ricevuto la notizia che era volato nell’altra dimensione.

Ciao Fabio e adesso ciao Peter.

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